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Old 15-04-2006, 17:31   #1
majin mixxi
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Religione e mafia

Francesco Merlo per la Repubblica


Da sempre la religione fornisce alimento alla mafia. Al punto che il padrino del rito religioso, il Godfather, è ormai l’archetipo del caposca. E il padrinato è diventato un’affiliazione mistico mafiosa. Vice padre, o "compadre", il devotissimo Bernardo Provenzano, mettendo la mano sulla spalla di tuo figlio, lo cresima e lo rende figlioccio per sempre.



E la stessa cresima si trasfigura. La bellezza e il fascino della liturgia, ragnatela che cattura la ragione, diventano coreografia dell´iniziazione, danno sostanza di sacramento alla "punciuta".

Nel covo di Provenzano abbiamo visto bibbie, altarini, santini di padre Pio e crocefissi. Ma è solo in questa esibita devozione che il miserabile padrino catturato nella sua Corleone somiglia al tenebroso padrino tipizzato da Marlon Brando. Per il resto, il padrino in carne e ossa non somiglia mai al padrino metafora del mafioso. In Sicilia gli omicidi di mafia non hanno le musiche di Nino Rota come colonna sonora. Nessuno dice al killer: «Live the gun and take cannoli», posa la pistola e prendi i cannoli. C’è però il segno della croce. Il padrino Provenzano prega e uccide, bacia il crocefisso e spara, recita la Bibbia e strangola.

Ed è passato nella simbologia mafiosa l’intero sistema penale dell’Inquisizione, che in Sicilia fu uno Stato nello Stato, e faceva pagare il pizzo sulla fede, costringendo per esempio il non cattolico, l’ebreo soprattutto, a versare multe e a cedere parte del patrimonio. Ed è sorprendente ritrovare tutta la ferocia dell’Inquisizione, con le sue punizioni spettacolari che sono quelle ancora oggi decretate da Riina e Provenzano. La faccia tagliata, per esempio, segno indelebile di infamia tra i mafiosi, era la tortura che la Chiesa infliggeva all’eretico. E il sasso in bocca è la variante mafiosa della mordacchia inquisitoriale, pena comminata al bestemmiatore. E si potrebbe continuare nell’illustrare il rapporto tra mafia e religione, che è davvero molto stretto e molto inquietante, e non solo perché i mafiosi sono padrini devotissimi e Provenzano porta al collo tre crocefissi.




Tuttavia, se si esclude la religiosità, mai i padrini somigliano al Padrino. E non è un problema di identikit, perché Provenzano appare comunque insignificante, rozzo, più vicino ai gabelloti e ai campieri che al Falstaff. Ci disturba questa micragnosità del male, ci umilia l’essere stati beffati da quell’ometto tutto pecore e pascoli, ovili e ricotta. Dov’è finito il presidente dell’Altra Repubblica, il capo dell’Antistato? È questo il padrino che ci ha tenuti in scacco per 43 anni? È fatto così un padrino?

Nella Sicilia orientale si chiama patrozzu, ed è una figura arcaica che con la mafia c’entrava poco. Il padrinato, "godparenthood", infatti è una struttura probabilmente precristiana che gli studiosi hanno ritrovato in tutte le società mediterranee, tra gli albanesi, tra i serbi, tra i montenegrini. È una tecnica di rafforzamento familiare, con il padre che chiede protezione per il proprio figlio e in cambio offre la propria protezione al figlio del "compadre", del compare, in un’alleanza interfamiliare. Del resto, il padrino-garante esiste anche nella struttura massonica. Più in generale, c’è il padrino in tutte le organizzazioni segrete e nelle prassi iniziatiche. Ancora oggi sono necessari due padrini per l’iscrizione ai circoli privati. Ci volevano quattro padrini per fare un duello. E anche nei partiti comunisti il nuovo iscritto doveva essere garantito da almeno due padrini.




Ma il padrino della mafia è il Godfather, il padre in nome di Dio. In inglese significa sia padrino sia compare. E sono italoamericani la fisiognomica mafiosa del Padrino e il potenziamento tribale dei riti e dei miti religiosi. L’incantesimo estetico delle vecchie cerimonie pietrificate dalla nostalgia, e persino la preghiera non sono più una manifestazione dello Spirito ma il dispiegamento pittoresco del potere interfamiliare tra gli immigrati, beduini senza Stato.

Insomma, è da lì che nasce la tipizzazione letteraria. Nella famiglia allargata degli immigrati il padrino della cresima esprime l’autorità carismatica dell’uomo di potere, con la battuta giusta al posto giusto, il riserbo ironico, la cattiveria divertente, il delitto come necessità profonda, poche e maschie parole piene di pensiero. Il contrario, come si vede, dei Riina e dei Provenzano, che sono parchi di parole perché poveri di pensiero.
È un codice che ha già prodotto la sua controtipizzazione letteraria, nei libri di John Fante per esempio. Ma è un codice che restituisce all’Italia e alla Sicilia una parola deformata dall´uso che se ne è fatto altrove. Il padrino è un tranello linguistico.



Prima di Mario Puzo non c’erano mai stati padrini nella mafia. Non ne parlano i mafiologi e gli storici, da Franchetti e Sonnino a Salvatore Lupo, non ne fanno cenno gli inquirenti, non ce ne è traccia tra i mafiosi.
Il padrino è un’invenzione del cinema americano, come il poliziotto rambo e l’avvocato Perry Mason. Ma in Sicilia non esiste. Brusca ha lo sguardo del macellaio inebetito e non quello penetrante di Robert Duvall. Liggio era uno psicopatico di campagna e non un Abramo biblico. Totò Riina è grasso e corto come Marlon Brando ma la sua pesantezza non appartiene al genere shakespeariano.

I padrini siciliani sono ammazzacristiani e non personaggi di Conrad. Leoluca Bagarella o Nitto Santapaola, detto il licantropo, sono rifiuti sociali, marginali perdenti, disgraziati la cui unica risorsa era la violenza, il delitto ottuso, con lo sguardo spento da secolari storie di famiglie diseredate e dalla pratica quotidiana di brutalità gratuite. Nella mafia siciliana esiste il capo, il don, lo zio, oppure "il Padrenostro" com´era Navarra a Corleone o "il Papa" Michele Greco che persino durante il processo rispondeva al giudice citando salmi e versetti.



Ma nella mafia siciliana non esiste il padrino. C’è, invece, la parrina nel gergo della criminalità palermitana, nel baccaghiu. Ma la parrina era la tenutaria del bordello. Parrina come deformazione di madrina, dunque: la piccola madre delle ragazze perdute. Ebbene, il parrinu, in quell’antico gergo dei bassifondi palermitani, è l’uomo della parrina, vale a dire il magnaccia, il parassita «tutto sesso e calze di seta» che il mafioso tradizionalmente disprezzava. Nel repertorio delle parole utilizzate dalla mafia, il parrino era dunque il piccolo pappone, il ricottaro, il delinquente infame di poco conto. Esattamente il contrario del temuto e rispettato capocosca. Del resto, se così non fosse, Leonardo Sciascia non avrebbe dato il soprannome di Parrineddu all’idealtipo dei confidenti di questura, «miserabili uomini, fango di paura e di vizio».

Se dunque il padrino è diventato il suo contrario è solo grazie alla religione fanatizzata custodita dagli immigrati. Al punto che il Godfather mafioso è ormai come il borghese di Balzac, il miserabile di Hugo, l’ebreo di Shakespeare, il capitalista di Marx. È finzione a cui si aggrappa la realtà per farsi leggere meglio. Ma la letteratura, che ha definitivamente trasfigurato il rito religioso del padrino, lo ha poi restituito alla realtà mafiosa con un corto circuito vita-cinema-vita. Il padrino cinematografico ha infatti imposto un linguaggio, un’estetica e un’epopea che sono per sempre lo stile della mafia.

Con quel film la testa mozza di cavallo diventa un annunzio di morte. Un cappello incartato con due pesci significa che la testa dell’uomo che lo indossava ora dorme in fondo al mare. «Gli faremo una proposta che non potrà rifiutare» è il modo mafioso di minacciare. Anche la preghiera è diventata sospetta. E così la confessione auricolare che assolve.
E nel battesimo si distribuiscono confetti e pallottole. L’eccesso di Dio nasconde sempre l’assenza di Dio. L’esibizione di Dio è sempre ateismo.
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Kotoshi mo yoroshiku onegai-itashimasu
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