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#61 |
Senior Member
Iscritto dal: Mar 2004
Messaggi: 2189
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Onore macabro, magari si onoravano più da viventi.
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Il segreto dell'uomo politico è rendersi stupido come i suoi ascoltatori facendogli credere di essere intelligenti come lui. |
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#62 |
Senior Member
Iscritto dal: Dec 2002
Città: AnTuDo ---------- Messaggi Totali: 10196
Messaggi: 1521
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non e' cambiato niente
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“ Fiat iustitia, et pereat mundus”-המעז מנצח - ![]() |
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#63 |
Member
Iscritto dal: Jan 2007
Messaggi: 41
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Dalla sentenza-bis sulla strage di via D'Amelio : molte pagine su Berlusconi FONTE: http://www.societacivile.it/primopia...assazione.html Poco prima della strage di Capaci, Ganci gli aveva confidato (a Cancemi, ndr) che Riina si era incontrato con persone importanti, scrive la sentenza. È bene precisare che Cancemi non ha mai affermato che queste persone fossero Dell'Utri e Berlusconi, e ha anzi detto che nessuno gli aveva mai confermato esplicitamente che questo incontro vi era stato, anche se il Cancemi non ha nascosto di avere elaborato quell'idea. Cancemi, quindi, avanzava solo sul piano deduttivo un collegamento fra la consumazione delle stragi e gli incontri con "persone importanti", di cui aveva parlato in precedenza, finalizzati ai mutamenti legislativi cui Riina aspirava. Cancemi istituiva un collegamento di tipo logico tra i rapporti personali che il Riina manteneva, le stragi e i mutamenti legislativi per bloccare e screditare i pentiti. Per Cancemi la motivazione principale della strage di via D'Amelio era di ottenere una modifica immediata della legislazione sui pentiti. Così Riina spiegava l'urgenza di portare a termine l'uccisione del dr. Borsellino. La strage era l'adempimento di un impegno, di un obbligo che aveva contratto con chi gli aveva promesso la modifica della legge.[b] Prosegue la sentenza: L'accelerazione soggettivistica che Riina ha dato agli avvenimenti nel corso del 1992, il concentrarsi dell'interesse spasmodico alla soppressione di Paolo Borsellino proprio quel 19 luglio del 1992, non si giustifica con il movente della vendetta per il passato del magistrato. La scelta dei tempi per assassinare il giudice mette in luce la complessità della strategia, elaborata dopo la sentenza del maxiprocesso e la conseguente svolta epocale che essa rappresentava nei rapporti tra Stato, politica e mafia. Mette in luce altresì l'esigenza per Cosa nostra di compiere un'autentica rivoluzione in tali rapporti, attraverso interventi radicali, per rispondere alla condanna e alle sue implicazioni. Nello stesso tempo i contraccolpi della prima strage e il ruolo che Paolo Borsellino stava assumendo nelle settimane successive alla strage di Capaci imponeva l'esigenza della sua immediata soppressione e l'assunzione consapevole dei costi che ci avrebbe comportato per proseguire nella nuova strategia. Tutto ci si riflette sul piano esecutivo con il succedersi frenetico di riunioni e incontri, con la mobilitazione dell'intero corpo dell'organizzazione e la necessità per Riina non solo di ordinare la strage, ma anche di spiegarne la necessità e i tempi. Da qui la riunione nella villa di Calascibetta alla quale Riina partecipa non tanto per sollecitare l'esecuzione e verificare lo stato dell'organizzazione, ma per spiegare l'assoluta necessità della perfetta riuscita per le sorti dell'intera organizzazione. il giudice doveva morire. Borsellino doveva morire. E subito. A ogni costo: Non deve sorprendere in quest'ottica che, come ha spiegato Cancemi, nei mesi successivi anche dopo la stretta repressiva Riina ostentasse ottimismo e chiedesse ai suoi pazienza e che Provenzano dopo l'arresto del Riina avesse ribadito che la linea di Riina dovesse essere proseguita, quasi che fosse stato messo in conto un periodo di indurimento dello Stato che doveva tuttavia preludere nel tempo a un progressivo ammorbidimento fino alla conclusione del desiderato accordo di più ampio respiro, sulla base delle richieste più volte avanzate (...). [b]Riina aveva messo in conto tutto, anche il 41 bis, non aveva mai dimostrato sorpresa per la reazione dello Stato dopo il 19 luglio, la sua era una prospettiva di lungo periodo: "Alla lunga vinceremo noi". Prosegue la sentenza: L'omicidio del dr. Borsellino (era, ndr) da portare a termine in fretta, con "premura", perché era in corso la trattativa sui benefici che Cosa nostra avrebbe ottenuto da quella azione. Riina aveva soggiunto che bisognava mettere in ginocchio le istituzioni e che dovevano dimostrare di essere i più forti. (...). Ganci, quando la riunione si era sciolta, nel commentare con Cancemi le parole di Riina con la frase "questo ci vuole rovinare tutti" soggiunse che il Riina "aveva una certezza" e che stava trattando "una cosa enorme". Nel corso di analoghe successive riunioni nel corso delle quali Riina aveva assicurato tutti che le cose stavano procedendo secondo i piani, fu affrontato l'argomento del carcere duro che nel frattempo era stato ripristinato per i mafiosi. Riina rispondeva che quella situazione momentanea sarebbe stata superata dagli impegni che lui aveva avuto dalle persone con le quali aveva trattato e che tutto sarebbe stato superato in futuro; che tutto veniva fatto per il bene di Cosa nostra. Invitava a stare tranquilli e ad avere pazienza. Ma quali erano i motivi di tanta fretta? La precipitazione e la concitazione con la quale si addivenne alla esecuzione del piano contro Borsellino è da ascrivere, invece, a tre eventi esterni che si connettono tra loro e assumono senso alla luce delle inquietanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia (...). La tradizionale attenzione di Cosa nostra nel calibrare le proprie azioni in rapporto ai possibili riflessi sulle decisioni di natura politico-giudiziaria, avrebbe dovuto comportare un'astensione da condotte idonee a far precipitare quelle decisioni in un senso sfavorevole all'organizzazione. Un'azione eclatante di Cosa nostra, in pendenza di situazioni incerte che da quell'azione avrebbero potuto essere pregiudicate (in effetti la strage di via D'Amelio determin la conversione del decreto legge sul carcere duro con aggravamenti) si giustifica soltanto se, a fronte di quel costo, si fossero prospettati benefici di ben più ampia portata e sia pure a lungo termine (...). A fronte dei malumori dei detenuti nel periodo successivo alle stragi, Bernardo Brusca, compare di Riina, soleva ricordare che certamente il suo compare aveva dovuto con la strage accontentare "qualcuno a cui non poteva dire di no" e quindi ribadiva il concetto fondamentale che ci che poteva apparire un "male" si sarebbe rivelato nel lungo periodo un bene per Cosa nostra. Infatti fra i vecchi boss detenuti, tutti vecchi compagni d'arme di Riina (...) era, quindi, diffusa l'opinione che nella strage di via D'Amelio vi fosse stato un "suggeritore" esterno, al quale il Riina non si era potuto sottrarre. Tale "suggeritore" andava ricercato tra gli interessati all'indagine su mafia e appalti nella quale il dr. Borsellino aveva dichiarato, imprudentemente, di volersi impegnare a fondo, nello stesso momento in cui Tangentopoli cominciava a profilarsi all'orizzonte. In questo senso tanto il Brusca che il Cal ritenevano che la decisione di uccidere il dr. Borsellino, nel momento meno opportuno, dovesse risalire proprio a Bernardo Provenzano, dei due capi corleonesi certamente il più sensibile all'argomento appalti pubblici. I tre eventi esterni che spiegano la fretta di Cosa nostra nell'eliminare a ogni costo Borsellino, per i giudici di Caltanissetta sono: 1. L'intervista rilasciata nel 1991 da Borsellino al giornalista francese Fabrizio Calvi, in cui racconta la carriera criminale del Mangano, esponente della famiglia mafiosa di Porta Nuova, estorsore e grande trafficante di stupefacenti, ed espone quanto è a sua conoscenza e quanto ritiene di rivelare sui rapporti tra Mangano, Dell'Utri e Berlusconi. Nel corso dell'intervista il dr. Borsellino, pur mantenendosi cauto e prudente per non rivelare notizie coperte da segreto o riservate, consultando alcuni appunti in suo possesso, forniva indicazioni sulla conoscenza di Mangano con il Dell'Utri e sulla possibilità che il Mangano avesse operato, come testa di ponte della mafia a Milano in quel medesimo ambiente (...). Ma, se così è, non è detto che i contenuti di quell'intervista non siano circolati tra i diversi interessati, che qualcuno non ne abbia informato Salvatore Riina e che questi ne abbia tratto autonomamente le dovute conseguenze, visto che, come abbiamo detto in precedenza, questa Corte ritiene, come Brusca e non come Cancemi, che il Riina possa aver tenuto presente nel decidere la strage gli interessi di persone che intendeva "garantire per ora e per il futuro", senza per questo eseguire un loro ordine o prendere formali accordi o intese o dover mantenere promesse. Alla fine di maggio del 1992, dopo la strage di Capaci, Cosa nostra era in condizione di sapere che Paolo Borsellino aveva rilasciato una clamorosa intervista televisiva a dei giornalisti stranieri, nella quale faceva clamorose rivelazioni su possibili rapporti di Vittorio Mangano con Dell'Utri e Berlusconi, rapporti che avrebbero potuto nuocere fortemente sul piano dell'immagine, sul piano giudiziario e sul piano politico a quelle forze imprenditoriali e politiche alle quali fanno esplicito riferimento le dichiarazioni di Angelo Siino, sulle quali i capi di Cosa nostra decisamente puntavano per ottenere quelle riforme amministrative e legislative che conducessero in ultima istanza ad un alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e alla revisione della condanna nel maxi processo. Con quell'intervista Borsellino mostrava di conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del nord, a considerare normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava alcuna sudditanza psicologica ma anzi una chiara propensione ad agire con gli strumenti dell'investigazione penale senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello al quale potessero attingere le sue indagini, confermando la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine organizzato ma anche connessione e collegamenti con ambienti insospettabili dell'economia e della finanza. Riina aveva tutte le ragioni di essere preoccupato per quell'intervento che poteva rovesciare i suoi progetti di lungo periodo, ai quali stava lavorando dal momento in cui aveva chiesto a Mangano di mettersi da parte perché intendeva gestire personalmente i rapporti con il gruppo milanese. È questo il primo argomento che spiega la fretta, l'urgenza e l'apparente intempestività della strage. Agire prima che in base agli enunciati e ai propositi impliciti di quell'intervista potesse prodursi un qualche irreversibile intervento di tipo giudiziario. 2. La trattativa in corso tra Cosa nostra e uomini dello Stato: Per Brusca, Borsellino muore il 19 luglio 1992 per la trattativa che era stata avviata fra i boss corleonesi e pezzi delle istituzioni. Il magistrato era venuto a conoscenza della trattativa e si era rifiutato di assecondarla e di starsene zitto. Nel giro di pochi giorni dall'avvio della trattativa Borsellino viene massacrato. 3. L'annuncio pubblico, fatto circolare dopo la morte di Falcone, che Borsellino sarebbe diventato procuratore nazionale antimafia. L'ombra dei servizi segreti. C'è, dunque, una trattativa in corso tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, sullo sfondo delle stragi del 1992-93. Ma c'è anche l'ombra dei servizi segreti. Secondo un consulente tecnico molto valorizzato nella sentenza, il mago delle analisi dei traffici telefonici Gioacchino Genchi, personaggi misteriosi (ma non mafiosi) hanno tenuto sotto controllo i telefoni di Borsellino e forse hanno controllato dall'alto - dal monte Pellegrino - la zona della strage. Sul monte Pellegrino sorge il Castello Utveggio, bizzarra costruzione in cui ha sede il Cerisde, un misterioso centro studi che, secondo Genchi, copriva un centro del Sisde, il servizio segreto civile in quegli anni controllato a Palermo da Bruno Contrada. L'analisi dei tabulati delle telefonate di un indagato, Gaetano Scotto, ha evidenziato una chiamata, avvenuta qualche mese prima della strage, tra Scotto e l'utenza del Castello Utveggio. Sul luogo della strage, poi, scompare misteriosamente l'agenda di Borsellino, da cui il magistrato non si separava mai. Un'utenza telefonica clonata, in possesso di boss mafiosi, chiama uno dei villini che si trovano lungo il tragitto che l'auto di Borsellino ha percorso la domenica della strage, ma anche alcune utenze del Sisde. Pochi secondi dopo l'esplosione, dalla sede del Sisde (sempre vuota la domenica, tranne quella domenica) parte una telefonata che raggiunge il cellulare di Contrada. Ma mentre erano in corso queste delicatissime indagini, aveva spiegato Genchi in aula, la pista dei possibili aiuti esterni viene bruciata dall'intempestivo fermo di Pietro Scotto e lo stesso Genchi è costretto a farsi da parte. In conclusione, la sentenza afferma che non vi è ragione di ricorrere a mandanti occulti o a un terzo livello per ammettere che nei grandi delitti di mafia esistono complicità e connivenze che il sistema non riesce a individuare e a portare alla luce. I giudici, richiamando il contributo portato nel processo da Genchi, sottolineano i condizionamenti e i veri e propri divieti opposti a quanti all'interno degli apparati pubblici agivano con l'esclusivo intento di ricerca della verità, e nel caso di specie all'indagine su tracce e dati che riconducevano a un sostegno logistico ed informativo al commando mafioso di non identificati soggetti appartenenti ad apparati pubblici. I giudici così concludono: Questo processo concerne esclusivamente gli esecutori materiali, coloro che hanno attivamente lavorato per schiacciare il bottone del telecomando. Ma questo stesso processo è impregnato di riferimenti, allusioni, elementi concreti che rimandano altrove, ad altri centri di interessi, a coloro che in linguaggio non giuridico si chiamano i "mandanti occulti", categoria rilevante non solo sotto il profilo giuridico, ma anche sotto quello politico e morale. E quindi qui finisce il processo agli esecutori della strage di via D'Amelio, ma non certamente la storia di questa strage annunciata che deve essere ancora in parte scritta. |
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#64 |
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Alcune dichiarazioni dei pentiti sulla nascita di Forza Italia T R I B U N A L E D I C A L T A N I S S E T T A UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI DECRETO DI ARCHIVIAZIONE (artt.409 e 411 c.p.p.) Il Giudice, dott. Giovanbattista Tona, nel procedimento nei confronti di: . BERLUSCONI Silvio, nato a Milano il 29 settembre 1936; . DELL'UTRI Marcello, nato a Palermo l'1 settembre 1941; in relazione al reato di cui agli artt.110-422 c.p., 7 d.l. 13 maggio 1991, n.152 (conv. in l. n.203/91) (c.d. aggravante della finalità mafiosa), 1 d.l. 15 dicembre 1979 n.625 (conv. in l.n.15/80) (c.d. aggravante della finalità di terrorismo). http://www.*beep*.org/mafia/documenti_sen.htm http://www.archivio900.it/it/downloa....aspx?id--=-135 Le dichiarazioni di Salvatore Cancemi P.M.: E queste richieste in quelloccasione disse a chi dovevano essere rivolte? Cancemi: Lui più volte ha detto che aveva queste persone nelle mani, quindi Berlusconi e DellUtri, quindi queste cose lui le doveva girare a queste persone. Per me era una cosa P.M.: Sì, ma nel corso di questa, in questa riunione riprese il discorso di, chiarendo Cancemi: () sì, lui in questa, in questa riunione dice che ci doveva fare avere queste cose a queste persone, Berlusconi e DellUtri, i nomi che ha fatto erano questi qua. Anche dopo diciamo lui parlava sempre di queste persone, anche dopo questincontro mi ricordo che, altre, un paio di volte ha parlato sempre di queste persone. Le dichiarazioni di Giovanni Brusca I rapporti tra Brusca e Mangano erano particolarmente qualificati; si erano conosciuti in carcere tra il 1986 e il 1987 e poi Brusca e un suo parente avevano fatto in modo di fargli assegnare la reggenza della famiglia di Porta Nuova, dopo che Cancemi si era consegnato ai Carabinieri. Brusca gli chiese allora se poteva attivarsi per ripristinare questi contatti e Mangano si rese disponibile. Fece diversi viaggi a Milano per portare a termine il compito affidatogli da Brusca e che consisteva nellavanzare a Berlusconi le richieste che stavano a cuore allassociazione cosa nostra, come ad esempio labrogazione del regime detentivo speciale per i mafiosi e lammissione di costoro ai benefici della legge Gozzini. Mangano si servì di un altro intermediario, che diceva a Brusca chiamarsi Roberto e che faceva limprenditore allinterno della Fininvestaveva lappalto delle pulizie allinterno della Fininvest; nessun altra informazione su questa persona ha saputo fornire il collaborante, tuttavia ha escluso che Mangano gli abbia detto di avere contattato DellUtri. Le dichiarazioni di Salvatore Cucuzza Secondo Cucuzza, Vittorio Mangano riuscì a tenere stretti a sé Brusca e Bagarella proprio in virtù di questi rapporti con DellUtri e non assunse mai alcuna iniziativa senza tenerli informati. Ha raccontato di avere appreso da Mangano che egli aveva lavorato presso la tenuta di Arcore di Silvio Berlusconi e che lì aveva addirittura organizzato un sequestro di persona ai danni del padre dellimprenditore; questo sequestro poi non riuscì, in quanto allultimo momento si cambi obiettivo ma senza successo. Questi finanziamenti di Berlusconi prima a Bontate, poi a Teresi, infine a Pullarà, Cucuzza li ha contestualizzati a cavallo tra la fine degli anni 80 e i primi anni 90. Quando il 30/1/1994, Cucuzza venne scarcerato, torn a parlare con Mangano dei suoi rapporti con DellUtri; Mangano gli disse di essere ancora in stretto contatto con lui e che grazie a lui poteva influenzare qualche cosa, di interesse naturalmente di cosa nostra (verb. P.M. Firenze 7/5/1997). Brusca e Bagarella, per fargli comprendere la necessità di mantenere il ruolo di Mangano, spiegarono a Cucuzza che, attraverso DellUtri, Mangano aveva fatto conoscere in anticipo delle possibilità di ottenere una disciplina favorevole a cosa nostra in relazione al noto decreto Biondi, poi ritirato in seguito a delle polemiche politiche. Mangano inoltre faceva sapere loro quali erano le indicazioni che provenivano da DellUtri e quali le iniziative che egli avrebbe avviato in loro favore. Per Mangano veniva tenuto in affitto un ufficio a Como, allinterno del quale egli diceva anche di incontrare DellUtri che lo raggiungeva in elicottero. Le dichiarazioni di Tullio Cannella Bagarella ha riferito Cannella era già perfettamente a conoscenza che era in cantiere la discesa in campo di Silvio Berlusconi a capo di un nuovo movimento politico che ci avrebbe assicurato, in virtù di impegni preesistenti, di risolvere le questioni che più stavano a cuore a cosa nostra e cioè: pentiti, carcere duro e reato di associazione mafiosa. Chiarisco che queste erano, per così dire, le priorità che laccordo con Berlusconi ci avrebbe consentito a breve termine di affrontare e risolvere. ... Cannella ha insistito sugli impegni preesistenti di Berlusconi con uomini di cosa nostra, sottolineando che laccordo era stato coltivato dai fratelli Graviano per conto di tutta quanta lorganizzazione negli anni 1991-1992. Di questo venne a conoscenza grazie alle confidenze di Bagarella. Le dichiarazioni di Maurizio Avola Lo scopo era quello di frenare le iniziative giudiziarie e legislative che avevano fortemente intaccato il potere di cosa nostra e che erano state scandite dallesito del maxiprocesso, dalla disciplina a favore delle collaborazioni con la giustizia e poi dal regime penitenziario instaurato dal noto art.41bis O.P. Avola ha affermato di aver appreso da DAgata che per sostenere il nuovo partito era necessario portare avanti un attacco violento allo Stato e questo attacco era stato delegato a cosa nostra già allinizio del 1992, prima delle stragi di Capaci e di Via DAmelio. Nulla seppe su quale fosse tale partito nuovo; nel 1994, mentre era detenuto, apprese dalla moglie che gli esponenti di cosa nostra avevano ordinato agli affiliati di votare Forza Italia |
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#65 | |
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