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Old 06-05-2012, 12:51   #1
frankytop
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Dall'Africa alla Papuasia, ecco perché siamo tutti umani moderni

Anche se gli studi di paleogenomica hanno mostrato che nelle attuali popolazioni umane sopravvivono in misura diversa geni provenienti dalle specie cugine estinte di Neanderthal o di Denisova, riferirsi a queste eredità come a elementi "primitivi" o "arcaici" nell'accezione comune, e peggiorativa, di questi termini, è sbagliato, e potenzialmente pericoloso: tutti gli esseri umani sono comunque ugualmente "moderni"


Il pioniere degli studi di paleogenomica umana Svante Pääbo con uno scheletro di uomo di Neanderthal.

Fino a una decina di anni fa, la storia della diffusione dell’uomo moderno appariva, a dispetto delle molte lacune nella documentazione disponibile, abbastanza lineare: fra i 50.000 e i 60.000 anni fa i nostri antenati avrebbero iniziato a lasciare l’Africa per diffondersi in Asia, e poi raggiungere, circa 40.000 anni fa l’Europa, soppiantando nel giro di qualche migliaio di anni la specie cugina dei Neandethal che vi era arrivata ben prima.

Ma le ricerche più recenti hanno ricostruito un quadro decisamente più complesso, a partire dai tempi e dalle modalità dell’esodo dal continente africano, che – stando a nuovi ritrovamenti archeologici e alle più accurate datazioni al radiocarbonio – sarebbe avvenuto in ondate successive a partire già da 100.000 anni fa.

Lo sconvolgimento maggiore è però venuto dai progressi delle tecnologie genetiche che hanno permesso il sequenziamento del DNA prima dell’uomo di Neanderthal, poi di quello dell’uomo di Denisova, di cui sono stati trovati resti in Siberia nel 2010, e che ha arricchito il genere Homo di un’altra specie.

Il fatto è che dal confronto di questi paleogenomi con quello dell’uomo contemporaneo è risultato che in molti di noi sopravvivono tracce, ossia geni, provenienti da quelle specie cugine con le quali i nostri antenati H. sapiens si sono evidentemente incrociati in qualche misura. Dagli studi condotti risulta infatti che nelle popolazioni che vivono al di fuori dell’Africa il 2,5 per cento del patrimonio genetico può essere fatto risalire in media ai Neanderthal, che nelle popolazioni indigene dell’Australia e della Nuova Guinea un ulteriore 5 per cento deriva dall’uomo di Denisova, mentre nelle popolazioni che non hanno mai lasciato il continente africano il 2 per cento può essere attribuito ad
altre forme arcaiche dell’uomo ancora non identificate.

Questa scoperta ha portato in primo piano alcune questioni fondamentali. La prima riguarda la classificazione di questi lignaggi come specie distinte, dato che, secondo la definizione biologica classica, due specie distinte non dovrebbero potersi incrociare o avere prole fertile. Questo però è un problema più apparente che reale, dato che il processo di speciazione è graduale, e popolazioni fenotipicamente già sufficientemente differenti da poter essere considerate come specie distinte possono ancora avere una vicinanza genetica tale da permettere incroci di successo.

La piccola percentuale di differenza riguarda frammenti di DNA per i quali al momento non si sa neppure se abbiano anche un’espressione fenotipica

Ma ecco il punto più sensibile. In tutti gli articoli scientifici e i resoconti divulgativi che ne diffondono le scoperte si parla di geni e tratti arcaici, ancestrali, primitivi a cui vengono contrapposti quelli dell’uomo moderno. Quando questi termini sono utilizzati in un contesto paleontologico sono neutri, ma trasportati nel linguaggio comune acquistano molto facilmente una valenza peggiorativa, e potrebbero indurre alla tentazione di speculare su possibili classificazioni di gruppi di persone o di popolazioni in base alla presunta maggiore o minore “modernità” dell’uno o dell’altro. Questa evenienza nella storia si è già più volte verificata, con le ben note tragiche conseguenze, e talvolta con la connivenza o il silenzio colpevole di chi conosceva bene la differenza di significati fra lessico tecnico e lessico comune.

Per questo, nel pubblicare una serie di articoli in cui viene fatta una panoramica dello stato dell’arte della ricerca in questo campo, la rivista “Nature” vi premette un commento in cui spiega la falsità sottostante a una simile eventuale pretesa, ricordando che in realtà tutti gli esseri umani attuali sono altrettanto moderni.

La stragrande maggioranza dei geni (ben oltre il 90%) deriva infatti dal nostro patrimonio comune africano, e la piccola percentuale di differenza riguarda frammenti di DNA per i quali al momento non si sa neppure se abbiano anche un’espressione fenotipica; ma che se anche così fosse, questa rappresenterebbe non un tratto “primitivo”, nel senso deteriore del termine, quanto un tratto “di successo” che ha permesso a quel gene di resistere e perpetuarsi a dispetto delle condizioni svantaggiate di partenza (l’estinzione della specie in cui è emerso).

“Se i ricercatori vogliono continuare nei progressi recentemente realizzati nello studio delle origini delle varianti dell’uomo moderno – osserva Chris Stringer, del Natural History Museum di Londra, che ha scritto il commento per “”Nature” - dovranno riflettere a lungo e a fondo sui i loro scopi, e sul lessico che usano.” Un appello a cui aderiamo completamente.
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