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#1 |
Junior Member
Iscritto dal: May 2015
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BLOG NARRATIVO: Assedio a un castello di carte
Benvenuti a tutti. Non mi presento, perché a farlo sarà questa storia.
Questo che avete sotto gli occhi è un blog-narrativo-autobiografico, o almeno questa è l’idea. Mi spiego peggio: la mia intenzione è creare, post dopo post, un racconto autobiografico sulle mie vicissitudini. Voglio precisare che il tutto sarà sì “romanzato” (quindi non prendete alla lettera ogni singola parola: spesso andrò a cambiare/omettere nomi e luoghi, o altre volte scriverò in prime persona cose in realtà accadute a conoscenti) ma un buon 50% di quello che leggerete sono cose realmente avvenute, e quasi sempre al sottoscritto. Se tutto va come previsto si formerà un racconto ad episodi, molto simile ad una serie-tv, che spero vi faccia divertire e vi intrattenga passo dopo passo nella sua lettura. Da parte mia garantisco una produzione di almeno un post settimanale che porterà avanti la storyline, ma sarò lieto di rispondere a eventuali domande in altri post liberi dal racconto. Come ho annunciato, mi sono spiegato peggio, ma vi assicuro che il tutto sarà molto fruibile sin dal primo impatto. Inserirò subito tutti i capitoli già scritti, dato che questa storia è nata su un altro forum, ma ora ho deciso di espandere il tutto per ampliare il più possibile la platea di lettori. Ho scelto questo forum perchè è quello che visito più di tutti, mi ha aiutato in diverse situazioni e mi sembrava giusto dare qualcosa in cambio. Riceverete così i primi 8 capitoli uno in fila all'altro, mentre poi dovrete aspettare in media una settimana per ogni capitolo. Bene, credo di aver detto tutto. Buon viaggio. Ultima modifica di donk.or.leone : 03-05-2015 alle 22:43. |
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#2 |
Junior Member
Iscritto dal: May 2015
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Capitolo 1
Sono nato e cresciuto in un paesino di 158 abitanti. O questo almeno è quello che dice la pagina di Wikipedia. La pagina del paesino, intendo, la mia ancora non l’ha creata nessuno. L’ospedale più vicino dista ventuno chilometri, il cimitero più vicino diciotto -li scrivo a lettere, per rendere meglio l’idea. Il succo è che non si può neanche morire in un paese così. Ti devi spostare pure per quello. Tutta quella parte di vita ve la risparmio più che volentieri, diciamo che non fa curriculum. Semplicemente è arrivato un giorno in cui mi sono detto che era meglio andare a vivere in qualsiasi altro posto. Quantomeno in uno dove si potesse almeno morire senza preoccupazioni. Ho scelto Milano, ma è stato quasi un caso. Avrebbe potuto essere qualsiasi altra città. Forse, ripensandoci, la scelta è ricaduta su Milano perché quando te ne vai da un paese di 158 abitanti vuoi farlo alla grande, al diavolo le mezze misure. Il bello di Milano è che è una città internazionale, il bello è che prendi un aereo e nel giro di mezza giornata sei dovunque tu voglia. Chiunque tu voglia. Avevo 19 anni allora. Per un po’ ho vissuto arrangiandomi, cambiando praticamente un lavoro a settimana. Se vi chiedete come fosse possibile, anche se non è passato molto, va detto che erano altri tempi. Ho fatto il pizzaiolo, il cameriere, il garzone di un idraulico depravato, l’omino in bundle con il camion traslochi, il parcheggiatore abusivo, e tanti, tanti altri, perfino il postino, per dirne uno un po’ più istituzionale. Vivevo in sub-affitto in un trilocale all’ottavo piano. Per i primi tempi il mio coinquilino era un tossico che stava con una biondina moldava da urlo. Non andavamo molto d’accordo, o almeno questa era la mia impressione. Una mattina mi sveglio: il tossico è sdraiato per terra in cucina, con la testa nel frigorifero. Si era calato qualcosa di troppo e aveva provato a far scendere la temperatura corporea buttandosi in mezzo a lattine di birra e prosciutti. Io credevo che fosse morto, la prima cosa che ho fatto è stata chiamare a casa la moldava. Lei mi diceva di non chiamare nessuno, di stare calmo, che stava arrivando. Mi ricordo che nel frattempo ho fatto colazione a pochi passi da quel corpo, mi ricordo anche di aver pensato di scappare, ma non l’ho fatto. Poi la moldava arriva, e si mette a urlare, alla faccia dello stare calmi. Ci ho messo un’ora per convincerla a chiamare l’ambulanza. Ora due notizie belle, una bellissima e due brutte. La prima bella notizia è che mi ero sbagliato: il tossico era ancora vivo. La brutta notizia è che abbiamo pagato una bolletta per il frigo da urlo, e abbiamo dovuto buttare il prosciutto. L’altra bella notizia è che lui è stato per due settimane in ospedale. Perché è bella? Perché la bellissima notizia è che la moldava ha vissuto con me tutti quei giorni, e vi lascio intuire. L’ultima brutta notizia è che quel tossico è ancora vivo: ora è un avvocato civilista di successo. Poteva andargli meglio. La moldava ho continuato a frequentarla di nascosto per un po’ di settimane, poi un giorno è semplicemente sparita dalla circolazione. Non so che fine abbia fatto. La prima vera svolta della mia vita l’ho avuta a 21 anni, mentre ero disoccupato e chiedevo lavoro un po’ a tutti. Un giorno un mio amico legge un annuncio di lavoro per venditori su di un giornaletto, e mi chiede di accompagnarlo. Il giorno dopo ci presentiamo al colloquio di lavoro. Eravamo in otto per tre posti. Io ero l’unico senza la cravatta, e mi ricordo che per darci un tono ci eravamo scolati delle bottiglie di birra alle otto di mattina. Il mio amico è corso in bagno a vomitare durante il colloquio di gruppo. Che ci crediate o no, ci hanno presi entrambi. Per i primi due mesi mi ricordo che non facevo niente da mattina a sera. Eravamo in quattro, tutti giovanissimi, in uno stanzino minuscolo, ognuno con la sua scrivania. Il nostro compito era leggere dei fascicoli infiniti. Ci provai per qualche giorno, poi, dato che nessuno ci controllava, lasciai perdere. Me ne stavo al computer tutto il giorno a giocare a flipper e a campo minato. Credo di detenere tutt’ora il record mondiale, davvero: sono sicuro che un giorno arriverà qualcuno a darmi la targhetta. Per quello che ne sapevo io, la nostra azienda vendeva cose. Non avevo ancora bene chiaro cosa però, e soprattutto a chi, ma intuivo che le vendite andassero bene se si potevano permettere pesi morti come il sottoscritto. Ah, mi sono dimenticato. Ovviamente il mio curriculum vitae era falso come una banconota da trenta. Non ho millantato lauree, per carità, ma avevo scritto di aver svolto attività di ufficio –mai fatta- e soprattutto di conoscere l’inglese fluentemente. Non sono passati poi così tanti anni, ma non era ancora l’era del porno in streaming: l’inglese tra i giovani non lo sapeva praticamente nessuno. Tutto bene comunque, fino a quando un bel giorno entra nel nostro stanzino una signora rosso fuoco sulla cinquantina. E inizia a parlare in inglese. Inizia e non la smette più. Mi ricordo di aver passato un quarto d’ora a dire «Yes» e annuire ritmicamente come uno di quei pupazzetti di plastica da scrivania. Quando la donna se ne esce, una ragazza nostra collega ci guarda e ci fa: “Avete capito?”. Nemmeno una parola. “Due di noi devono andare in Olanda la settimana prossima. C’è da incontrare un cliente”. Panico. Il mio amico, che comunque un po’ di inglese lo sapeva, il giorno dopo si è dato malato, per poi licenziarsi nei mesi successivi. L’altro ragazzo nello stanzino non mi ricordo perché diede buca. Io non avevo il coraggio di fare una vigliaccata simile, anche se ci sono stato molto vicino. Forse, semplicemente, non ero abbastanza sveglio per capire che era il caso di mollare. Ho passato una settimana a leggermi il dizionario italiano-inglese/inglese-italiano e a studiare fascicoli su fascicoli. La notte prima della partenza l’ho passata insonne. Me ne stavo lì, a fissare la valigia pronta, ad escogitare uno stratagemma per salvarmi. Niente di niente. La mattina dopo mi ritrovai in aeroporto, assieme alla mia collega e al nostro capo, con in mano un biglietto per Amsterdam, in procinto di vendere componentistica di non so bene cosa, a non so bene chi. Subito dopo il decollo, mentre guardavo l’aereo entrare nelle nuvole, forse per quella sensazione di essere in Paradiso, mi sentii costretto a confessare tutto al mio capo; dopotutto non volevo far fare figuracce a lui e alla sua azienda. Lui fu molto comprensivo. «Sei licenziato». Ok. «Cerca di fare meno danni possibili». Ok. Amsterdam, stavo arrivando. |
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#3 |
Junior Member
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Capitolo 2
Quello che ancora non avevo capito, della mia azienda, era quanto facesse le cose in grande. Per dirvi, appena atterrati un’autista ci accoglie con il suo bel foglietto scritto a mano e ci accompagna al suo Mercedes nero. L’hotel in cui ci scarica, poco lontano dal centro città, è uno di quelli che quando entri ti pare d’essere in un museo. Cinque stelle con tanto di fontanone all’entrata. Tre camere per una notte, in uno di quegli hotel, ti costano stipendi interi. Che poi le camere non sono state nemmeno tre, perché per un errore di prenotazione, invece di tre singole, ci danno una singola e una matrimoniale. Ça va sans dire, il tentativo di dormire con la collega l’ho fatto, anche perché non era mica male, anzi. Il suo problema era il fatto che fosse fidanzatissima, una di quelle che ti alza barriere architettoniche appena le fai una battutina. Il mio capo (o meglio ex-capo, a quanto pareva) per galanteria e un po’ di pudore, lascia dormire lei nella singola, e a me, dunque, tocca la camerata maschile. Mi offro di andare a cercare un altro hotel nelle vicinanze, più che altro per rispettare il divario gerarchico tra me e lui, ma inaspettatamente si dimostra più alla mano di quanto possa sembrare. Ecco, a proposito di lui, direi che è giunto il momento di descriverlo un po’, più che altro perché, nonostante tutto, ha un ruolo importante nella mia vicenda. Il nome per ora non lo dico, lo dirò più avanti, se me ne viene voglia, ma non vi posso garantire che sarà quello vero, dato come sono finite le cose. Lui: occhi di ghiaccio, la erre come la pronunciano i milanesi ricchi, più verso i 50 che i 40, magro, ma di quella magrezza che, non so perché, pensi sempre che se ci fai a pugni le prendi sicuro. Alto, senza neanche un pelo in testa, vestiti così firmati che nemmeno il block notes di un collezionista di autografi. Insomma, all’epoca, io, con uno così, non avevo proprio un bel nulla in comune. Va bene scusate, finita la descrizione, era solo per farvelo inquadrare un po’. Procediamo. Dopo una doccia veloce risaliamo sulla Mercedes e ci dirigiamo dal cliente a Uthrect (sempre che si scriva così), che dista mezz’oretta di macchina da Amsterdam. Il clima è teso, il mio capo non dice una parola, l’altra ragazza mi rompe le ***** per tutto il viaggio ripetendomi la lezione, come se fosse una scolaretta la mattina dell’interrogazione. Arrivati a Uthrecht (lo scrivo in modo diverso, così almeno una volta ci prendo), la attraversiamo, poi proseguiamo per altri dieci minuti fino a ritrovarci in un'area industriale. Oggi se non sbaglio è stata inglobata dalla città, ma allora era una zona semiabbandonata in cui, rispetto a tutto il resto, la nostra Mercedes sembrava una macchina venuta dal futuro. A un certo punto l’autista ferma l'astronave; io e la collega ci guardiamo negli occhi con espressione incredula: siamo arrivati? Qui? Insomma, tutto ci aspettavamo, tranne che l’incontro si tenesse in un posto del genere. Ci eravamo fatti due ore di volo e quaranta minuti di Mercedes-da-ricchi-sfondati, tutti infighettati nei nostri vestiti migliori, per arrivare ad un casolare a un piano, ingrigito e mezzo diroccato, in un posto sperduto nella più marcia delle periferie. E noi che ci eravamo prefigurati villoni megagalattici, uffici all’ultimo piano di grattacieli di vetro, fanfare e trombe per accoglierci come dei grandi manager. Il capo, come se fosse la cosa più normale del mondo, scende dalla macchina e va dritto verso la porta in ferro. Fuori, stranamente, non c’è la maniglia, e nemmeno un campanello. Una telecamera ci osserva, e io ho come l'impressione che qualcosa non vada, e nemmeno so il perché. Dopo qualche istante la porta si apre e un giapponesino di nemmeno quindici anni si palesa per farci entrare. Appena entrati, senza dire nulla, si fionda all’esterno e ci chiude dentro. Un altro asiatico, questa volta però bello anzianotto, ci accompagna al piano di sotto, giù per una scala strettissima, il tutto senza mai dire una singola parola. Comprenderete come io a questo punto mi sentissi dentro a un film di Quentin Tarantino, e fossi certo che dietro la porta in fondo alla scala avrei trovato nientepopòdimeno che la Yakuza al completo, con tanto di katane in mano e geishe come fermacarte. Invece, quando il vecchio apre la porta, vedo qualcosa che, se possibile, mi stupisce ancora di più delle mie previsioni pulp: uno stanzone infinito, così grosso che l’Inter sarebbe tranquillamente capace di perderci una partita regolamentare. Là dentro, praticamente intrappolati sotto un soffitto bassissimo, decine di donne e uomini asiatici in piedi davanti a dei macchinari grigi. Già, macchinari. Io inizio ad afferrare: quei macchinari, ognuno di quei modelli, noi li abbiamo nei nostri fascicoli. Ecco perchè siamo lì. Attraversiamo la stanza guidati dal giapponese anzianotto, passando in mezzo a tutta quella gente che si inchina e fa riverenze al nostro passaggio. Raggiungiamo dall’altra parte un ufficio con vetrata che dà sullo stanzone, ci entriamo. Dentro c’è una scrivania completamente vuota, il caro vecchietto jappo si siede da un lato, il nostro capo si siede nell’unica sedia dal lato ospiti. Io e la mia collega, uno alla sua destra, uno alla sua sinistra, stiamo in piedi, come due angeli custodi. Mr. Sushi, che fino a questo punto non ci ha mai guardati in faccia e non ha mai detto una parola, di colpo apre le braccia e ci mostra un sorriso che è l’incubo notturno di ogni dentista. «Welcome to Holland». Benvenuti in Olanda. A quel tempo, ripeto, ero una totale capra in inglese. Questo mi impedì di capire i punti chiave della conversazione. Quello che ricordo distintamente è che a parlare è il mio capo, come se sia lui a dettare le regole, mentre l’altro annuisce e incassa. Ebbravo il mio capo, guardalo come tiene testa al Samurai. Ogni tanto, il vecchietto di Tekken guarda me e la mia collega, squadrandoci dal basso in alto. Dopo pochi minuti, i due si stringono la mano. Ritorniamo nello stanzone, ne segue un altro giro trionfale di inchini e riverenze, e poco dopo siamo di nuovo con le chiappe sulla nostra bella Mercedes in movimento. Il capo, la prima cosa che fa, è una chiamata in francese, così, giusto perché non sono già abbastanza confuso dalle lingue. Quando mette giù è l’uomo più felice del mondo. «Ma tu ci hai capito qualcosa?» chiedo alla mia collega sottovoce. «Gli abbiamo venduto mezzo milione in macchinari quasi nuovi, e in più ritiriamo i loro usati funzionanti» dice lei. «Che rigireremo a Marsiglia per altri centomila euro» si intromette il capo, dal sedile davanti, «È l’operazione più grande che abbiamo mai fatto». E immagino che sia tutto molto legale, soprattutto. «Ma noi…oggi… a che le servivamo?» chiedo con sincera curiosità. «A me proprio a niente.» mi risponde lui, «Servivate al cliente, doveva vedervi». «Vederci per cosa?» «Va bene, l’inglese non è il tuo forte, ma da uno come te mi aspettavo un po’ di perspicacia», e poi ride, godendo dal fatto che non ci ho ancora capito nulla, «Peccato che per licenziarti dovrò aspettare ancora un paio di mesi». Ecco, a questo punto, gentilmente, con molta pacatezza, avrei voluto prendergli quella palla da bowling che si ritrova al posto della testa e sbatterla violentemente contro il cruscotto, lui e quel suo dannato sorrisetto. «Dobbiamo ritornare?» chiedo. «Entrambi voi due piccioncini, in una romantica gita in solitaria nel paese dei tulipani. Insegnerete a usare alla perfezione i tre diversi modelli che abbiamo appena venduto». Oh *****! «In inglese, giustamente» dico io. «Se preferisci va bene anche il cinese» fa lui. Cinesi! Dio me li confondo sempre. «Abbiamo fatto il botto ragazzi, stasera si festeggia» continua il capo, iniziando a leggere dalla sua guida verde i nomi di ristoranti e locali del centro di Amsterdam. Io, dal canto mio, avrei mille domande da porgli, ma semplicemente lascio svanire i dubbi e me ne torno a guardare la città di Utrecht (✔) scorrere rapida, oscurata dal vetro del mio finestrino. Il giorno dopo l'aereo ci avrebbe riportati a Milano. Davanti a noi, però, ancora quella sera, ancora quella notte. Ad Amsterdam. |
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#4 |
Junior Member
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Capitolo 3
Immagino che ormai tutti lo abbiate colto, ma in ogni caso adesso è giunto il momento di sciogliere eventuali dubbi. Mi scuso a priori, che tanto fa sempre bene, per questa digressione. Questi fatti, e buona parte di quelli che mi accingo a raccontare, si sono svolti nei primi anni 2000. Alla storia, se si può usare questa espressione per parlare di un periodo che è ieri, sarebbero passati come gli Anni Zero. Io sarò un idiota, ma credo che nei primi anni di un secolo si possano sempre scorgere degli indizi riguardo a quello che succederà nei successivi cento anni. Se non accettate questa tesi, almeno lasciatemi passare il fatto che sono sempre anni in cui c’è un’aria nuova. Forse è qualcosa di psicologico: è il vedere quelle cifre così basse nei calendari sotto i nostri occhi, come se si ripartisse da capo, come se tutti gli sbagli commessi dalle generazioni precedenti fossero perdonati per sempre. 01, 02, 03, 04 e così via. È l’inizio di tutto, non lo vedete? Noi vissuti negli Anni Zero siamo stati i depositari di questo immenso dono: il dono della pagina bianca. La possibilità di poter scrivere da capo il nostro futuro. Forse è un pensiero stupido, lo so, ma è quello che credo. Non devo certo essere io a ricordarvi come abbiamo scelto di iniziare questa storia, cosa ne abbiamo fatto di questa pagina bianca. Appena arrivati al conto dell’ 1 ci siamo schiantati con i nostri aerei contro le Torri, per poi professare guerre senza motivo, sublimando le nostre paure dentro a volti scuri e barbuti visti in televisione. Abbiamo ignorato i genocidi dell’Africa e le guerre di pace, creando mostri che prima o poi presenteranno il conto, e forse lo stanno già facendo. Dopo quella falsa partenza potevamo raddrizzare la rotta, ritornare in carreggiata. E noi? Noi abbiamo fatto tutt'altro. Senza neanche arrivare al 10 abbiamo creato la più grande ed eterogenea crisi economica mai vista nella modernità. Anche in questo caso le vere conseguenze le pagheremo soltanto in futuro. Perchè le conseguenze di una crisi di questo livello, quelle vere, non sono economiche. E non è una mia previsione: in queste casi la storia ha valore di scienza tanto quanto la matematica. Lo so che il “Noi” è un po’ scomodo da leggere. Lo so che Noi non vogliamo centrare nulla con tutto questo, ma qualcuno dovrà pur prendersele queste colpe. Le cose non avvengono sempre e solo per caso: tutto, tranne il caso stesso, ha una sua causa. Non sto dicendo che la colpa è stata nostra, sto solo dicendo che ce la daranno. Lo stanno già facendo, ci stanno già additando come colpevoli, ed è per questo che mi piace ricordare che Noi siamo stati anche altro. Già, perché se ripercorro mentalmente quegli anni, mi accorgo che un po’, dopotutto, forse l’occasione della pagina bianca l’abbiamo colta. Abbiamo creato il boom di internet e dei telefonini, costruito macchine sempre più grosse e schermi sempre più sottili. Noi, e i nostri Anni Zero. Gli anni delle figlie che sposano persone di culture lontane, gli anni della moneta unica, gli anni in cui la scienza ha fatto passi da gigante, giorno dopo giorno, senza nemmeno accorgersene. Quelli dell’Europa senza barriere, delle Tv a pagamento, degli studenti Erasmus e dei voli sempre meno cari. Insomma, sono stati gli anni in cui tutto si è unito, e il mondo, da immenso che era, è diventato poco più che una piccola, buffa, pallina in volo. Metteteci anche questo sulle Nostre tombe, quando verrà il momento. |
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#5 |
Junior Member
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Capitolo 4
Nell’immaginario collettivo degli Anni Zero, Amsterdam rappresentava quello che rappresenta adesso, ma molto, molto più in grande. Io, che non avevo mai valicato le Alpi, che quando mi chiedevano se ero mai stato all’estero rispondevo «una volta, a San Marino», me l’ero sempre immaginata come un immenso parco giochi. Quella sera, mi accorsi che mi sbagliavo. Era molto di più. Se devo essere sincero, di Amsterdam non è che mi interessasse la droga, che avevo già provato in lungo e in largo anche a Milano, e nemmeno le donne. Ok, le donne un po’ sì, ma non è questo il punto. Tutto ciò era soltanto un bene accessorio, un di più. Quello che mi interessava davvero era provare quell’atmosfera, quella possibilità di poter scegliere se fare o non fare qualsiasi cosa. Se non fossi un idealista del *****, questa cosa qui la potrei chiamare libertà, e vi assicuro che ci andrei molto vicino. Era questo che Amsterdam rappresentava: l’essenza stessa della libertà. Io, il ragazzino venuto dal paese di cento-cinquantotto-abitanti, quando ero arrivato a Milano credevo di avvicinarmi al cuore del mondo. Come mi sbagliavo… Milano era solo una porta socchiusa da cui spiare il mondo, a volte quasi toccarlo, ma niente di più. Ma da qualche parte questa maledetta idea di mondo doveva pur essere, no? Ecco, non so bene perché, ma io e quelli come me avevamo scelto che questa idea, questo sogno, avesse delle coordinate geografiche precise, una città con tanto di cartolina. Negli Anni Zero non poteva che essere lei, Amsterdam. Il concentrato di mondo, la spremuta di umanità, il passato di futuro. E scusate il gioco di parole barocco e malriuscito. Va bene, a questo punto dovete fare il prossimo step. Tentate di mettervi nei miei panni, tralasciate il mio terrore per la parte lavorativa, e provate ad intraprendere con me quel viaggio nel paese delle meraviglie. Adesso voi siete me, il ragazzo di paese in fuga verso la libertà, quella fuga tipica delle favole con tanto di principi, principesse e draghi. E se le mie principesse erano donne chiuse in vetrine, e i draghi erano i mostri della mia mente scatenate dal sogno di nuove droghe, era soltanto un caso. Io il mondo lo prendevo come veniva. Ecco, adesso la smetto. Direi che ora è giunto il momento di riprendere un po’ la mia storia, che altrimenti qua, a furia di digressioni, tutto l’arco narrativo va a farsi benedire. Per raccontare quella sera faccio una cosa strana, mi ricollego a quel ramo della psicologia tanto caro agli uomini del Marketing. La frase è mia, ma sono sicuro del fatto che, non essendo così speciale, sia stata già detta e ridetta da altri. I due punti li metto a capo, giusto per fare un po’ di sana anarchia grammaticale. : La vita non è altro che il modo che abbiamo noi umani di soddisfare i nostri bisogni, prima quelli per la sopravvivenza, poi tutti gli altri. E, con ciò detto, il viaggio riprende. Primo Bisogno. Il capo sceglie questo ristorantino a due passi dal centro. Io, che vivevo a toast bruciacchiati e McDonald’s , mi ritrovo a mangiare per la prima volta quello che mangiano i ricchi, quei piatti ridicoli e nemmeno così buoni che in compenso paghi come un’intera cena per quattro. Devo ammettere che -sarà stato il fatto che non ci ho sborsato un quattrino, o forse che ci siamo scolati due bottiglie di bianco per i festeggiamenti- la cena l’ho comunque gradita. Quando usciamo dal ristorante sono già le 10 passate e fuori fa un freddo cane. Non essendo periodo turistico, la città è semideserta. Passeggiamo per i vicoli del centro, zigzagando in mezzo a canali e case a punta, ed ecco che ci troviamo ad un certo punto nella famosa zona delle vetrine rosse, il RedLightDiscrict. Brividi, e non solo per il freddo. Ve lo giuro, io una sensazione così non l’ho mai più provata in vita mia. Provo a descriverla per chi non c’è mai stato, ma vi assicuro che è quasi impossibile. La prima cosa che colpisce è il degrado, quello più marcio e fetido. Spacciatori che vi guardano in cerca di un segno, ragazze seminude di tutte le razze ed età che vi chiamano dalle loro vetrine rosse. L’odore di cannabis e di acqua sporca, le luci al neon dei locali dove la gente entra per giocare d’azzardo o per masturbarsi guardando donne che si strusciano ad un palo. Il sudore, i preservativi buttati, i soldi che passano da una mano all’altra. Il tempo, che fa finta di scorrere. La prima sensazione è dunque un senso di disgusto, ed è un disgusto che provate per voi stessi, come se ancora una volta siate voi a dovervi prendere le colpe di tutto. Ma poi, ad un certo punto, succede. Lo sguardo si allarga, la vostra mente sceglie di mutare paradigma, di guardare l’ambiente nel suo insieme. Ed è lì che vi scatta dentro qualcosa. Là fuori tutto rimane come prima, nulla cambia, gli unici a farlo siete voi, ed è solo per questo che tutto si fa diverso. Forse, se siete pazzi tanto quanto me, potrete rivedere quelle scene decadenti e scorgerne un affresco quasi romantico. È solo una questione di percezione. Guardatele, quelle ragazze e quelle insegne. Sono soltanto inquiline di abitazioni così belle da togliere il respiro, case strette, piene di finestre, pendenti, immagini che sembrano uscite dal pennello di un pittore fiammingo. E gli spacciatori? Appoggiati coi loro gomiti alle balaustre dei ponti sospesi nel vuoto, metafora perfetta di chi ha scelto quella vita. Distogliete lo sguardo dai neon, per ritrovarli sbiaditi coi loro giochi di luce, distorti e rifratti, nell’acqua dei canali sotto di voi. Percorrete quelle vie strettissime, e lasciate che si aprano di colpo su di una piazza con al centro una chiesa. Sacro e profano che si intrecciano e si impongono nelle loro differenze diventando valori assoluti. Amsterdam, o almeno una parte di lei, è tutto questo, e altro ancora. Ma andiamo avanti, ritorniamo a quella sera. Passeggiando per quelle vie la presenza femminile della collega inizia a farsi un po’ ingombrante, ed è un peccato, perché il capo, da alticcio, sembra più arzillo del previsto, e ho l’impressione che la serata potrebbe svoltare. L’assist, grazie a Dio, arriva direttamente da lei (scusate se non vi ho ancora detto il suo nome, ma semplicemente non ha nessuna importanza nella storia. Se per questo non ho detto nemmeno quello del capo, né del mio amico, né, soprattutto, il mio. Bè, ogni cosa a suo tempo. Chiusa parentesi). Dicevo, l’assist ce lo da lei, la mia collega, che ad un certo punto ci chiede di portarla in hotel perché ha freddo, ha bevuto un po’ troppo e vuole dormire. Io credo che avesse capito che fosse il momento di sguinzagliare gli uomini e togliersi di mezzo. In ogni caso, noi abbiamo davvero gradito. La accompagniamo dunque in hotel e decidiamo di svignarcela ancora, rituffandoci nelle vie del centro, in cerca di qualche locale. Inutile dirlo, casualmente ci ritroviamo nella zona rossa. Secondo bisogno. «Se te la offrissi io, la prestazione, da quale andresti?» mi chiede lui a un certo punto. Io ho la commozione negli occhi che neanche San Francesco che vede un cucciolo di panda morire affogato nelle lacrime di sua madre. Ok scusate, questa volta sono andato troppo avanti con la similitudine, mea culpa. (E comunque la madre va bene sia del panda che di San Francesco, fate voi.) «Non saprei, non ci sono mai andato» faccio io, ed era vero, «di sicuro una bionda». «Quella va bene?». Andava bene. Fino a quel punto io credevo stesse semplicemente facendo conversazione, ma eccolo che prende la tangente e bussa alla vetrina di questa biondona da 1 e 90, iniziando a contrattare in inglese. Le parole che dice, adesso sono le più cliccate sui motori di ricerca di tutto il mondo, nei primi Anni Zero invece erano una cosa di nicchia, da gente che ne sapeva. Io sono lì dietro di lui che osservo la scena senza capire una parola, con gli occhi sbarrati sul seno della simpatica ragazza. Dopo una lunga trattativa, il capo mi batte sulla spalla e mi da 50 euro in mano, il tutto davanti a lei. «Per te, ho rimediato il servizio completo, per me, il premio miglior datore di lavoro dell’anno». E si allontana. La ragazza guarda basita lo scambio di soldi e quell’uomo andarsene, poi guarda me. «Oh, what a father!» mi dice stupita, e poi mi prende per mano e mi accompagna su per le scale. Tralascio il successivo quarto d’ora della mia vita, è poca cosa. Uscito nuovamente in strada mi ritrovo a cercare il capo, che è sparito dalla circolazione. Cinque minuti dopo lo vedo sgattaiolare fuori da una vetrina non lontano dalla mia, accompagnato alla porta da una donnona matura un po’ larga di fianchi. Oh, i gusti son gusti. Terzo bisogno. Coffee shop, l’idea è la mia e quindi questa volta offro io. È lì , seduti a un tavolo, che lui mi dice persino di smetterla di dargli del Lei. In effetti stava diventando un po’ bizzarro, dopo l’essere andati a zoccole e a drogarci come due amiconi. Che poi parliamone, se farsi di cannabis è considerato drogarsi, allora prendere in braccio tua figlia dovrebbe essere considerato pedofilia. No ragazzi, non scherziamo dai. Un po’ di oggettività *****. Va bè, su questa parte della serata non saprei che altro dire, se non che usciamo dopo mezzora un po’ più rilassati, con gli occhi rossi e Bob Marley nelle orecchie. È mezzanotte passata ormai, e stiamo vagando in zona vetrine per un’ultima occhiata prima di ritornare in hotel. Ad un certo punto il boss si ferma, proprio davanti ad un insegna rossa. Casinò. Quarto bisogno. Un bisogno che fino a quella sera non sapevo nemmeno di avere. «Sai giocare a Poker?» mi chiede lui. «Qualcosina» dico io, «ma non ricordo mai le regole. Preferisco la briscola». «Io una partitina me la farei, dai mezzora e ce ne andiamo. Che ne dici?» È strana la vita. Mi chiedo ancora cosa sarebbe successo se avessi risposto diversamente. È che certe volte ci si ritrova a imboccare un bivio senza nemmeno rendersene conto. «Tu gioca, io guardo soltanto» concludo. Entriamo, il Casinò è semivuoto. Un uomo in giacca e papillon lo fa sedere ad un tavolo in una sala con il soffitto bassissimo. Io mi piazzo dietro di lui a qualche metro di distanza, come un bodyguard. Per giocare servono almeno 100 euro, li mette e gli danno le fiches. È la prima volta che le vedo dal vivo, fino ad allora per me erano una cosa vista soltanto nei film. La ragazza che fa le carte, se fosse in vetrina, avrebbe la fila che arriva fino a Utrecht. Mi ricordo che la cosa che mi colpisce è che ne serve due a testa. Adesso chiunque conosce il Texas Holdem, ma all’epoca vi assicuro che era pressoché sconosciuto alla gente fuori da quel mondo lì. O almeno, io il poker lo avevo sempre e solo giocato a cinque, ad esempio. A due carte non avrei nemmeno saputo da che parte girarle. Guardo un paio di giri di bui, poi mi annoio, anche perché il capo non ne gioca nemmeno una, così mi fiondo alla roulette. Punto metà dei miei soldi sul rosso, me lo ricordo perché ho preso la mia scelta ripensando alle mutande della bionda. Vinco, e decido che la mia serata finisce qui. Cambio le fiches vinte, alla cassa vicino all’uscita, e mi piazzo ad aspettare appoggiato alla ringhiera del canale, proprio come uno spacciatore. Metto la mano nella tasca del giubbotto, scanso una fiches da 5 euro che ho tenuto come porta fortuna, e ne tiro fuori una canna già rollata che ho comprato poco prima. Appena trovo qualcuno per accendere, il capo esce dal casinò e mi viene incontro. «Le nostre amichette le ha offerte la dea bendata» mi fa, appena mi raggiunge. «Vinto qualcosa?» «Raddoppiato» «Wow. Devi insegnarmi a giocare, con due carte non sono buono». «Devo ancora capire in cosa sei buono tu». Gli piaceva un sacco prendermi in giro. Forse, dai preamboli, immagino vi aspettavate che fosse successo qualcosa di più nelle mura di quel casinò, ma la verità è questa: quella sera non è successo un bel nulla. All’inferno ci si arriva dopo una vita intera, non vi ci catapultano in un’istante. Se mi chiedete dov’è che tutto è iniziato però, non posso che dirvi che la mia mente va sempre lì, a ripensare a quella sera. In ogni caso, come dico sempre, ogni cosa a suo tempo. Quello che succede, poi, è che torniamo in hotel come due vecchi amici, camminando da soli nella notte di Amsterdam, finendo l’ultima canna proprio davanti al portone d’ingresso di quel posto di lusso, per poi, finalmente, risalire in camera. Quinto bisogno. Buonanotte. Ultima modifica di donk.or.leone : 03-05-2015 alle 21:40. |
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#6 |
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Capitolo 5
Il giorno stesso del mio ritorno in Italia vengo raggiunto da una brutta notizia, quella della morte di mio nonno, l’unico dei miei nonni ancora in vita. Bè, in vita fino a quel punto, intendo. Non so voi, ma a me fa un effetto strano quella parola. Mi fa strano dirla, sentirla, leggerla e persino scriverla. Morte. Non che fossi particolarmente legato a mio nonno. È brutto dirlo, ma credo di non aver nemmeno provato tristezza per la scomparsa, semplicemente è una cosa che metti in conto nella vita: una dopo l’altro, prima o poi le persone con cui ti relazioni se ne vanno, chi all’improvviso, chi meno. Mio nonno era uno di questi ultimi, uno di quelli che a crepare ci mettono novant’anni, ma che in fondo lo avevano già fatto molto prima, poco alla volta. Io, nel mio piccolo, spero di appartenere alla prima categoria, a quelli che… puff, prima erano lì, e adesso sono spariti. Chiudere col botto, se capite che intendo. Di circostanze per parlare di questa strana e impronunciabile parola ce ne saranno altre, quindi per ora mi limito a queste cupe, e forse banali, constatazioni. Due giorni dopo, dunque, mi ritrovo a ripartire verso la mia terra natale per partecipare al funerale. Dopotutto è circa un anno che non vedo quei luoghi, ed è giunto il momento di ritornare. Ritornare a casa dopo tanto tempo. Gli antichi greci ci hanno costruito un genere letterario solo su questa cosa. È il “nostos”, il canto del ritorno. Tanto per farvi un esempio celebre, il più famoso di quelli che si sono salvati fino ai giorni nostri è l’Odissea, e poi non dite che a leggere questo idiota che racconta la sua vita non si impara qualcosa di utile, ogni tanto. Bè, caro Omero, non è poi difficile raccontare un ritorno a casa, guarda qua: scendi dalle scale e prendi il taxi sotto casa, scendi dal taxi in stazione e prendi un treno, scendi dal treno e prendi un altro treno mentre si stanno chiudendo le porte (anche se in teoria c’era un’ora di coincidenza tra l’uno e l’altro), poi scendi da quest’ultimo treno e aspetti il pullman, ci sali, guardi da passeggero le strade dove da piccolo sfrecciavi, si fa per dire, col tuo Ciao, scendi dal pullman e sali sulla Panda di un vecchio amico, che ti riporta fra le chiacchiere fino al tuo paese natale, dritto fino a casa. Sostituite il sottoscritto con Ulisse, sostituite i mezzi di oggi con navi e animali e avete la vostra bella Odissea. È davvero tutto qui. Tornare, in fin dei conti, è un’azione banale. Come banali sono i ricordi, che sono la sola cosa che si pensa mentre si fa ritorno, un riaffiorare di passato, di ipotesi su cosa possa essere cambiato. È tutto qui il nostos, una noia mortale. Per quanto mi riguarda non è nulla a che vedere con le partenze, intrise di profumo di futuro, piene di paure, di sogni e aspettative. Quelle sì che vale la pena raccontarle. Va bè, si fotta Omero, torniamo a noi e al nostro paese di 158 anime. Avevo detto che non si può neanche morire in un paese così, mi sbagliavo. Nonno ci è riuscito. E io sono davanti alla porta di casa per rincontrare il mio passato. Anzi no, faccio marcia indietro, perdonatemi. Lo so che a volte leggermi è come andare sulle montagne russe, vi capisco, ma questo è un errore che va corretto. Se ritorno indietro un secondo è solo per precisare meglio le cose: il mio non era un nostos, perché quella non era la mia casa, non lo era mai stata. Già, perché io credo che la casa sia quel posto verso cui la nostra mente e il nostro corpo vogliono costantemente fare ritorno. Anche in questo caso non so se ‘sta cosa non l’abbia già detta qualcun altro. Mi è nata così, quindi se vi piace sapete a chi dare il merito, per quello che vale. Non so se la mia casa era Milano, per quanto mi riguarda a me andava bene qualsiasi altro posto. Tutto tranne che quel paese senza possibilità da cui avevo sempre voluto fuggire. Quindi, ricapitolando, fatemi correggere la frase di prima: Avevo detto che non si può neanche morire in un paese così, mi sbagliavo. Nonno ci è riuscito. E io sono davanti alla porta di un’abitazione in cui ho vissuto, per rincontrare il mio passato. Suono il campanello, ma nessuno mi risponde, devono già essere tutti in chiesa. Eh sì, scommetto che nessuno si stupisce se vi dico che persino quel misero paesino ha la sua chiesetta. Siamo in Italia dopotutto, qui ci sono più chiese che scuole, e non sto dicendo tanto per dire, è così davvero, dati alla mano. Uno psicologo mi direbbe che sono arrivato appena in tempo per il funerale perchè inconsciamente volevo stare meno tempo possibile con i miei parenti e con tutte quelle persone che conoscono ciò che ero. Bè, devo ammettere che questa volta la psicologia ci prenderebbe, però mi piace dare un po’ di colpa anche ai ritardi dei mezzi pubblici e ai loro orari. Quindi che si fotta pure lo psicologo. È un giorno nuvoloso, ma fa davvero caldo. Percorro quei cento metri che mi separano dalla chiesa e, guardando quelle vie, sento dentro di me tutto il contrasto tra quel piccolo paesino di ombre stanche e Amsterdam, che ho ancora viva negli occhi. È un po’ come passare dal Maracanà al campetto dell’oratorio. O se volete, per restare in tema, è un po’ come passare dalla guerra di T.roia, a dover indossare il maglioncino grigio che vi ha cucito la vostra mogliettina Penelope. Omero, a volte ritornano. Arrivo alla chiesetta, il portone è spalancato. Ad accogliermi, un forte odore di incenso. Dentro c’è quasi tutto il paese, quindi le panche sono semivuote. Mi avvicino alle prime file, vedo i miei genitori e mi siedo dietro di loro, vicino a qualche cugino di non so che grado. Mio padre mi guarda con gli occhi del “dove ***** sei stato?”, mia mamma è accanto a lui con le lacrime che le scendono sotto gli occhiali scuri. Sì, occhiali da sole in chiesa, che pessimo gusto. Il prete è lo stesso di sempre, uno di quegli uomini immortali, uno di quelli che crede ciecamente alla storiella di Adamo ed Eva, e il motivo è che è così vecchio che era anche lui lì con loro. Gli reggeva il moccolo. La funzione va avanti per un’oretta abbondante. Nei paesi si usa così, tanto non c’è nient’altro da fare. Quando finisce, è tutto un susseguirsi di baci e condoglianze, di che-fine-hai-fatto e di era-un-brav’-uomo. Poi saliamo in macchina e percorriamo dietro al carro funebre i 18 chilometri che ci separano dal cimitero. Quando interrano la bara inizia persino a piovere, roba da film di basso livello. «Se n’è andato nel sonno» singhiozza mia mamma. Per quanto mi riguarda erano vent’anni che dormiva. Anzi, per quanto mi riguarda se ne vanno quasi tutti nel sonno, siamo pochi ad essere svegli per davvero. Vorrei risponderle così, ma mi trattengo per rispetto verso il suo dolore. Il corpo di mio nonno è seppellito ancora lì, in quel cimitero. Ci sono tornato una sola volta dopo quel giorno. Ve ne parlerò. Finito lo spettacolo della bara volante, ce ne torniamo a casa, e ci mettiamo tutti in cortile, sotto ad una grossa veranda, a parlare. Finalmente, a poco a poco, in qualche interminabile ora, se ne vanno anche i parenti e rimaniamo soltanto io ed i miei genitori, che iniziano a farmi le stesse domande che mi hanno fatto tutti gli altri fino a questo punto. «Quand’è che riparti?» «Stasera. Tra un paio d’ore passano a prendermi. Domani devo lavorare». Non è vero, ma è meglio così. «Ah… peccato» non l’hanno bevuta, ma non dicono nulla, «Allora, com’è Amsterdam?» «E’ vera. Mi piace per questo» rispondo. «Ti trovi bene con il lavoro allora» «Abbastanza, la paga è buona» «E la vita a Milano come ti va?» insistono. Io li guardo entrambi prima di rispondere, poi guardo la pioggia che cade davanti a noi nella stradina deserta, e guardo di nuovo loro. «Uno schifo» gli dico, «ma almeno è vita». Mio papà, immagino stizzito dalle mie risposte, se ne rientra in casa, io rimango solo con mamma. «Gli occhiali», le dico, «perché non te li togli?». «Va tutto bene» mi fa lei, «non ti preoccupare» e prende e se ne va a preparare la cena, mentre io rimango là fuori a fumare. E pensare. Ceniamo poco dopo, sempre lì in cortile, sempre sotto la veranda. Praticamente nessuno dice una parola. Dopo cena, il mio amico mi chiama: sta per arrivare sotto casa. Io vado in cucina da mia madre per salutarla, lei ha ancora addosso quei fottuti occhiali neri. «Io vado» le dico. Mi abbraccia forte, e mentre lo fa le alzo gli occhiali e le scopro il viso. Dejavù. «Davvero, va tutto bene, non ti preoccupare» mi dice di nuovo lei. Io guardo l’ematoma attorno all’occhio, riabbasso gli occhiali e me ne esco di casa. Mio padre non lo saluto nemmeno. Una volta che sono fuori, passo accanto alla sua vecchia macchina, che è parcheggiata lì davanti. Prendo un sasso e gli rigo il cofano, ma dato che è bianco non sono nemmeno contento del danno fatto. Il mio amico arriva proprio in quel momento, proprio mentre penso se spaccare o meno il finestrino. Quando salgo sulla sua macchina ho ancora il sasso in mano, pronto a rifare tutto il viaggio con me, come un fedele compagno. Sono contento di andarmene da qui, voglio tornare a Milano. Voglio tornare a casa. E' sera ormai, ed è nelle luci della sera che io ricomincio la mia fuga, il mio viaggio di ritorno, il mio nostos. Come ho già detto, su quello, non ci vedo proprio nulla da raccontare. |
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#7 |
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Capitolo 6
Di solito, arrivati a questo punto della mia storia, la gente inizia a credere che forse, dopotutto, sia quasi tutto vero. Ecco, è finita qui, d’ora in avanti si traccia una linea di demarcazione. Adesso arriva la parte a cui non crederete, quella che deve essere per forza falsa, per forza palesemente inventata a tavolino. Io, che non è così, ve lo posso anche dire, ma tanto so già che, chi prima e chi poi, inizierete a non credere, e quindi queste sono parole sprecate. Non è colpa mia, lo so, e non è nemmeno colpa vostra, è la nostra natura di esseri umani. Siamo fatti così. Siamo portati a credere solamente due tipologie di fatti: i primi sono quelli plausibili di per sé, quelli che sono veri in quanto tali; i secondi invece, sono quelli così assurdi da dover essere veri per forza. Per queste due categorie saremmo disposti a dare addirittura la vita, e c’è chi lo fa. Ecco, poi invece ci sono tutte le altre sfumature che stanno nel mezzo, bè quelle per noi sono tutte false, e dobbiamo fare una fatica pazzesca per cambiare idea. La mia storia, purtroppo o per fortuna, appartiene a questa terza categoria. Non è una vicenda banale e dunque vera a prescindere, ma non è nemmeno così assurda da essere vera per forza. E poi c’è anche il fatto che chi racconta di solito ha il pallino di romanzare tutto, e allora sì che non si distingue più cosa è vero da cosa non lo è. La verità? Zssk…potrei giurarvela su qualunque testa, tanto non ci credereste lo stesso. Bè, io ci provo, io ve lo dico che il protagonista sono sempre io, che la percentuale di fatti veri è sempre la stessa, e che su molte di queste cose potreste tranquillamente scommetterci la testa di vostra madre, ma tanto so già che a breve, vedrete, inizierete a dubitare di ogni singola parola. Vi avviso già io dunque, e lo faccio solo perché almeno non verrete a dirmelo voi. Da narratore sincero e affidabile diverrò in poco tempo un cantastorie perditempo, uno che le cose le dice bene, Dio se le dice bene, ma in fondo si sa che sono soltanto bugie travestite da finta realtà. Già che siamo in vena di confessioni e anticipazioni, vi dico già che potreste trovare qualcuno dei prossimi capitoli un po’ troppo statico e discorsivo, e qualcun altro fin troppo pieno di eventi. Detto questo, direi che la storia può riprendere, più o meno, da dove l’abbiamo lasciata. |
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#8 |
Junior Member
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Capitolo 7
Che non avessi chissà quali spiccate doti o particolari caratteristiche, penso lo abbiate capito: ero e sono un ragazzo normale, uno come tanti. Un po’ sbandato forse, ma in fin dei conti abbastanza sveglio. Da ragazzino, a scuola vivacchiavo con il mio 6 abbondante, senza aver mai avuto bisogno di studiare seriamente. Avevo anche fatto la primina, cioè ero andato alle elementari un anno prima dei miei compagni. L’anno di vantaggio l’ho però perso in seguito, dato che sono stato bocciato in quinta superiore per assenze. È che a 18 anni potevo firmarmi da solo le giustificazioni, e potete immaginare. Bè, per usare un’espressione abusata, diciamo che ero uno di quei classici ragazzi, uno di quelli che “è intelligente, ma non si applica”. Intelligente, ma non si applica...Proprio come la maggior parte delle leggi italiane. I miei primi due anni a Milano ve li ho già raccontati, quelli in cui ho cambiato un’infinità di lavori. Ecco, quello che non vi ho detto è che non li cambiavo certo per scelta mia. Ritardi, litigate, in un caso una rissa con un cliente. Di solito, quasi sempre finiva che da un giorno all’altro non mi presentavo più e tanti saluti. Ok, la colpa era mia, lo ammetto, ma va detto che sinceramente non me n’è mai importato un bel nulla. Il lavoro per me era solo un passatempo tra un’uscita serale e l’altra. Che poi “uscita” è un parolone, perché a dire il vero quello che facevamo noi, ragazzi dei quartieri popolari milanesi, era ritrovarsi in piazzette anonime e spoglie, e passare il tempo seduti sugli schienali delle panchine, a fumarci canne e a parlare di quello che avremmo fatto se avessimo avuto qualche soldo in più, se avessimo svoltato un po’ la nostra vita, se fossimo nati da qualche altra parte, per esempio in America, oppure se avessimo avuto altri cognomi, altri ideali, altre vite. Se volete sapere quando una società è malata, guardate i sogni dei suoi giovani. La differenza, secondo me, tra una società sana e una che non lo è, sta tutta in quello, nel modo di sognare dei suoi giovani. C’è chi sogna di essere, e c’è chi sogna di diventare. Per spiegarvi meglio, se ci riesco, vi parlo di noi. Cosa sognavamo noi? Sognavamo di essere ricchi, sì, essere, non di diventarlo. Essere. Nemmeno ci azzardavamo ad immaginare un futuro migliore. La “svolta”, come la chiamavano noi, era pura utopia, era roba da universi paralleli. Uso una metafora pokeristica, anche questa un po’ abusata. Noi lo sapevamo che le carte che avevamo ricevuto non erano quelle buone, che la mano era già persa in partenza. E se provate a dire che si può sempre bluffare, significa che non sapete nulla di cosa significhi vivere con quello stato d’animo. Non ha senso bluffare se il gioco è truccato. Io, a differenza degli altri, ho avuto il culo che a un certo punto ho trovato quel lavoro, quello di cui vi ho parlato, perché altrimenti lo so che avrei fatto una fine uguale a quelle di quei miei amici. Già, perché i più fortunati si sono schiantati in auto, correndo come dei matti nel cuore della notte contro un’altra macchina guidata da qualcuno proprio come loro, entrambi con in corpo tanto di quell’alcol da stordire una balenottera. Gli altri li hanno uccisi il mutuo, i finanziamenti a tasso zero, il gioco d'azzardo, le macchinette, i gratta e vinci, qualcuno la droga, la malattia, qualcun altro la povertà. I restanti, meschini, li potete trovare ancora lì, su quelle panchine, a farsi divorare dalla noia, dal tempo, e dal sogno di una svolta. Io, in mezzo a tutte queste cose ci sono passato, davvero, praticamente una a una, eppure sono ancora qua, e il motivo non è tanto il fatto di avere ottime entrate economiche, ma il fatto di avere un lavoro che riempisse la mia giornata e ne desse un senso. Che poi ve la voglio dire tutta, anche questa lavoro, all’inizio, non era stato nulla di diverso da tutti gli altri. Ci andavo soltanto perché lo stipendio era decente e non dovevo fare nulla da mattino a sera. Dopo il primo viaggio in Olanda, però, le cose iniziarono a cambiare. Sin dai giorni successivi, infatti, compresi che il capo aveva deciso di puntare su di me, prendendomi sotto la sua ala. Dovunque lui si spostava, io lo seguivo. Divenni la sua ombra. Divenni autista e accompagnatore, in poche settimane iniziò a darmi compiti sempre più importanti, qualche volta persino a chiedere la mia opinione su particolari situazioni di lavoro. Io, che fino a quel momento mi ritenevo un perfetto idiota, iniziai a sentirmi finalmente buono a qualcosa, e cominciai a impegnarmi come non mai. Lavorare stava diventando un piacere. Ok, frena un attimo, cosa facevate? vi starete domandando. Bè, tutto e niente. Intendo che la nostra piccola azienda non aveva un’attività ben definita. Volete sapere di più? Per dirvela in breve potrei usare l’espressione edulcorata “servizi alle imprese”. Detto così sembra un lavoro complicato, nella pratica consiste nel risolvere i problemi degli imprenditori. La parola che però esprime meglio chi eravamo noi, secondo me, è “tuttofare.” La tua azienda aveva problemi di derattizzazione? Chiamavi noi. Ti servivano soldi e avevi problemi di accesso al credito? Non dovevi far nient’altro che alzare la cornetta. Problemi coi fornitori? Eccoci qua. Volevi comprare macchinari sottoprezzo? Li volevi pagare il triplo del proprio valore per ingrossare le fatture ed evadere le tasse? Volevi ridiscutere il contratto con i lavoratori in nero? Noi eravamo la soluzione a tutto questo e a molto altro. Non sto esagerando le cose, funzionava davvero così. Anzi, anche se non sono più nel giro, vi assicuro che funziona così tuttora. Di legale, come potrete immaginare, c’era poco o niente, ma il tutto veniva mascherato nel migliore dei modi. Era per questo che eravamo i migliori, era per questo che tutti ci volevano. Diciamo che le cose giravano in questo modo: quando un’azienda aveva bisogno di risolvere un qualche problema da “zona grigia” in termini di legalità, ecco che allora chiamava noi, e svolgevamo tutto a costo zero. Dopodiché, tra noi e il cliente si instaurava una collaborazione duratura: lui delegava a noi qualsiasi problema, anche il più banale, e per quello pagava profumatamente fatture gonfiate, spesso per prestazioni inesistenti. Se era possibile, trovavamo direttamente noi una soluzione, altrimenti ci rivolgevamo ad altri. Una cosa è certa: i capi dell’azienda, quelli veri intendo, avevano le spalle più che coperte. In media penso che su dieci servizi offerti, otto erano legali, uno al limite, e uno totalmente illegale. Insomma, vi è una sottile linea che divide ciò che si può fare da ciò che non si può, e noi ci danzavamo sopra, spesso oltrepassandola in modo così netto che, vi assicuro, venire beccati e finire in prigione era l’ultimo dei nostri problemi. Quello che voglio dire è che se ti ritrovi a svolgere attività illecite, la tua più grande preoccupazione non è la legge. È la concorrenza. Il lavoro d’ufficio era delegato alle attività tranquille, e nemmeno sapevamo cosa facessero realmente quelli più in alto di noi, Anzi, non saprei dire se il lavoro d’ufficio fosse realmente utile all’impresa, o se fosse semplicemente uno dei modi per darle una parvenza di candore. Se penso a quelle prime settimane da “scagnozzo” del capo, ne potrei raccontare così tante che, dato che ho una buona memoria, potrei facilmente rendere la vita difficile a diversi imprenditori. Mi sono spiegato? Avete capito adesso? Se non è così state tranquilli, io stesso ci misi mesi ad orientarmi. Qui, racconterò cosa accadde la notte in cui capii realmente chi fossimo noi e cosa facesse la mia azienda. Quella è la notte in cui capii chi fosse il mio capo e forse, è la notte in cui capii chi fossi realmente io. Questa storia ha per protagonisti Beethoven, uno zombie, un uomo che muore due volte, una pistola e un pozzo. Se volete sapere chi eravamo noi, credo non vi sia modo migliore per farvelo capire. Ultima modifica di donk.or.leone : 04-05-2015 alle 10:43. |
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#9 |
Junior Member
Iscritto dal: May 2015
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Capitolo 8
Buio totale. Accanto al letto, un comodino. Sopra al comodino un foglio. Sul foglio poche parole, scritte a penna, in corsivo. Tutto comincia nel cuore della notte, con il telefonino che suona Per Elisa di Beethoven. Non chiedetemi perché, ma è stata la mia suoneria da sempre, e lo è tuttora. Una battuta che faccio ogni volta, quando il telefono inizia a suonarmi in situazioni in cui non dovrebbe, è sdrammatizzare dicendo “Non è per me, è Per Elisa”. Vi assicuro che una risata si strappa sempre. Ma ritorniamo a quella notte, che avevo iniziato in modo drammatico e mi sono perso subito con questa battuta idiota. Mi sveglio, e accanto a me non c’è nessuno. Beethoven, beato te che eri sordo *****. Quando decido di alzarmi per andare a rispondere è almeno la terza volta che chiamano, una in fila all’altra. I vicini iniziano a urlare qualcosa dalla stanza affianco. E' che muri di quel condominio sono così sottili che se hai buoni occhi quasi riesci a vederci la televisione attraverso. Per lo stesso motivo, per quelli dei piani sopra la vibrazione del telefono deve sembrare come una specie di Big One californiano. Lo schermo illumina la stanza a intermittenza, è allora che vedo il foglio sul comodino. Quello che faccio, a questo punto, è raggiungere il telefono e guardare chi diavolo mi stia chiamando nel bel mezzo della notte. Il mio capo, e chi se no. Prendo il mano il telefono e cammino fino al comodino. Punto lo schermo direttamente sul foglio e leggo quelle parole, accompagnato dal buon vecchio Beethoven e dal grido del vicino. Non volevo svegliarti /BUIO/ si era fatto tardi /BUIO/ grazie per la bella serata /BUIO/ So che non lo farai /BUIO/ ma per favore non cer /BUIO/ per favore non cercarmi. Buio. Beethoven smette di suonare per qualche istante, poi ricomincia. Io guardo ancora il telefono, è ancora il capo. Ecco, ora vi do un consiglio: se qualcuno vi chiama nel cuore della notte, quando è ovvio che state dormendo, vuol dire che quel qualcuno ha tutta l’intenzione di farvi svegliare, e questo significa che non saranno certo belle notizie. Il mio consiglio, quindi, è di lasciare stare, fate finta di niente e tornate a dormire, perché non potrai mai, vi assicuro MAI, venirne fuori nulla di buono. «Pronto?» Ultima modifica di donk.or.leone : 04-05-2015 alle 10:42. |
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#10 |
Junior Member
Iscritto dal: May 2015
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Ok
![]() Per chi ritiene questo progetto interessante e ha la pazienza di seguire, la storia prosegue la settimana prossima. Se vi piace, se avete commenti, critiche o domande, postate pure qui, vi risponderò appena possibile. Stay tuned e, se ne avete voglia, passate parola ![]() Ultima modifica di donk.or.leone : 04-05-2015 alle 10:53. |
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#11 |
Senior Member
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intanto benvenuto nel forum,sono arrivato al terzo capitolo e il tuo diario è molto avvincente e sopratutto esposto in maniera perfetta,grazie appena posso continuerò la lettura....complimenti!
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#12 | |
Junior Member
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Quote:
![]() Chiedo scusa a tutti per la mole di testo che vi ho messo a disposizione. Sicuramente vedere questo "muro" di parole può fare un po' paura al visitatore ![]() Forse avrei fatto meglio a darvi anche questi primi capitoli "a rate" come sull'altro forum dove scrivo, anche perchè, in base ai feedback ricevuti, una delle cose più intriganti di questo progetto è proprio il seguirlo a puntate, cosa che lo rende molto simile ad un serie-tv. Ho scelto di darvi già tutto per darvi la possibilità di essere in pari con gli altri, e giudicare se vale la pena seguirmi o meno. Se avete feedback, critiche o domande postate pure. Sarò lieto di rispondervi. Buona lettura a tutti, e scusatemi per eventuali errori di battitura qua e là ![]() A presto Ultima modifica di donk.or.leone : 05-05-2015 alle 21:01. |
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#13 |
Senior Member
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Sono arrivato al quinto capitolo. Davvero un bel racconto.
Il tuo stile mi ricorda molto Irvine Welsh ![]() p.s. Ho letto tutto d'un fiato. Alcuni passaggi mi hanno commosso. Davvero avvincente. Non vedo l'ora di sapere cosa succede dopo il "pronto".
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#14 |
Senior Member
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bello. mi iscrivo... me lo sono letto un pò in questi giorni.
attendo i nuovi capitoli ![]()
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#15 |
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Niente episodio questa settimana ?
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#16 |
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dai che aspettiamo!!!
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#17 |
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Capitolo 9
Dieci minuti dopo, il mio bel culo assonnato poggia sul sedile in pelle di una di quelle Porsche fine anni ’90. A guidarla ovviamente è il capo, che sulla pelata porta ancora i segni delle pieghe della pelle lasciati dal cuscino. Evidentemente, Beethoven o non Beethoven, il telefono deve aver colto di sorpresa anche lui. «Oh, e comunque io vengo ormai, ma domani col ***** che mi fai lavorare» gli dico per salutarlo. «Allacciati la cintura» fa lui serio. La Porsche sgomma senza preamboli come nella migliore tradizione Hollywoodiana, sfrecciando nella metropoli addormentata. Poco prima, al telefono, il capo non mi ha voluto dire un bel niente, così ora lo tartasso di domande per capire cosa diavolo sia successo e dove ******* stiamo andando a quest’ora della notte. Non c’è verso però, lui continua a dire che non sa nulla, che se lo sapesse me lo direbbe, che bisogna fare in fretta. Oh, io sarò un’idiota, ma una cosa la so: quando qualcosa non si può dire per telefono, quando ti sbalzano giù dal letto per andare chissà dove, quando sono le tre di notte e viaggi sopra i 100 orari in piena città, minimo, ma proprio minimo, c’è da prepararsi al peggio. Io, al peggio, mi preparerei anche, ma il fatto è che ho troppo sonno. Saranno le canne, saranno le endorfine post-coito ancora in circolo, sarà che i sedili in pelle della Porsche sono più comodi dei materassi di Mastrota, sarà quel ***** che volete voi, ma io scusate tanto ma proprio non reggo e sfrutto quegli istanti per riposare. Così, richiudo gli occhi incurante di tutto quello che mi succede intorno, e con la testa appoggiata al finestrino mi godo le buche milanesi, lasciandomi cullare dal rumore della pioggia che batte sul tettuccio in tessuto. Ogni tanto, nel dormiveglia, borbotto qualcosa. Di solito è perché prendo una testata contro il vetro. Non so se mi addormento, credo di no, fatto sta che dopo un po’, non so quanto, sento qualcosa di gelato scorrermi lungo le nuca. Certo che con tutti i soldi che ha, potrebbe anche far aggiustare la capotte, porca *****. Entra acqua. Quando riapro gli occhi per protestare e cercare la perdita nel tettuccio, stiamo surfando in mare aperto nell’autostrada ad est di Milano. «Va che se affondiamo non ho portato il boccaglio» gli faccio. «Siamo quasi arrivati». «Lo dicevano anche ai passeggeri del Titanic, e poi invece…» provo sarcastico, «Ma arrivati dove?» La nostra uscita è lì, a pochi metri, eppure sarà la pioggia, sarà il sonno, sarà la velocità, sarà tutto questo e anche tanto altro, ma il capo valuta male i tempi e per riuscire ad imboccarla deve tagliare la strada ad un camion che stiamo sorpassando. Per un pelo, non so bene come, riusciamo ad evitare il guardrail che fa da bivio e salire sulla rampa. Nello specchietto retrovisore vedo il camion sbandare fuori dalla corsia per poi, miracolosamente, ritornare in carreggiata. Davvero, è solo un miracolo che ce l’abbia fatta con quella strada bagnata. Lasciatemi aprire una parentesi. Scommetto che in quel momento, dopo i dovuti bestemmioni e insulti, quel camionista avrà ringraziato il buon vecchio Padre Pio sul cruscotto, che gli ha fatto la grazia. Oh, non so voi, ma metti caso che la grazia gliel’ha fatta la donna nuda nel calendario accanto al frate? Non dico che è così eh, dico solo che potrebbe. E indovinate chi farebbero Santo per uno di sti miracoli tra Padre Pio e la gnocca? Non è un mondo giusto, ecco. Chiusa parentesi. «Se era un modo per svegliarmi ci sei riuscito». Il capo non parla, continua a guidare come se non fosse successo nulla. Davvero, non l’ho mai visto così serio. Dopo pochi minuti entriamo in una via sterrata, oltrepassiamo una lunga sbarra di metallo già spostata, e ci ritroviamo in quello che sembra essere un cantiere edile. Quando la nostra Porsche, - scusate, mi faccio prendere dall’entusiasmo a volte- quando la sua Porsche si ferma nello spiazzo, scendiamo e immergiamo le nostre scarpe di marca, - no- le sue scarpe di marca, in una pozzanghera che neanche la Fessa della Marianna. La Fossa delle Marianne. Cambia poco comunque, la profondità è più o meno quella. Ad attenderci è qualcuno che punta una grossa torcia elettrica sulle nostre facce assonnate, nascosto sotto ad un grosso ombrello nero. È un uomo sulla sessantina che preferisco non descrivere oltre. Il tipo non si avvicina, dobbiamo andare noi da lui. Quando il mio boss si muove lo seguo a ruota. «Dov’è?» gli chiede il capo. Fortuna che non sapeva nulla… Dov’è cosa? «Non ho toccato nulla, è ancora lì» fa l’uomo, «seguitemi». Ok, ora qualcuno può darmi una spiegazione? Giriamo attorno allo scheletro di un grosso casermone in costruzione. All’epoca credevo fosse un condominio, invece poi ci hanno fatto degli uffici. Per terra è solo fango e montagne di detriti. Io sono rimasto qualche metro dietro di loro, non ho la torcia, non vedo nulla, e ho un ombrellino così piccolo che sembra quello di un cocktail hawaiano, praticamente serve soltanto per fare coreografia con gli altri due. Quando svoltano l’angolo, il capo esplode in un’imprecazione. Io accelero, ma tra il buio e le pozzanghere è un casino. Quando finalmente li raggiungo, la prima cosa che vedo svoltato l’angolo è la parete dell’edificio, completamente aperta e delimitata soltanto da colonne portanti, illuminata dalla torcia che l’uomo sta puntando in alto. «Penso secondo piano, l’avevo mandato a controllare le infiltrazioni. Con tutta sta pioggia…» fa quello. Poi è un attimo, un piccolo movimento di braccio e la luce si sposta in un istante verso il basso, illuminando fugacemente i vari piani del palazzo, per ritornare a terra, puntata a pochi metri da noi. La mia reazione? «*****». «Oh *****», «oh *****». «Porca *****». Un uomo è disteso a terra, con il viso nel fango e la pioggia che lo bagna. Non c’è sangue, ma sia la testa che le gambe sono piegate in modo innaturale. Se non è morto, ha decisamente un futuro come contorsionista. |
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#18 | ||
Junior Member
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![]() Eccoti accontentato comunque! p.s. Se trovate la storia interessante e la ritenete meritevole, vi chiedo di spargere il più possibile la voce. Anche tu, sì proprio tu, che hai letto senza lasciare commenti ![]() Buona lettura e buon viaggio. Alla prossima, stay tuna ![]() Ultima modifica di donk.or.leone : 14-05-2015 alle 17:45. |
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#19 |
Senior Member
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Ti seguo e la storia mi appassiona parecchio. Prosegui!!
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#20 |
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Interessante, complimenti.
Sei in ritardo ![]()
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