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Old 24-10-2006, 02:02   #1
sempreio
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parla draghi all' università di firenze e parla apertamente!

Lo stato dell'economia, parla Draghi

Nane Cantatore, 11 ottobre 2006
Finanza Lezione magistrale del governatore della Banca d'Italia all'università di Firenze, in cui si è fatto il punto sull'economia internazionale e le istituzioni che dovrebbero governarla, a partire dal Fondo monetario internazionale


Viviamo in una fase di transizione, nella quale i vecchi equilibri vengono scossi e i vecchi centri di gravità fanno fatica ad adeguarsi: lo dicono ormai tutti, e il governatore di Bankitalia non se ne è potuto esimere, nella sua lezione magistrale all'università di Firenze. Il primo argomento è persino ovvio: la congiuntura economica mondiale, che vive un periodo di bilanciamento dello sviluppo, nel quale la decelerazione americana viene equilibrata dalla ripresa europea; qui Draghi ha tenuto conto delle stime della Bce, più che delle nuove infauste previsioni della Commissione europea, che gettano pesanti ombre sui dati degli ultimi due trimestri di quest'anno e del primo del 2007. Sia come si vuole, l'economia oggi è più equilibrata di quanto non fosse negli anni Novanta, tanto tra i Paesi sviluppati (tra i quali va ricordata anche la fine della lunga crisi giapponese), quanto tra quelli emergenti, che sembrano decisamente più solidi di quanto non fossero in passato.

Proprio dai Paesi emergenti, del resto, viene la novità più importante: le economie in via di sviluppo ricorrono sempre meno ai crediti capestro del Fondo monetario internazionale, capestro non per i tassi di interesse, che anzi sono decisamente agevolati, quanto per la perdita di controllo sulle economie nazionali comportata dai diktat che l'Fmi impone come condizione per mollare i quattrini. Oggi c'è una grande, enorme quantità di liquidità nelle casse di tutto il mondo, comprese le economie emergenti ed esclusi gli Stati Uniti: è l'effetto, anche se Draghi non lo dice, della sovrapproduzione di dollari degli ultimi anni dell'era Greenspan, in cui si è risposto alla crisi prodotta dall'esplosione della bolla azionaria e dall'ancora più sonoro botto dell'11 settembre stampando valuta per sostenere la crescita con il deficit.

Si è trattato di una scelta decisamente coraggiosa, che probabilmente ha avvantaggiato tutti tranne gli Stati Uniti, che hanno utilizzato questa massa di denaro per poter sostenere una politica estera aggressiva, nella quale la crisi dei fondamentali economici venisse compensata dal controllo dei punti strategici mondiali, e da un predominio militare e politico che sostenesse il dollaro: la scommessa di Greenspan, insomma, è stata rilanciata da quella di Bush, e il successo dell'una dipendeva da quello dell'altra. Il risultato è che gli Usa sono impantanati in Iraq e costretti a subire il nuovo clima di tensione mondiale, fino al punto di doversi fare piccini di fronte all'Iran e alla Corea del Nord; sul fronte economico, si trovano con un deficit che è percepito sempre di più come il fattore di instabilità numero uno, una valuta falcidiata da una politica monetaria fin troppo generosa e il grosso delle loro riserve in mano a investitori stranieri che, alla lunga, possono nutrire intenzioni poco amichevoli, come la Cina. Insomma, l'unilateralismo americano ha finito per produrre di nuovo un mondo multipoalre, in cui la disgregazione delle alleanze internazionali fa riscontro a una dislocazione dei centri di gravità delle economie mondiali e delle linee di scambio: se fino a tutti gli anni Ottanta la principale direttrice di scambio era quella atlantica, tra Usa ed Europa, e negli anni Novanta è diventata sempre più importante quella pacifica, tra Usa e Asia, oggi è in risalto l'asse eurasiatico, mentre si rafforza anche l'asse tra Cina, Medio Oriente e Africa.

Tornando alla relazione di Draghi, troviamo un punto di sostanziale convergenza con queste analisi geopolitiche, vale a dire la crisi di identità delle istituzioni che dovrebbero governare l'economia, Fmi in primis. Alla perdita di significato della sua missione fondamentale, vale a dire l'erogazione di credito alle economie in via di sviluppo, corrisponde infatti una crisi di rappresentanza, che si esprime tanto nella necessità di aumentare il peso di alcuni Paesi, come il Brasile, la Cina e l'Arabia saudita, che stanno attraversando un periodo di crescita decisamente sostenuta, ma anche nella composizione della rappresentanza europea, oggi divisa tra i diversi Paesi membri, ma che dovrebbe essere unificata per parlare con una sola voce: questa, almeno, è la tesi di Draghi.

Una posizione che riconosce tutte le difficoltà di una simile soluzione, vista la forte disomogeneità tra i diversi Paesi membri, ma che ha dalla sua l'indiscutibile forza dell'Unione monetaria e del Patto di stabilità e crescita, vale a dire due istanze fondamentali di unificazione delle scelte di politica economica. Una soluzione di questo tipo, soprattutto, servirebbe a superare i mercanteggiamenti e i negoziati paralleli che oggi sono la norma, permettendo all'Europa di esprimere tutta la forza di un'economia che, presa complessivamente, è di dimensioni paragonabili a quelle statunitensi, e che potrebbe rappresentare una voce diversa e altrettanto forte di quella di Washington. Qui il governatore non si è preoccupato di essere diplomatico, e ha parlato chiaramente dell'ostruzionismo americano di fronte a una simile proposta, ma il problema, con ogni probabilità, non è tanto costituito dalla contrapposizione tra le due sponde dell'Atlantico, ma dalle infinite incognite di un mondo nuovo, al quale forse nemmeno noi europei siamo del tutto pronti.
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