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L'antiamericanismo europeo
un interessante articolo dedicato agli amerikani ma soprattutto agli antiamerikani di questo forum (una moltitudine)
la Rivista dei Libri: Antiamericanismo di sempre JEAN-FRANÇOIS REVEL, L'Obsession anti-américaine. Son fonctionnement ses causes ses inconséquences, Parigi, Plon, pp. 300, €20,00 PHILIPPE ROGER, L'Ennemi américain. Généalogie de l'antiaméricanisme français, Parigi, Éditions du Seuil, pp. 600, €26,00 SERGIO ROMANO, Il rischio americano. L'America imperiale, l'Europa irrilevante, Milano, Longanesi, pp. 132, €10,00 Secondo i sondaggi effettuati subito prima che iniziasse la guerra in Iraq, la maggioranza dell'opinione pubblica europea considerava George W. Bush più pericoloso di Saddam Hussein. "Come ai tempi del Vietnam", ha scritto Michael Ignatieff, "il dibattito sull'Iraq è diventato un referendum sulla potenza americana, e quel che ciascuno pensa su Saddam è meno importante di ciò che pensa dell'America". Perfino Tony Blair sembra rimanere incollato a Bush soprattutto nella speranza di limitare i danni che può fare. In queste circostanze parlare di "antiamericanismo" può sembrare inattuale, fuorviante e fazioso: il problema oggi — su questo quasi il mondo intero sembra d'accordo, inclusi molti americani — è l'America Ma facciamo un salto indietro. All'indomani dell'11 settembre 2001 — quando ancora non si sapeva quale sarebbe stata la reazione americana, né la guerra in Afghanistan né quella in Iraq erano all'ordine del giorno — il direttore di Le Monde Jean-Marie Colombani, scrisse un editoriale intitolato "Siamo tutti americani". Per esprimere solidarietà di fronte alla tragedia, rievocò rovesciandola la celebre frase "Ich bin ein Berliner" che John Kennedy pronunciò nel 1961 davanti al Muro di Berlino. Quel titolo fece il giro del mondo, fu ampiamente ripreso negli Stati Uniti come una delle prove di amicizia. Ma a casa sua Colombani fu subito criticato. Molti lettori di Le Monde si indignarono all'idea di essere — fosse pure simbolicamente, all'indomani di una strage terroristica — "americani" In quei giorni Thierry Meyssan iniziava a scrivere L'Effroyable imposture, il libro-inchiesta la cui tesi è che nessun aereo si schiantò sul Pentagono l'11 settembre, ma furono gli stessi militari americani a provocare la strage nel loro quartier generale per scatenare una reazione più forte (l'abbattimento delle Torri gemelle essendo considerato forse…insufficiente?). In Francia fu un best-seller immediato. Oggi qualunque ostilità nei confronti degli Stati Uniti sembra giustificata da quel che essi stanno facendo. Non è forse l'America a essere "anti"… tutto il resto del mondo? Eppure l'antiamericanismo esiste ed è un fenomeno indipendente dalle critiche legittime alla politica americana. Ci aiutano a capirlo i due saggi di Jean-François Revel e Philippe Roger usciti in Francia, un paese che sull'opposizione agli Stati Uniti ha ricostruito la credibilità internazionale e la leadership del suo presidente. Il rischio americano di Sergio Romano integra i due autori francesi da un'angolatura diversa: non è un'analisi dell'antiamericanismo, semmai ne è un esempio. Romano, storico ed ex ambasciatore, è da anni il miglior esperto di politica estera in Italia. È al tempo stesso kissingeriano" (realista, disincantato, attento ai rapporti di forza e alle tendenze di lungo periodo), e anche "gollista" (ha una innata diffidenza nei confronti degli Stati Uniti). È significativo ciò che Romano scrive della guerra fredda in questo pamphlet: "Presentò due vantaggi. Dette all'Europa cinquant'anni di pace. In secondo luogo, fissò alcuni limiti entro i quali gli Stati Uniti avrebbero esercitato il loro potere. Furono leader del mondo occidentale, ma dovettero tener conto dell'esistenza di un nemico doppiamente insidioso: perché disponeva delle stesse armi e suscitava le simpatie di una parte delle opinioni pubbliche, soprattutto in Europa. Per far fronte a un tale avversario l'America, quindi, non poteva limitarsi a costruire missili e dislocare le proprie forze armate in giro per il mondo. Doveva convincere i suoi alleati e conquistarne, volta per volta, il consenso". Per chi non lo conosca può sembrare strano che un liberal-conservatore come Romano abbia nostalgia della guerra fredda. Ma non è il solo. E questa sua posizione non è influenzata da Bush, dall'Afghanistan, dall'Iraq. Tant'è che Romano boccia senza esitazioni anche la politica estera di Bill Clinton. Nel suo excursus sull'America dell'ultimo secolo non salva quasi nulla: anche la seconda guerra mondiale e il Piano Marshall vengono rivisti attraverso la lente impietosa degli interessi nazionali, o neoimperiali, degli Stati Uniti. Romano è un esempio di antiamericanismo coerente, non motivato dal colore politico di chi sta alla Casa Bianca né dagli eventi del dopo-11 settembre. L'antiamericanismo non è una reazione alla "iperpotenza" solitaria e squilibrante: non è nato quando gli Stati Uniti sono rimasti l'unica superpotenza mondiale dopo la dissoluzione dell'URSS. Non è nato neanche con la guerra del Vietnam. E neppure negli anni Trenta, quando pure raggiunse punte di virulenza nei paesi a regime fascista e nazista. Come documenta il mirabile lavoro di ricostruzione storica di Roger, "l'antiamericanismo non è monopolio esclusivo della destra o della sinistra, e tutti i suoi ingredienti c'erano già alla fine dell'Ottocento". Revel apre il suo libro con un ricordo personale: negli anni Sessanta partì per un lungo reportage negli Stati Uniti, lasciò un'Europa che vedeva nell'America la patria del "conformismo" (una delle accuse favorite di Jean-Paul Sartre) e trovò sulla West Coast californiana "una società agitata dall'effervescenza della contestazione, dalla rimessa in discussione delle regole, di tutte le sue abitudini sociali e dei fondamenti stessi della cultura". Da allora Revel si convinse che gli europei, nei confronti degli Stati Uniti, hanno una curiosità tanto acuta quanto selettiva: assorbono solo notizie e immagini che confermano i loro stereotipi. Brillante polemista, Revel si diverte a rivelare e fustigare le ripetute incoerenze delle critiche europee: siamo capaci di accusare l'America di essere "l'unilateralista gendarme del mondo", e un attimo dopo le rinfacciamo di essere "isolazionista". A questo proposito Revel cita il dramma della ex-Jugoslavia come l’esempio più lampante e recente della schizofrenia europea: all’inizio i paesi europei credettero di poter gestire da soli la situazione salvo poi dimostrare negli anni tutta la loro impotenza; una volta richiesto l’aiuto americano per risolverla, questo intervento sarà avvertito da alcuni europei, soprattutto se appartenenti a certi correnti ideologiche e culturali sia di destra che di sinistra, come un intrusione nei loro affari interni e manifestazione del loro imperialismo. Gli europei, talvolta le stesse persone, accusano la società americana di materialismo ma anche di essere bigotta e puritana, un paese inquietante dove i presidenti nominano Dio in continuazione e insegnano il catechismo. Quando poi esibisce un'anima terzomondista e antimperialista, secondo Revel, il Vecchio continente si autoassolve dalle sue responsabilità: dal Medio Oriente all'Africa, gran parte del disordine mondiale reca ancora le tracce del colonialismo europeo. Tra i giovani islamici della banlieue parigina, emarginati e frustrati, cova molto più risentimento antioccidentale (come dimostra la violenza endemica) che non fra gli immigrati arabi in America. Il dramma palestinese non esisterebbe senza l'Olocausto nella Germania di Hitler. Perfino quando addebitiamo agli Stati Uniti due infami peccati originali come il genocidio degli indiani d'America e lo schiavismo, con un curioso vuoto di memoria storica dimentichiamo che i primi responsabili di quei misfatti avevano ancora nazionalità inglese e francese, spagnola e portoghese. Revel fustiga soprattutto la Francia, a cui rinfaccia le stesse velleità egemoniche che i suoi connazionali rimproverano volentieri agli Stati Uniti. Cita l'ex ministro degli Esteri Hubert Védrine: "Gli Stati Uniti si considerano una nazione eletta, incaricata di illuminare il resto del mondo" e osserva che lo stesso si può dire della Francia. Perciò Revel spiega l'antiamericanismo — soprattutto quello di destra — come una forma di invidia. "L'Europa ha perso nel XX secolo quello che era stato il suo ruolo: essere il principale centro di iniziativa e di conquista dell'intero pianeta, il suo centro artistico e scientifico, nonché il dominus dell'organizzazione politico-strategica e dell'attività economica mondiale." Questa chiave di lettura dell'antiamericanismo ha del vero ma è insufficiente. Non spiega perché le origini dell'antiamericanismo — che Roger rintraccia fin nei philosophes dell'Illuminismo — sono molto antecedenti all'emergere degli Stati Uniti come potenza mondiale. Inoltre non spiega perché ci sia dell'antiamericanismo in paesi come l'Italia, dove non esiste una nostalgia imperiale. Revel vi aggiunge un'altra interpretazione: "In ogni epoca esiste quel che si può definire una società-laboratorio, dove sono inventate e sperimentate nuove forme di civiltà". L'antiamericanismo avrebbe dunque per bersaglio "il laboratorio della mondializzazione liberale". Anche questa definizione è utile ma limitativa. Non spiega la genealogia dell'antiamericanismo che Roger rintraccia in un'epoca in cui la "mondializzazione liberale" nasceva sotto l'egemonia imperiale britannica e occasionalmente francese. L'opera di Roger è pregevole, sorprendente, monumentale. È importante sapere che essa è il frutto di una ricerca iniziata molto prima dell'11 settembre. L'atmosfera del mondo attuale, le polemiche politiche che viviamo, hanno uno spazio limitato nel suo saggio. Questo, insieme con il lungo arco di tempo abbracciato, e la notevole ricchezza di citazioni storiche, lo rende davvero illuminante. I capitoli che egli dedica a documentare l'antiamericanismo alla fine del Settecento (antropologico e naturalista) e l'esplosione di questo fenomeno nell'Ottocento sono autentiche rivelazioni. Sconcertano, e costringono a guardare questo fenomeno secondo una prospettiva diversa. Come avverte Roger, "l'antiamericanismo ha delle implicazioni che vanno ben oltre il nostro rapporto, reale o immaginario, con gli Stati Uniti". Né bisogna cercare una spiegazione nella congiuntura politica, da questa o dall'altra parte dell'Atlantico: non solo è sempre esistito un antiamericanismo di destra e di sinistra, ma inoltre il comportamento degli Stati Uniti ha un'influenza solo parziale su questo fenomeno. Roger documenta minuziosamente questa "stabilità" dell'antiamericanismo attraverso i secoli e malgrado il succedersi di Americhe molto diverse tra loro; noi possiamo aggiungervi ricordi recenti: il movimento no-global contro "l'americanizzazione" del pianeta è esploso nel 1999 sotto Bill Clinton, un presidente agli antipodi rispetto a Bush. Un capitolo fondamentale per capire le conclusioni finali a cui giunge L'ennemi américain è quello dedicato agli anni Trenta del secolo scorso. L'antiamericanismo dilagò non solo tra fascisti e comunisti ma anche tra i cattolici; contagiò tutta la società europea, particolarmente gli intellettuali. Gli ingredienti dell'antiamericanismo così come si ridefinisce in quel periodo risultano durevoli: anticapitalismo e "antimacchinismo". "La tecnofobia è allora la passione più diffusa in Francia, ne è colpita l'intera intellighenzia". L'America viene identificata come la società delle macchine per eccellenza, la culla del progresso tecnico: l'orrore. Negli anni Trenta, dai fascisti dell'Action Française e di Ordre Nouveau ai cattolici come Paul Claudel e George Bernanos, si impone una cultura antiamericana che negli anni Sessanta riemergerà come critica della società dei consumi e del neocapitalismo. Per nutrire l'antiamericanismo, questa critica naturalmente prescinde dal fatto che gli stessi Stati Uniti producono in continuazione movimenti di rigetto contro il consumismo, compreso quel Ralph Nader che fa del consumatore un cittadino consapevole, lo organizza e lo lancia con gli strumenti del potere giudiziario in una guerra contro il Big Business. Al termine della sua lunga esplorazione storica, Roger ne trae una conclusione che ci riguarda. "L'antiamericanismo deve analizzarsi come una tradizione, una lunga catena storica di ripugnanze e ripulsioni: dal discorso naturalista al discorso politico di un'America giudicata meno democratica dei fascismi e più totalitaria del regime sovietico, passando dalla tipologia razziale che incolla l'antiamericanismo francese alla figura etnicizzata dello Yankee. Tutti gli elementi principali di questa retorica si insediano tra la fine dell'Ottocento e gli anni Trenta…L'antiamericanismo condivide alcuni caratteri con i "grandi racconti" della modernità: come quei miti ha una potenza unificante e una capacità allegorica — poiché parlando dell'America, non smette di parlare della Francia. Con una differenza notevole: i metadiscorsi di legittimazione si organizzavano attorno a valori positivi — l'emancipazione del cittadino, la società senza classi, ecc. I "grandi racconti" sono morti, resi obsoleti dall'incredulità tipica del postmoderno. L'antiamericanismo invece dilaga: "grande racconto" in negativo, resta in azione anche quando i metadiscorsi del Bene hanno perso ogni efficacia nell'immaginario collettivo. È un motivo in più per prenderlo sul serio: questo "anti", al di là della sua storia particolare, disegna il profilo delle sintesi negative che oggi fanno l'Europa". L'analisi di Roger rende l'America quasi irrilevante, di fronte alla natura vera e alle origini profonde dell'antiamericanismo. È quel che gli americani non possono capire. Perfino uno studioso autorevole di politica estera come Walter Russell Mead, nel commentare Roger e Revel, scrive che "solo il crollo della potenza americana potrebbe porre fine all'antiamericanismo". Non è così. Neppure quello servirebbe. L'antiamericanismo infatti fu forte anche quando l'America apparve debole. Alla fine degli anni Settanta l'economia americana sembrava sconfitta e "colonizzata" da Giappone e Germania, l'Iran prese in ostaggio i diplomatici USA all'ambasciata di Teheran, il presidente Jimmy Carter fallì miseramente nel tentativo di salvarli, l'URSS intimidiva l'Europa con i suoi missili SS-20 e invadeva l'Afghanistan: anche allora le piazze europee erano affollate di manifestazioni contro gli Stati Uniti. L'attualità ci fa velo, per forza, molti sono influenzati dal giudizio negativo sull’amministrazione Bush nel loro dichiararsi antiamericani. Ma l'antiamericanismo esisteva molto prima ed esisterà dopo questa amministrazione. La stessa conclusione di Roger è quella a cui giungeva Hannah Arendt mezzo secolo fa, in alcune pagine di straordinaria lucidità scritte negli anni della guerra fredda e del maccartismo. Le immagini che le nazioni si fanno le une delle altre, premette la Arendt, sono sempre deformate, piene di incomprensioni e forzature. "Ma l'immagine dell'America all'estero è un caso a parte… Essa non riflette la situazione del paese e neppure una sua interpretazione, perché è un'immagine che pre-esiste non solo alla nascita degli Stati Uniti, ma alla colonizzazione e perfino alla scoperta del continente". La Arendt ricorda che la stessa espressione Nuovo Mondo, così carica di promesse, non fu attribuita a nessun'altra terra scoperta e colonizzata dagli europei. Emblematico l'atteggiamento di Alexis de Tocqueville: nella sua opera sulla democrazia americana più che descrivere un paese straniero egli studia il funzionamento della democrazia in quanto possibilità/necessità per l'Europa. "Tocqueville cercò in America la vera lezione della Rivoluzione francese. Vedeva negli Stati Uniti un vasto laboratorio magnificamente attrezzato dove si sperimentavano in tutte le loro conseguenze gli ultimi sviluppi della storia europea. Era certo che l'Europa e il resto del mondo si sarebbero americanizzati." La Arendt mette a nudo anche l'equivoco in cui cadono gli europei quando pensano a un'America senza storia. L'idea di un paese nuovo, di una nazione giovane nasce perché la coscienza storica occidentale ha identificato metaforicamente l'esistenza delle nazioni alla vita biologica degli individui. "In realtà gli Stati Uniti erano già un paese più antico e più ricco d'esperienza dell'Europa", sia perché erano la sintesi di popoli europei che portavano con sé culture e storie diverse, sia per il loro ruolo pionieristico come democrazia repubblicana. La Arendt prende in considerazione il movente dell'invidia dell'antiamericanismo: "L'amicizia implica un'eguaglianza. Tra nazioni ci vuole una certa parità di condizioni perché regnino comprensione e franchezza. A un certo punto l'opulenza americana ha superato il limite oltre il quale l'America non poteva più beneficiare della comprensione degli altri popoli e in particolare dei paesi da cui molti americani erano originari". Ma la spiegazione principale anche per lei è un'altra: "Sotto il nome di americanizzazione, il processo che gli europei temono è in realtà l'emergere del mondo moderno, con tutte le sue implicazioni e tutti i suoi interrogativi… Oggi l'immagine dell'America è quella della modernità…L'immagine che l'Europa si costruisce dell'America ci insegna poco sulle realtà americane o sulla vita quotidiana dei cittadini americani. Ma può aiutarci a comprendere le paure giustificate che l'Europa prova riguardo alla propria identità spirituale, e i timori ancora più vivi che nutre a proposito della sua sopravvivenza materiale". La Arendt concludeva così, tre anni prima che venisse firmato il Trattato di Roma costitutivo della Comunità Europea: "Se è vero che ogni nazionalismo comincia da un nemico comune, vero o fabbricato che sia, allora l'immagine che l'Europa si fa dell'America potrebbe segnare la nascita di un nuovo nazionalismo paneuropeo". Mezzo secolo dopo, questo rimane l'unico punto su cui la storia ha dato torto alla filosofa tedesca, e continuerà probabilmente a mentirla. FEDERICO RAMPINI, editorialista e corrispondente della Repubblica a San Francisco, è l'autore di Effetto euro (Longanesi, 2002) e Dall'euforia al crollo (Laterza, 2002). Aggiungo di mio qualche altra considerazione di Tocqueville, scritta 160 anni fa nel suo trattato su “La democrazia in America” L’europeo Tocqueville aveva pur dato un consiglio-ammonimento agli altri europei: “Bisogna dunque guardarsi dal giudicare le società che nascono, con le idee delle società da cui sono derivate. Il loro giudizio sarebbe ingiusto, perché le società più vecchie essendo profondamente diverse, non sopporterebbero il confronto con le società nuove che hanno generato” Invece questa europa, generatrice fra le altre di tutti i comunismi, nazismi, fascismi, imperialismi, colonialismi e nazionalismi possibili, dei patti di monaco come di quelli ribentropp-molotov, dei muri di berlino e delle cortine di ferro, dei campi di sterminio e delle fosse comuni, delle srebreniche come delle cecenie, non solo non impara le lezioni della sua storia passata e presente o di ripensare alla sua storia futura, ma si permette il lusso anche di montare in cattedra. |
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#2 |
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Senior Member
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Veramente il muro di Berlino lo hanno voluto proprio i tuoi amici americani
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#3 |
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Senior Member
Iscritto dal: Oct 2003
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Suona molto radical-pannelliano; è anche giusto comunque.
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#4 | |
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Senior Member
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#5 | |
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Bannato
Iscritto dal: Apr 2001
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ma questa cosa dove l'hai letta? nella storia del muro di berlino by honecker&ulbricht? roba da non credersi |
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#6 |
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Senior Member
Iscritto dal: Oct 2003
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Edizioni Kruschev and Mielke?
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#7 |
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Senior Member
Iscritto dal: Oct 2003
Città: Imola
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Fabio scusa, ma ho scoperto che il titolo originale dell' opera è
Storia del Vallo di protezione Antifascista. Per quei compagni che ancora ne fossero sprovvisti si chiami il 13861.
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#8 |
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Senior Member
Iscritto dal: Feb 2001
Città: Torino
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Non entro neanche nel merito dell'articolo, che, se rivolto agli antiamericani, ha ragione.
Mi limito a constatare come un thread nato come j'accuse verso gli antiamericani concluda con una bella tirata antieuropea. E' il famoso asino che dà del cornuto al bue, insomma...
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Eroi da non dimenticare: Nicola Calipari (04/03/2005) e Vittorio Arrigoni (14/04/2011) e Bradley Manning. Sono certo che anche i francesi si indignarono per il fatto che i tedeschi, piuttosto che veder dissolvere la loro nazione, preferirono il nazismo. Chi non impara la storia... |
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#9 |
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Senior Member
Iscritto dal: Mar 2003
Messaggi: 740
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ma poi è fantastica questa barzelletta sugli antiamericani.. come se essere antiamericani e antibush fosse la stessa cosa
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#10 | |
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Senior Member
Iscritto dal: Dec 2002
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#11 |
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Illuminami/ci
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#12 |
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Senior Member
Iscritto dal: Nov 2001
Città: Padova
Messaggi: 1638
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Forse a qualcuno sfugge come, secondo certe definizioni, i più grandi antiamericani molte più volte sono gli stessi americani... fatevi un giro in qualche forum OT a prevalenza USA...
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#13 |
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Amministratore
Iscritto dal: Jan 2001
Città: Luino (VA)
Messaggi: 5122
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Calma calma calma.
Si è qui per discutere, invito tutti ad usare un atteggiamento di dialogo senza sarcasmi e saccenza (!). Prevenire è meglio che curare |
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#14 |
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Senior Member
Iscritto dal: Sep 2001
Città: Roma
Messaggi: 1944
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prima di accusare soltanto, non sarebbe meglio cercare di capire come mai esiste così tanto antiamericanismo, in giro?
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"Oggi è una di quelle giornate in cui il sole sorge veramente per umiliarti" Chuck Palahniuk Io c'ero |
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#15 | |
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Iscritto dal: Dec 2002
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#16 |
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Senior Member
Iscritto dal: Oct 2003
Città: Imola
Messaggi: 1126
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Chiedo solo che,se si sostengono delle legittime opinioni senza usare il condizionale,si abbia almeno la cortesia di portare a conoscenza degli altri quei dati (o documenti, visto che il tema è storico) che le sostengono.
Niente di più.
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#17 | |
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Senior Member
Iscritto dal: Dec 2002
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#18 | |
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Senior Member
Iscritto dal: Oct 2002
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Devi sempre stare attento ad aprire bocca e ad esprimere la tua opinione se non vuoi che ti vengano affibbiate ideologie non tue...
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Guarda....una medusa!!! |
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#19 |
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Senior Member
Iscritto dal: Oct 2003
Città: Imola
Messaggi: 1126
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Scusami, ma se scrivi che l' opinione generale su un fatto storico è sbagliata avrai pure qualche fonte dalla tua parte.
Sarebbe come dire da parte mia che Kissinger non c'entra nulla col golpe cileno. All' america potrai fare tutte le critiche che vuoi, ma accusarla di avere voluto il Muro di Berlino non credo sia giusto scriverlo così en passant. Primo per il fatto che in materia ci sono ormai tutti gli archivi aperti (compresi quelli del Pcus, della Sed, Kgb, Stasi, ecc.), secondo perchè la tragicità dell' episodio consiglierebbe di trattarlo comunque con le pinze. Se poi il senso del tuo discorso è che il muro è stato costruito perchè gli americani non hanno ceduto al ricatto sovietico di smilitarizzare B. Ovest, allora le cose cambiano. Ma anche se questo è il caso non mi pare calzante dire che l' abbiano voluto loro.
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#20 | |
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Senior Member
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