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Old 19-09-2004, 15:57   #1
GioFX
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Jiang Zemin esce di scena

Da Repubblica.it:

Jiang Zemin esce di scena
Hu Jintao leader incontrastato


PECHINO - Jiang Zemin ha lasciato al suo successore Hu Jintao anche la carica di capo delle Forze armate, completando il primo processo di trapasso pacifico dei poteri nella storia della Cina comunista. Come previsto, l'ex presidente ha infatti formalmente rassegnato le proprie dimissioni da capo della commissione militare centrale della Repubblica popolare cinese, in pratica da comandante supremo delle Forze armate, uscendo in via definitiva di scena.

Esce dall'organigramma del potere almeno sul piano ufficiale, anche se di fatto il 78enne ex presidente cinese continuerà a giocare un ruolo determinante dietro le quinte, esattamente come fece a suo tempo il predecessore Deng Xiaoping. Il Comitato centrale del partito comunista, giunto alla conclusione della sua annuale sessione di quattro giorni, ha accettato la rinuncia di Jiang e al suo posto ha subito nominato il presidente in carica, Hu Jintao, che concentra adesso nelle sue mani tutti i poteri.

Hu, 61 anni, era succeduto allo stesso Jiang già nel 2002 come segretario generale del partito, e l'anno seguente come numero uno del governo. Il Comitato centrale ha inoltre investito Xu Caihou, coetaneo di Hu, della vice presidenza della Commissione militare centrale, organo-guida di un possente apparato militare che conta su circa due milioni e mezzo di soldati.

Jiang era l'ultimo Grande Vecchio della Cina comunista ancora titolare di cariche ufficiali e, sebbene la sua influenza resti molto forte, l'avvicendamento segna un vero e proprio cambio generazionale ai vertici del Paese asiatico.

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L'addio del compagno Jiang
dalla Tienanmen al liberismo


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

PECHINO - È uno dei "boia di Tienanmen", responsabile del massacro di centinaia di studenti nel giugno 1989 a Pechino. Ma è anche un uomo di mondo, cosmopolita e innamorato dell'America, non perde occasione per parlare inglese, cita a memoria Mark Twain, ha cantato Love Me Tender di Elvis Presley a un pranzo con Bush e ha trascinato in un giro di valzer un'esterrefatta Condoleezza Rice. Questo è Jiang Zemin, 78 anni, che si appresta a cedere anche l'ultimo incarico di potere, cioè la guida delle forze armate che gli consentiva di condizionare il nuovo presidente Hu Jintao.

Jiang Zemin, alla pari del suo padrino politico Deng Xiaoping, passerà alla storia come un personaggio dalle contraddizioni estreme. Se per dodici anni è stato il massimo leader della Cina in uno dei periodi più fortunati per questa nazione, lo deve al peccato originale di un golpe istituzionale. Di fronte al movimento studentesco dell'89 Deng esautorò di fatto gli organi del partito e del parlamento, fece imprigionare il leader riformista Zhao Ziyang (tuttora agli arresti domiciliari), promosse Jiang alla guida del partito e gli diede carta bianca per soffocare nel sangue le aspirazioni democratiche.

Lo stesso Jiang però è il leader dei favolosi anni 90, in cui la Cina è diventata campione mondiale della crescita economica e delle esportazioni, ha superato il Pil di Francia Inghilterra e Italia, ha diffuso un benessere di massa e una modernizzazione senza precedenti storici per un paese di queste dimensioni.

Ai suoi successori Jiang ha consegnato una Cina afflitta da diseguaglianze crescenti (la distanza tra ricchi e poveri è ormai superiore all'India), da gravi problemi ambientali, con una libertà di espressione ancora limitata e sistematiche offese ai diritti umani delle minoranze. Ma è anche la Cina che nella produzione di scienziati e ricercatori ha superato l'Europa e si colloca dietro gli Stati Uniti. È una nazione entrata nel terzo millennio convinta che tutto le è possibile, carica di un orgoglio e di un ottimismo che non hanno eguali nel resto del mondo. A Washington da tempo si considera questa Cina come l'altra superpotenza globale del terzo millennio, l'unica possibile rivale dell'America.

Tecnocrate formato nell'Unione sovietica, ex direttore di una fabbrica di auto, legato ai clan politico-economici di Shanghai, Jiang non ha né il carisma né lo spessore strategico di Deng Xiaoping. Ne è stato però un emulo intelligente ed efficace. Con le sue riforme ha dato un altro colpo d'acceleratore all'economia di mercato. Sotto la sua leadership si è diffusa la proprietà privata a tutti i livelli: dalle abitazioni individuali alle grandi imprese. Ha aperto la Cina con una velocità sorprendente alle multinazionali straniere, tanto che oggi questo paese è più aperto e internazionale del Giappone.

Ha guidato Pechino verso l'accesso alla World Trade Organization, sanzione istituzionale per l'ingresso di 1,3 miliardi di persone nella sfida dell'economia globale. Ha aperto le frontiere liberalizzando i viaggi all'estero, tanto che oggi ci sono nel mondo più turisti cinesi che giapponesi (21 milioni all'anno). In economia Jiang è talmente "occidentale" che di recente ha accusato il suo successore Hu di non essere abbastanza liberista: per frenare il surriscaldamento della crescita l'attuale governo ha ordinato alle banche di ridurre il credito; un errore, secondo Jiang, che avrebbe preferito l'uso di strumenti di mercato come l'aumento dei tassi.

In politica il bilancio è controverso. Jiang ha consentito per la prima volta nella storia l'iscrizione al partito comunista degli imprenditori privati... come suo figlio, businessman al vertice di varie aziende tra cui il colosso elettronico Grace Semiconductors. La New Left cinese, rappresentata da intellettuali come Wang Hui, sostiene che quella decisione ha sancito la nuova natura del partito comunista, "ormai più vicino agli interessi dei capitalisti che dei lavoratori".

Nelle relazioni internazionali Jiang è considerato un falco, custode dell'intransigenza sulla questione di Taiwan. In realtà seppe ricucire i rapporti con l'Occidente dopo l'isolamento dell'89. Poi gestì con moderazione esemplare due crisi che potevano diventare gravi: il bombardamento Nato dell'ambasciata cinese a Belgrado nel 1999, e l'aereo-spia americano intercettato sui cieli cinesi nell'aprile 2001.

Ma sul suo bilancio politico ciò che pesa di più è proprio l'eredità di Tienanmen. Nella scelta di schiacciare le manifestazioni popolari - contro il parere di un'ala liberal del partito che voleva avviare la Cina verso un'evoluzione simile all'Europa dell'Est - c'è la visione comune a Deng e Jiang secondo cui "la democrazia occidentale non è adatta alla Cina". E' una interpretazione del confucianesimo che giustifica la presunta vocazione paternalista della società cinese.

Via via che la parola comunismo perde significato in un paese ormai più capitalista di noi - in fatto di pensioni e sanità la Cina assomiglia più all'America che all'Italia o alla Germania - il modello ideale di Jiang diventa l'autoritarismo di destra di Singapore. (Secondo il sinologo Bruce Gilley, la Cina di oggi assomiglia più alla Spagna verso la fine del franchismo, che non a un paese socialista). In realtà i cinesi non sono allergici alla democrazia. Lo hanno dimostrato nel passato: nel 1911 con Sun Yat Sen, nel 1949 nella breve fase moderata e pluralista del maoismo. Lo dimostrano oggi a Hong Kong e Taiwan... o nelle elezioni americane, a cui partecipano gli abitanti delle varie Chinatown di New York, San Francisco e Los Angeles.

Il modo in cui avvengono le dimissioni di Jiang segna un progresso per il sistema politico cinese. Il passaggio delle consegne dalla sua generazione a quella dei tecnocrati sessantenni Hu e Wen è il primo ricambio ordinato, senza spargimenti di sangue o arresti. Dai tempi di Mao fino a Tienanmen, le battaglie di successione avvenivano in maniera cruenta e destabilizzante per l'intera società, con incidenti aerei che facevano sparire l'erede al trono o guerre civili come la Rivoluzione culturale dal 1966 al 1976.

È un merito postumo di Deng Xiaoping, che designò sia Jiang sia Hu, l'aver organizzato per due generazioni un metodo più civile. Tuttavia questa classe dirigente ha sepolto il suo passato nell'oblio: accusa il Giappone di non aver mai chiesto scusa per le vittime cinesi della seconda guerra mondiale, ma essa stessa si rifiuta di creare un museo sulle vittime della Rivoluzione culturale (proposto da molti intellettuali); né i manuali scolastici raccontano la verità sui 40 milioni di morti di fame per le scelte dissennate di Mao Zedong nel "grande balzo in avanti" del 1958-59.

Alla vigilia del Plenum il presidente Hu ha ribadito che il pluralismo democratico in stile occidentale sarebbe "un vicolo cieco" per la Cina. Per i più ottimisti quella professione di continuità con Jiang Zemin è un atto dovuto. Occorreva agevolare le dimissioni dell'anziano leader e non insospettirlo con strappi politici improvvisi. In almeno una occasione Hu e Wen hanno creato invece l'attesa di un cambiamento vero: nella crisi della Sars all'inizio del 2003 questo governo rinunciò d'un tratto alla censura delle notizie. Dopo mesi di opacità, di colpo il presidente e il primo ministro si fecero vedere negli ospedali in mezzo ai malati e adottarono una trasparenza dell'informazione mai vista prima.

In questo Plenum del Comitato centrale, Hu ha fatto circolare un'indagine socio-culturale sui quadri del partito comunista che ne denuncia l'inadeguatezza, li definisce "incapaci di governare situazioni complesse". La lotta alla corruzione interna figura al primo posto nell'agenda ufficiale dei lavori. Il Quotidiano della gioventù comunista descrive una "emergenza sociale", parla di "una perdita di credibilità del partito tra la gente, che può sfociare nell'instabilità". Nell'ultimo decennio abbiamo imparato, anche a nostre spese, quanto la Cina è capace di trasformare la propria economia. Nel dopo-Jiang Zemin, il cambiamento potrebbe non essere più limitato all'industria, alla tecnologia e ai consumi.
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Old 19-09-2004, 23:56   #2
GioFX
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Old 20-09-2004, 00:02   #3
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bene
adesso manca solo che se ne vadano tutti gli altri del suo entourage
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Old 20-09-2004, 00:05   #4
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I compagni sono in riunione. (di Enzo Reale)

metto un'altro articolo al riguardo



Preceduto dalla consueta ondata di arresti preventivi, si apre oggi (seppur a porte chiuse) il congresso del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. E anche solo scrivere una frase del genere nell'A.D. 2004 fa un certo effetto. Presentato da alcuni come una resa dei conti tra il nuovo (alla cinese, s'intende) Hu Jintao e il vecchio Jiang Zemin (come se invece che del conclave dei massimi dignitari del Partito-Stato stessimo parlando dell'assemblea nazionale dell'UDC), il plenum non sarà altro che l'ennesima occasione per consolidare l'apparato di potere nel superiore interesse del Partito al controllo sulla società cinese. Se qualcuno avesse avuto qualche dubbio al proposito ci ha pensato ieri lo stesso Hu Jintao (in un discorso televisivo) a mettere in chiaro che non è il caso di farsi venire strane idee, ribadendo il ruolo fondamentale del partito unico e denunciando la democrazia «all'occidentale» come «un vicolo cieco» per la Cina. Non come Mao e il comunismo che - come noto - hanno tracciato sentieri di progresso e riempito il paese di giardini in fiore. Eppure segnali di allarme - quindici anni dopo Tiananmen - devono essere giunti anche a Zhongnanhai se è vero che l'agenzia di stampa Xinhua informa che la sessione plenaria del Comitato Centrale avrà come principale obiettivo quello di

put the building of the Party’s ruling capacity on the top of the agenda

che - tradotto - significa che più di uno, nei palazzi del potere, comincia ad avere seri dubbi sulla reale capacità del Partito di tenere chiuso il coperchio sopra quella pentola a pressione che si chiama Cina.
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Old 20-09-2004, 23:33   #5
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La riunione è finita. La foto l'avevano già scattata prima. Per il resto poco o nulla da segnalare.
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