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sedicenti capitani coraggiosi
Domenica 9 Ottobre 2005
Saggi/ Paolo Madron racconta così “il lato debole dei poteri forti”, gli ultimi cinque anni di capitalismo italiano, dalla scomparsa di Cuccia ai “furbetti del quartierino” di OSCAR GIANNINO Paolo Madron non è un giornalista alla Schopenhauer, il filosofo convinto che per via del loro mestiere i gazzettieri dovessero risultare per forza degli allarmisti pur di rendersi interessanti. Si muove da anni sulla china scivolosa del giornalismo economico, che nel nostro Paese risulta assai spesso più soggetto a pesanti limitazioni di quello politico, per via dei penetranti interessi che caratterizzano la struttura editoriale italiana. Eppure ha dimostrato, su Panorama come alla guida del settimanale Economy , che si può benissimo lavorare per editori “forti” senza per questo attutire la pressione della penna. Non sono in molti, a poter dire lo stesso, ed è anche per questo che Madron va ringraziato per il suo ultimo libro, appena uscito per i tipi di Longanesi, Il lato debole dei poteri forti , ( 224 pagine, 14 euro). Infatti, l’affresco che ci consegna di questi ultimi cinque anni di capitalismo italiano, dalla morte di Enrico Cuccia ai “furbetti del quartierino”, contiene dichiaratamente molte miserie e poche virtù. Tanto da rendere persuasivo e condivisibile il punto di partenza del suo assunto, e cioè che il tanto criticato e deprecato Enrico Cuccia non è un caso che nel giro di pochi anni sia finito per essere rimpianto amaramente proprio da molti che lo attaccavano, vista l’assenza assoluta di strateghi altrettanto autorevoli, fermi e fedeli a una visione del mondo e dell’Italia, industriale e privata, da preservare. Madron non giudica se il capitalismo italiano sia cambiato in peggio o in meglio. Ma di questo neocapitalismo fatto di un numero sempre minore di grandi gruppi, di parecchi grandi nomi rifugiatisi nelle rendite di posizione monopolistiche, e di nuovi arrembanti che confondono la serietà e riservatezza dovuta al mondo del business con il garrulo presenzialismo delle comparsate televisive, si capisce benissimo che a Madron non piace né l’apparenza né la sostanza. A noi nemmeno, e perciò del libro si raccomanda la lettura. I primi sette capitoli son buoni come riepilogo colorito e mordace del passato, dal dominio ancora indiscusso del vecchio Cuccia al tramonto di Maranghi, dall’ascesa al recente declino dei Romiti, dall’opa Colaninno a quella Pirelli sulla Telecom, fino agli anni terribili della scomparsa dei due “fratelli Fiat”, e all’impallidire della grande famiglia torinese i cui eredi “azzeccano i funerali ma sbagliano i matrimoni”, come graffia Madron. Ma il bello vero del libro viene dopo, quando l’autore affonda il coltello nelle vicende più recenti. Non è un caso che l’intero post-Cuccia e le vicende dell’ultima estate si impernino sul ritratto dei due grandi banchieri che continuano a disputarsi l’eredità del fondatore della Mediobanca. E i ritratti sono sapidi come non capita di leggerne, visto che si tratta di due personaggi tra i più potenti dell’Italia di oggi, Giovanni Bazoli presidente di Intesa e Cesare Geronzi presidente di Capitalia. Un esempio? La cosiddetta “terza regola di Bazoli”: moltiplicare il numero delle poltrone per mettere insieme realtà diverse e azionisti eterogenei, in modo da non scontentare nessuno ma soprattutto ottenere che mentre tutti credono di comandare, in realtà non comanda nessuno, tranne uno. E’ la regola che vale nell’eterogeneo patto di sindacato Rcs: solo che l’uno a contare da quest’estate è cambiato, rispetto alla regola bazoliana. Non è il banchiere montiniano, ma lo stesso direttore del Corriere che con volpina astuzia e coriacea potenza giornalistica ha mandato fuori pista tutti coloro che volevano scalare via Turati prima e l’Antonveneta poi. E per venire a Geronzi, presentato come “nemico numero uno ormai di Bazoli”, il lungo ritratto di come abbia saputo prima lambire potentati politici i più diversi tra la prima e la seconda Repubblica, poi sfiorare l’orlo del baratro nel Natale 2003 degli scandali Cirio e Parmalat, infine riprendersi una innegabile e concreta vittoria quest’estate, è uno dei più schietti che si siano visti. Campione della regola del neocapitalismo italiano, così sintetizzata da Madron: “chi ha i soldi comanda e chi non sa più guadagnarli, praticamente quasi tutta la residua grande industria italiana, deve assoggettarsi a chi glie li presta”. Potrà non piacere, che per conseguenza i grandi banchieri diventino a quel punto “uomini di potere a tutto tondo”, come denuncia Madron, ma la colpa è mica loro, semmai degli industriali dirazzati, costretti ad affidarsi a massicce iniezioni di capitale di debito. Così, ecco spiegate anche le ragioni per cui l’impeto innovatore di Antonio D’Amato in Confindustria si trova solo in un paio d’anni privo del sostegno dei suoi referenti. E’ il rapido venir meno della fiducia in se stessa di vaste aree della classe imprenditoriale, argomenta Madron, a spingere molti di coloro che fino a poco prima applaudivano la fine delle troppe rigidità da eccesso di concertazione, a tramutare in capo d’accusa verso D’Amato ciò per cui poco prima l’avevano eletto. Fino a far sembrare l’ex presidente di Confindustria il sostenitore di un modello di capitalismo destinato in Italia a restare lunare, assolutamente fuori dalla nostra portata. Ed eccoci alle 40 pagine finali, quelle cruciali. Un Montezemolo che ambisce a influenzare con una comunicativa da protagonista politica e sindacato, per rinfrancare imprenditori sfiduciati quanto la “sua” Fiat sembrava condannata. Contornato da figure-emblema di neoaffermati come quella di Diego Della Valle, verso il quale Madron è lusinghiero ma non senza risparmiargli che è avvezzo a godere, con le buone o con le cattive, delle simpatie della stampa, in ragione della consistenza degli investimenti pubblicitari della sua azienda. L’ultimo capitolo è naturalmente dedicato alla caduta repentina degli scalatori dell’estate 2005, Ricucci e Fiorani, e ormai siamo alla cronaca. Quel che conta di più è la conclusione, scorata pur senza indulgere alle vestali del declinismo obbligato. Mediobanca, scrive Madron, operava in un mercato protetto, una sorta di regime autarchico temperato dalla svalutazione ricorrente della lira. Ma ne sapeva gestire crisi e trapassi. Gli affermati odierni possono vincere anche a colpi mediatico-giudiziario l’assalto della razza mattona, ma “non appaiono in grado di guidare una transizione delicata, anzi ne accentuano i tratti di precarietà e di degrado”. Se il sistema finanziar-industriale italiano è cambiato, ed è destinato irrimediabilmente, aprendosi al mercato, a essere “altro”, i suoi attuali sedicenti capitani coraggiosi sono solo mediocri epigoni, rispetto ai riservati e severi protagonisti del passato.
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