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Il sud era ricco prima di diventare Italia
Il sud era ricco prima di diventare Italia
Angela Pellicciari 29 luglio 2009 Sul Sole 24 ore del 26 agosto campeggiava un titolo cubitale: “Il debito? Nasce con l’unità d’Italia”. Dino Pesole riportava un’erudita citazione del ministro delle finanze Bastogi che, nel 1861, aveva deciso di “incorporare tutti i debiti dei sette ex Stati confluiti nella nuova entità territoriale”. Sarà il solleone, sarà che parlare di unità d’Italia è ancora, dopo un secolo e mezzo, di stretta attualità, fatto sta che quando si tratta di Risorgimento lo si fa sempre a prescindere dai fatti, limitandosi alle belle parole. In questo caso no. Il Sole punta il dito sull’unità italiana per addebitarle la piaga del debito pubblico. Peccato che l’analisi sia imprecisa. Andrebbe corretta come segue: “Il debito? Nasce col Regno di Sardegna, nella sua fase liberale”. In un intervento alla Camera del primo luglio 1850, quando ancora la sua carriera di ministro non è cominciata, Cavour descrive con franchezza la penosa situazione finanziaria del regno sardo: “Io so quant’altri che, continuando nella via che abbiamo seguito da due anni, noi andremo difilati al fallimento, e che continuando ad aumentare le gravezze, dopo pochissimi anni saremo nell’impossibilità di contrarre nuovi prestiti e di soddisfare agli antichi”. Divenuto Cavour ministro delle Finanze del governo D’Azeglio e, successivamente, Primo Ministro, la situazione non migliora. Basti considerare che, mentre nei 34 anni che vanno dalla caduta di Napoleone al 1848 il Regno di Sardegna accumula 135 milioni di debiti, in soli 12 anni, dal 1848 al 1860, ne totalizza oltre un miliardo. Per l’esattezza 1.024.970.595 lire. Tanto è drammatica la situazione economica del Regno che Pier Carlo Boggio, mandando alle stampe nell’aprile del 1859 il pamphlet Fra un mese, scrive: “La pace ora significherebbe per il Piemonte la riazione e la bancarotta”. Boggio non è un personaggio qualsiasi. Uomo politico di prim’ordine, liberale, massone, illustre intellettuale, Boggio è autore di un libro che fa tuttora testo: La Chiesa e lo Stato in Piemonte dal 1000 al 1854. A quanto Boggio scrive si può dare credito. Ebbene nel 1859 Boggio è preoccupato. Perché è alle viste la guerra contro l’Austria? Tutt’altro. Perché quella guerra, tanto agognata, rischia di non scoppiare. Ma se la guerra non scoppia per il Piemonte è la fine: è la bancarotta. Se la guerra non scoppia e la conquista degli stati italiani non avviene, il Risorgimento va in frantumi e trascina con sé nella rovina il Regno di Sardegna che su quel mito ha costruito la propria identità. Ecco cosa scrive Boggio: “La politica del Piemonte in questi anni sarà detta savia, generosa e forte – o improvvida, avventata e temeraria, secondoché ora avremo guerra o pace [...] Il Piemonte accrebbe di ben cinquecento milioni il suo debito pubblico: il Piemonte falsò le basi normali del suo bilancio passivo; il Piemonte spostò la propria azione dal suo centro primitivo; il Piemonte impresse a sé medesimo un impulso estraneo alla sua orbita naturale; il Piemonte arrischiò a più riprese le sue istituzioni; il Piemonte sacrificò le vite di numerosi suoi figli, sempre in vista della gloriosa meta che si è proposto: il Riscatto d’Italia” Se il “riscatto d’Italia”, di cui parla Boggio, è certamente stato il “riscatto” del Piemonte, altrettanto non si può dire dell’Italia meridionale. Le finanze borboniche al momento della conquista godevano di splendida salute. L’Archivio economico dell’unificazione italiana, pubblicato nel 1956, documenta come nel quinquennio 1854-58, ad un disavanzo complessivo previsto in 18.192.000 ducati, corrispondesse un disavanzo di soli 5.961.000 ducati. Un quarto meno della somma preventivata. Come i disavanzi, “anche gli introiti presunti erano generalmente inferiori a quelli effettivamente realizzati. Ciò accadeva perché i bilanci preventivi venivano compilati con grande circospezione”. Il confronto col Regno delle Due Sicilie è perdente anche sull’insieme della politica fiscale: mentre a Napoli non si pagano tasse di successione, in Piemonte queste arrivano al 10% nel caso di estranei, al 5% nel caso di fratelli, all’1% in quello dei figli. Mentre a Napoli non si pagano tasse sugli atti delle società per azioni e su quelli degli istituti di credito, in Piemonte sì. A Napoli, ricorda don Margotti (l’inventore del motto: né eletti né elettori che si trasformerà nel non expedit di Pio IX), “il debito pubblico è minimo, e le cartelle appartengono quasi esclusivamente ai regnicoli. L’imposta fondiaria a Napoli è dolcissima”, la Sicilia è “esente dalla leva militare, che è un’imposta di sangue, dall’imposta sul sale, e dal monopolio del tabacco”. Potremmo continuare. Forse, invece di piangere sulla supposta celebrazione in sordina dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia, faremmo bene a ricordare come davvero sono andate le cose. |
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#2 |
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Come i soldi e i tesori del Banco di Napoli misteriosamente spariti nel 1861. Guarda caso subito dopo i VE potè pagare i debiti di guerra.
Ricordiamo che nel 700 napoli era la città più grande del mondo ![]()
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#3 |
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Più che il Sud che era ricco direi che i Borboni e i nobili erano ricchi.
Il contadino che zappava la terra prima dell'unità d'Italia povero era e povero è rimasto. E come lui il 90% della popolazione del Sud. |
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#4 |
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#5 |
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Mah diciamo anche che il regno dei borboni aveva le industrie più grandi d'europa ( e quindi del mondo). Una su tutti, la ceramica di capodimonte.
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#6 | |
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---- l Meridione possedeva una flotta mercantile pari ai 4/5 del naviglio italiano ed era la quarta del mondo, ne facevano parte più di 9800 bastimenti per oltre 250mila tonnellate ed un centinaio di queste navi (incluse le militari) erano a vapore[1]; erano attivi circa quaranta cantieri di una certa rilevanza e “tanto prospero’ il commercio in 30 anni, che nel 1856 solo a Napoli vi erano 25 Compagnie di trasporto, che capitalizzavano oltre 20 milioni di ducati”[2]. Allo scopo di favorire il commercio, furono stipulati, dai re meridionali, numerosi trattati commerciali con tutte le principali potenze. Il primo vascello a vapore del Mediterraneo fu costruito nelle Due Sicilie e fu anche il primo al mondo a navigare per mare e non su acque interne: era il Ferdinando I, realizzato nel cantiere di Stanislao Filosa al Ponte di Vigliena presso Napoli, fu varato il 24 giugno del 1818; persino l’Inghilterra dovette aspettare altri quattro anni per metterne in mare uno, il Monkey, nel 1822. All’epoca fu tanto grande la meraviglia per quella nave, una due alberi con fumaiolo centrale sostenuto da tiranti, che fu riprodotta dai pittori in numerosi quadri, ora sparsi per il mondo, come ad esempio quello della Collezione Macpherson o l’altro della Camera di Commercio di Marsiglia. La prima nave italiana che arrivò nel 1854, dopo 26 giorni di navigazione, a New York era meridionale, il “Sicilia”; con gli Stati Uniti la bilancia commerciale delle Due Sicilie era fortemente in attivo e il volume degli scambi era quasi il quintuplo del Piemonte. Il cantiere di Castellammare di Stabia, con 1.800 operai, era il primo del Mediterraneo per grandezza e rivaleggiava con analoghi impianti di Londra e Anversa; si costruivano sia imbarcazioni ad uso mercantile sia militare. Fu costruito nel 1783 su ordine di Ferdinando I, dopo l’abolizione del convento dei Padri Carmelitani che sorgeva sul luogo; la materia prima era ricavata dalle boscose pendici del Monte Faito ed era conservata in enormi magazzini; le acque minerali, particolarmente abbondanti, erano convogliate in grandi vasche e servivano a tenere a mollo il legname per favorirne la lavorazione. Aveva in origine tre imponenti scali che potevano costruire contemporaneamente altrettanti vascelli; c’era una poderosa macchina a dieci argani per tirare in secco navi di qualunque stazza, un vero prodigio per l’epoca. Cosi’ lo descrive un osservatore del tempo:“Di buone fabbriche il sussidio’ quel principe e di utensili e macchine necessarie quali a quei tempi poteansi desiderare. Oggidi’ e’ il primo arsenale del regno, e tale che fa invidia a quelli di parecchie regioni d’Europa. Sonovi in esso vari magazzini di deposito, e conserve d’acqua per mettere a mollo il legname, e sale per i lavori, e ferriere, e macchine ed argani, secondo che dagli ultimi progressi della scienza sono addimantati, e merce’ dei quali abbiamo noialtri veduto con poco di forza e di gente tirare a secco un vascello nel piu’ breve spazio di tempo“ [3] [era il Capri di 1700 tonnellate, il cui alaggio impegno’ agli argani 2400 uomini, la grandiosità dell’impresa fu immortalata in un acquerello]. La prima nave impostata fu la Minerva e fino al 1795 l’attività fu incessante con il varo di vascelli, corvette e fregate; sotto Ferdinando II ci fu un ampliamento e rimodernamento del cantiere e si porto’ avanti lo sviluppo su larga scala del vapore. All’inizio si cerco’ di riadattare i vascelli a vela, dotandoli della propulsione a vapore, per cui si vedevano curiose navi “ibride” con enormi vele e fumaiolo centrale con relativa ruota di avanzamento che girava nel mare, ben presto ci si rese conto della incompatibilità dei due sistemi e si iniziò a costruire imbarcazioni progettate fin dall’inizio per il nuovo sistema di avanzamento. I motori provenivano non solo dalla Reale Fonderia di Pietrarsa ma anche da stabilimenti privati come la Zino; la prima nave a possedere una macchina da 300 cavalli costruita a Pietrarsa fu la fregata a vapore Ettore Fieramosca nel 1850. Seguirono altre unita’ e alla fine, con Francesco II, il 18 gennaio 1860 fu varata la Borbone, di 3444 tonnellate, che chiuse l’era dei pesanti vascelli di legno a poppa quadrata, potenti ma non molto veloci; dal 1840 al 1860 furono costruite, nel cantiere di Castellammare, navi per un totale di oltre 43mila tonnellate di stazza. Al momento della conquista piemontese, il cantiere stabiese era attrezzato per la lavorazione di scafi in ferro, le future corazzate da guerra. .... Sono patrimonio delle Due Sicilie anche: la prima compagnia di navigazione a vapore del Mediterraneo (1836) che svolgeva un servizio regolare e periodico compreso il trasporto della corrispondenza, la prima flotta italiana giunta in America e nel Pacifico e la stesura del primo codice marittimo italiano del 1781 (ad opera di Michele De Jorio da Procida, che fu plagiato da Domenico Azuni il quale se ne assunse la paternità), ultimo prodotto di una tradizione che risaliva ai tempi delle Tavole della Repubblica marinara di Amalfi e delle legislazioni meridionali successive. Si riaprirono porti come quello di Brindisi (1775) che erano chiusi da secoli, se ne ammodernarono altri come quello di Bari; le principali scuole nautiche erano a Catania, Cefalù, Messina, Palermo, Riposto (CT), Trapani, Bari, Castellammare, Gaeta, Napoli, Procida, Reggio [6]; navi come il “Real Ferdinando” potevano trasportare duecento passeggeri da Palermo a Messina e Napoli, veniva anche stipulata la prima convenzione postale marittima d’Italia. Nel 1831 entrò in servizio la “Francesco I” che copriva la linea Palermo, Civitavecchia, Livorno, Genova, Marsiglia; con essa fu anche effettuata la prima crociera turistica del mondo, nel 1833, in anticipo di più di 50 anni su quelle che la seguirono, che durò tre mesi con partenza da Napoli, arrivo a Costantinopoli (con lo sbigottito sultano che la ammirava col binocolo da una terrazza) e ritorno tramite diversi scali intermedi; fu così splendida per comodità e lusso che fece dire “ Non si fa meglio oggi“ e “Il Francesco I è il più grande e il più bello di quanti piroscafi siansi veduti fin d’ora nel Mediterraneo, gli altri sono inferiori, i pacchetti francesi “Enrico IV” e “ Sully” hanno le macchine di forza di 80 cavalli (mentre la macchina del Francesco I è di 120) … i due pacchetti genovesi si valutano poco, il “Maria Luisa” (del Regno di Sardegna) è piccolo, la sua macchina non oltrepassa la forza di 25 cavalli, e quantunque una volta siasi fatto vedere nei porti del Mediterraneo, adesso è destinato per la sola navigazione del Po.”[7]. Sempre la Francesco I, il 18 giugno 1834, trasporto’ re Ferdinando II e la sua prima moglie Maria Cristina di Savoia da Napoli in Sicilia; il viaggio nel Tirreno fu rapido “con una velocità in quel momento considerata meravigliosa, arrivo’ a Palermo il giorno seguente”[8] cogliendo i suoi abitanti di sorpresa, mentre erano ancora intenti nell’allestimento dei preparativi per i festeggiamenti. Nel 1847 fu introdotta per la prima volta in Italia l’innovazione della propulsione a elica con la nave “Giglio delle Onde”; regolari servizi passeggeri erano operativi e collegavano i principali porti delle Due Sicilie; isole come Ponza, Ustica, Lampedusa, Linosa furono ripopolate affrancando la popolazione residente dallo stato di schiavitù in cui erano state ridotte dai pirati barbareschi. |
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#7 | |
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Iscritto dal: Oct 1999
Città: Arona
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All'epoca il sindacato manco esisteva e se non ricordo male gli operai lavoravano 12-13 ore al giorno su macchine totalmente insicure. Per cui a queste condizioni non so se era tanto meglio stare in città piuttosto che in campagna. Forse andava bene per l'imprenditore che si arricchiva ![]() Ultima modifica di paditora : 05-02-2010 alle 18:39. |
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#8 | |
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Iscritto dal: Jul 2009
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Documentati sulla fabbrica tessile (modello) di San Leucio, recentemente restaurata. |
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#9 |
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Iscritto dal: Oct 2006
Città: T.A. (NA)
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Prima dell'unità Napoli era anche la capitale artistica d'Italia, nonché "il conservatorio d'europa" (parole dell'epoca).
Basta pensare che gran parte delle opere del bergamasco Donizetti (circa 30 su quasi 70) erano scritte per Napoli e non per Milano. |
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#10 | ||
Senior Member
Iscritto dal: Oct 1999
Città: Arona
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Lavorare 11-12 ore al giorno quando ti andava bene, quando ti andava male te ne facevi 14. Scusate la parola ma che vita di merda. Una vita passata a lavorare in fabbrica. |
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#11 |
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Iscritto dal: Jul 2009
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Intanto puoi andarla a vedere, poi puoi documentarti sul Piemonte; e anche sul Veneto, e non solo dell'800, ma anche di 60 anni fa
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#12 | |
Junior Member
Iscritto dal: Dec 2008
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ma nonostante tutto il bene che c'era, la ricchezza era dei nobili... a cui vennero espropriate le terre e i beni dopo l'arrivo dei garibaldini (vedi gattopardo per es...) quindi è vero dire che il sud era ricco, ma sul fatto che stava meglio ho qualche dubbio, poi vedete voi... |
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#13 | |
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Iscritto dal: Jul 2009
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#14 |
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#15 |
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be si puo' sempre risolvere volendo ...
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#16 | |
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Iscritto dal: Oct 2006
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Anche nelle altre capitali europee non è che i poveri se la passassero meglio. Diciamo che probabilmente non stavano meglio le singole persone ma di certo stava meglio il sud nel suo insieme. Alla fine oggi com'è? I poveri sono poveri (che però si credono ricchi perché hanno la tv e il telefonino fighi), i nuovi nobili (politici e amici) sono ricchi, ed in più non abbiamo nemmeno più lo sviluppo artistico-industriale pre-unitario. Insomma se proprio devo essere povero almeno preferisco esserlo in una bella città non in una massa di cemento e rifiuti. |
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#17 |
Junior Member
Iscritto dal: Oct 2009
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uttiu! nel 1800 manco i cimiteri esistevano al sud, arrivarono infatti con Napoleone. Senza contare che fino a poche decine di anni fa c'erano ancora i servi della gleba.
Mah, mi pare che stiate imparando bene dai vostri dirimpettai mediterranei. ![]()
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«Uomini belli fecero belle statue e la città aveva belle statue in parte grazie ai bei cittadini» (Lessing) |
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#18 |
Senior Member
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...e non avevano problemi di raccolti/carestia.
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A casa ho almeno sette PC, in firma non ci stanno
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#19 |
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#20 |
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Che fai ? Sali sulla ruspa nottetempo ?
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