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Old 06-02-2008, 13:21   #1
dantes76
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Ricordate la tassa sul tubo? no, allora rinfreschiamo

Quote:
Dalla tassa sul tubo alla "patrimonialina"
25.11.2005
Il Governo ha varato una misura restrittiva sugli ammortamenti di alcune utilities regolate, eliminando la asimmetria tra vita regolatoria e vita fiscale degli impianti. Le reti energetiche avranno, anche a fini fiscali, ammortamenti più bassi e un reddito netto più elevato su cui pagare l'imposta. Se si è voluta colpire la capacità contributiva di imprese che hanno beneficiato di una regolazione generosa, perché fermarsi all'elettricità e al gas? Una tassa come quella imposta dal Governo inglese nel 1997 avrebbe prodotto esiti del tutto diversi.

Il Governo ha sostituito la cosiddetta tassa sul tubo, di dichiarata, ma poco credibile, finalità ambientale, con una misura restrittiva sugli ammortamenti di alcune utilities regolate, che aumenta la base imponibile. Che l’intenzione del Governo fosse quella di aumentare il prelievo su questa tipologia di imprese si era capito già da un intervento di Renato Brunetta che sottolineava la posizione monopolistica e l’elevato livello di profittabilità di queste aziende e quindi la loro capacità contributiva. (1)

La discrepanza tra aliquote


Ma vediamo la questione più in dettaglio. Per le imprese operanti nella distribuzione e trasmissione di gas ed elettricità vi era una forte differenza tra aliquote di ammortamento fiscali (più elevate) e quelle economico-tecniche utilizzate nei bilanci (più basse): in tal modo i profitti netti su cui calcolare le imposte risultavano minori grazie agli ammortamenti più elevati. Le stesse imprese procedevano poi ad accantonare nel bilancio cospicui fondi a fronte di un pagamento effettivo dell’imposta inferiore a quello riportato nel conto economico.

Questa discrepanza tra aliquote è "venuta alla luce" in occasione della revisione delle tariffe prevista alla fine del primo periodo regolatorio, nel dicembre 2003. In quell’occasione, che coincideva con la fine del primo settennato dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, si disse che il Governo aveva appoggiato la richiesta dell’Enel (e di Terna) di riconoscere un capitale investito netto allineato a quello delle imprese elettriche europee anche attraverso una modifica delle "vite utili". L’effetto sulle tariffe fu pressoché nullo, ma il mercato azionario apprezzò la rivalutazione del capitale investito quale elemento di stabilità regolatoria. La Snam già dall’avvio della regolamentazione beneficiava di una impostazione simile.
Oggi il Governo ha deciso di eliminare la asimmetria tra vita regolatoria e vita fiscale degli impianti: quindi le "reti energetiche" avranno, anche a fini fiscali, ammortamenti più bassi e si troveranno un reddito netto più elevato su cui pagare l’imposta. Per il pagamento potranno però utilizzare i fondi patrimoniali accantonati a suo tempo: di qui la trovata, tutto sommato geniale, di aumentare l’imposizione senza ridurre i profitti netti (a meno dell’effetto dei maggiori interessi passivi dovuto alla sostituzione dei fondi di accantonamento d’imposta con debito). Né mi pare che qui, assumendo la continuità della vita dell’impresa, valga la critica che si tratta di un anticipo di imposte future. A tutti gli effetti, è una imposizione fiscale su un fondo iscritto in bilancio. Non è chiarissimo, leggendo la norma, se durerà più di un esercizio.

Quali effetti sulle tariffe?


Due questioni si possono porre: ci sarà un effetto sulle tariffe? Si poteva fare diversamente?

Liquidiamo il primo quesito con la risposta: "dipende". In particolare, dipende dall’Aeeg: le tariffe sono legate ai costi, incluse le imposte; sarà una scelta del regolatore se considerare l’imposta un evento straordinario che richiede una revisione tariffaria prima della scadenza del corrente periodo regolatorio oppure se le utilities dovranno attendere qualche anno.
La risposta alla seconda domanda chiama in causa l’equità. Il Governo dirà che non ha fatto altro che allineare le aliquote fiscali a quelle effettive e a quelle riconosciute dal regolatore. Permane però il dubbio che si sia voluta colpire la capacità contributiva di imprese che hanno beneficiato di una regolazione un po’ generosa. Ma allora perché fermarsi all’elettricità e al gas? La risposta (ovviamente del tutto congetturale) è che il Governo, oltre a poter variare le aliquote di ammortamento, è l’azionista di maggioranza (con i relativi poteri di nomina): le finanze dell’Enel, di Terna e della Snam non sono poi tanto "separate" dalle finanze del Governo. La ennesima riprova, ci sembra, che prima si completa la privatizzazione meglio è.

Guardando a Blair

Una tassa à-la Blair avrebbe prodotto esiti del tutto diversi. Si ricorderà che il Governo inglese nel 1997, resosi conto che gli azionisti delle imprese privatizzate e regolate avevano beneficiato o di un prezzo di collocamento troppo basso o di una regolazione troppo generosa, aveva imposto una tassa straordinaria sui profitti. Il modo in cui era stata calcolata la base imponibile era piuttosto discutibile. (2) Così come era discutibile il fatto che si tassassero gli azionisti di quel momento che potevano non coincidere con quelli che in passato avevano beneficiato di una regolazione generosa o di un prezzo di collocamento troppo basso. Anche qui, insomma l’equità (tra azionisti, non quella tra imprese che invece era rispettata) non rappresentava un punto di forza. E inoltre si incideva direttamente sulla redditività, anche se per un periodo limitato (due anni, impegno ovviamente rispettato).
Abbiamo provato a fare una piccola simulazione (parziale perché non abbiamo considerato tutte le imprese privatizzate e regolate) sia replicando il metodo inglese sia utilizzando direttamente il valore di mercato sulla base dei prezzi di Borsa.

Abbiamo trovato che l’Enel non avrebbe pagato nulla, mentre Telecom e Autostrade avrebbero dovuto tirar fuori diversi "euri". (3)
Per le imprese esaminate risulterebbe una base imponibile (stimata come differenza tra il valore dell’impresa al momento della privatizzazione e il valore dell’impresa ai prezzi del 25 ottobre, tenendo conto della percentuale collocata) pari a circa 37 miliardi di euro: sarebbe bastata anche una aliquota modesta (3 per cento; nel caso inglese fu il 23 per cento) per ottenere introiti pari a quelli che si otterranno con la misura introdotta dal Governo. D’altra parte, l’incremento di valore di queste due imprese appare molto elevato.
Con una windfall tax pura non vi sarebbe stata, probabilmente, la possibilità della soluzione "quasi indolore" di attingere ai fondi di accantonamento d’imposta e si sarebbe inciso sui profitti. La strada del decreto, toccando anche imprese totalmente private, sarebbe stata, inoltre, assai più impervia. Insomma, chi ha lo Stato come azionista di controllo si becca la patrimonialina.
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1872.html
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Old 06-02-2008, 14:12   #2
dantes76
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