Google: in Italia omessa dichiarazione dei redditi per circa 900 milioni di euro

Secondo una recente ricostruzione del Sole 24 Ore, l'Agenzia delle Entrate starebbe combinando una multa con importo decisamente elevato al colosso del web americano.
di Rosario Grasso pubblicata il 27 Giugno 2024, alle 15:41 nel canale WebL'Agenzia delle Entrate ha contestato a Google una presunta evasione fiscale di circa un miliardo di euro, secondo quanto riportato dal Sole 24 Ore. L'accusa si basa sulle indagini del Nucleo economico-finanziario della Guardia di Finanza di Milano, che sostiene che Google abbia una "stabile organizzazione immateriale in Italia", simile a quella che ha portato Netflix a pagare 55,8 milioni di euro nel 2022.
Sette anni fa, Google aveva già pagato 306,6 milioni di euro al fisco italiano per sanare contenziosi pregressi. Ora, è accusata di una nuova evasione fiscale, stimata in circa 900 milioni di euro, relativa a una presunta omessa dichiarazione dei redditi tra il 2015 e il 2020. Le verifiche fiscali ipotizzano che Google abbia una sede d'affari in Italia e che abbia evaso imposte per 108 milioni di euro, oltre a non aver versato royalties per 760 milioni di euro. L'Agenzia delle Entrate ha quindi chiesto a Google di pagare un miliardo di euro, inclusi interessi e sanzioni.
Proprio la multa comminata a Netflix stabilisce un cambiamento significativo da parte dell'erario italiano rispetto alle grandi realtà tecnologiche internazionali. Per la prima volta si parlava di organizzazione stabile per un'azienda senza alcun dipendente umano presente nel territorio nazionale. La presenza di più di 350 server distribuiti in Italia spingeva, infatti, l'Agenzia delle Entrate a procedere contro Netflix, in un caso più unico che raro a livello globale.
Tornando a Google, la questione della presunta evasione fiscale del colosso di Mountain View risale al 2016, quando si scoprì che i pagamenti degli inserzionisti pubblicitari italiani finivano alle Bermuda tramite società irlandesi e olandesi. Google era accusata di avere una stabile organizzazione occulta in Italia dal 2009 al 2013. Per risolvere la disputa, Google pagò 306,6 milioni di euro.
Google Italy, una filiale di Google International Llc, ufficialmente forniva servizi di consulenza e assistenza nel marketing, ma in realtà fungeva da stabile organizzazione per gestire contratti con clienti italiani, che venivano formalmente firmati in Irlanda ma preparati a Milano.
Il sistema prevedeva che Google Ireland Ltd pagasse royalties a Google Ireland Holding, detentrice della proprietà intellettuale dell'algoritmo del motore di ricerca, riducendo così la base imponibile in Irlanda. I profitti venivano poi trasferiti alle Bermuda, esentasse. Inoltre, per evitare una ritenuta d'acconto del 12,5% in Irlanda, i ricavi passavano attraverso Google Netherlands Holdings, una società di comodo, prima di tornare in Irlanda e poi alle Bermuda.
Questa complessa struttura di evasione fiscale è stata smantellata grazie all'inchiesta italiana, che ha portato a controlli in altri paesi. Tuttavia, non significa che Google abbia smesso di cercare modi per ridurre al minimo le tasse. Ed è di questo che si sta parlando, ovvero di strutture per evitare di pagare pienamente le tasse in Italia e in altri paesi, non di un'evasione fiscale totale. Inoltre, il meccanismo incentrato sul concetto di "stabile organizzazione immateriale" potrebbe toccare altri colossi oltre a Google.
16 Commenti
Gli autori dei commenti, e non la redazione, sono responsabili dei contenuti da loro inseriti - infoBeh dai che sarà mai..
Beh dai capita a tutti, no?Invece probabilmente si accorderanno per meno.
Non ho capito, ma questi server chi li gestiva?
L'uno non giustifica l'altro.
Ma chi continua a puntare il dito contro uno,
è complice dell'evasione dell'altro.
è complice dell'evasione dell'altro.
e questa da dove l'hai tirata fuori?
Su questo argomento apre oggi Il Sole 24 Ore, con due pagine di analisi del tema.
“Le entrate tributarie corrono – si legge -, riconosce la Corte, ma ad alimentarle è quasi solo chi paga le tasse in modo spontaneo, in una platea che cresce anche grazie alle azioni di compliance. Perché quando il Fisco prova a chiamare alla cassa chi non si presenta da solo, i risultati sono più che modesti.
E dalle analisi della magistratura contabile emerge un quadro in cui chi non paga le tasse ha probabilità ampie di evitare le verifiche, e quando vi incappa preferisce non rispondere alle richieste dello Stato preferendo vedersi recapitare un’iscrizione a ruolo nella speranza concreta di vedersela rottamare; quando la rottamazione arriva, poi, molti aderiscono, versano la prima rata e poi tornano a scomparire”.
Il quotidiano cita Enrico Flaccadoro, presidente di coordinamento delle sezioni Riunite in sede di controllo, secondo il quale solo poco più del 20% delle somme richieste con gli avvisi bonari viene corrisposto e meno del 30% di quelle legate alle contestazioni di bonus e altre detrazioni giudicate illegittime.
Le rottamazioni iniziate e poi “dimenticate” vengono dipinte come “veleno”, perché esiste una consistente aspettativa che seguano altre rottamazioni dai governi e, con esse, la reiterazione dei mancati pagamenti. La “pace fiscale”, dunque, poggia sui mancati incassi: il magazzino della riscossione è ormai salito oltre quota 1.200 miliardi di euro.
“Questo – spiega il quotidiano economico – accade perché la “guerra” del Fisco contro l’evasione non appare esattamente a tutto campo, sempre a leggere i numeri della Corte dei conti. Gli accertamenti, cioè la mossa principe dell’amministrazione a caccia di chi non dichiara, sono in continua flessione. Lo scorso anno sono stati circa 175mila, cioè il 7,5% in meno del 2022, ma nel confronto con il 2019 il contatore segna un crollo del 34,4% (102mila in meno).
Le ragioni sono due: la prima è «la riduzione di personale verificatasi nel tempo, e a cui nel 2023 si è cominciato a far fronte» con un piano di nuove assunzioni che solo quest’anno dovrebbe produrre 4.113 nuovi ingressi. Ma molti ostacoli continuano a impedire «un pieno e completo utilizzo delle banche dati tributarie e, in particolare, di quelle relative alle fatture elettroniche e ai rapporti finanziari». In pratica, il «grande fratello fiscale» domina il dibattito più della realtà quotidiana dei contribuenti. Lo sviluppo reale del perennemente evocato «incrocio dei database» è essenziale ma, avverte la Corte, da solo non basterebbe: perché «dovrebbe comunque essere affiancato da una maggiore frequenza dei controlli, non limitati alle posizioni rilevanti ma caratterizzati da un’azione più estesa, necessaria per contrastare l’evasione diffusa».
Insomma, il rischio reale di incrociare una verifica fiscale è modesto.
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