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Old 31-10-2005, 17:22   #1
Ewigen
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'900, l'Europa dai fucili al walkman

Dopo un secolo di tragedie pur fra contraddizioni si riapre la speranza: un colloquio tra Eraldo Affinati e Mario Rigoni Stern

'900, l'Europa dai fucili al walkman

«Abbiamo raggiunto un continente senza confini che ci dobbiamo ancora meritare: dal Mediterraneo al Baltico»

Di Eraldo Affinati

Ho visto la casa di Mario Rigoni Stern, ad Asiago, in tutte le stagioni: d'estate era scintillante e rinserrata su se stessa in un riverbero del sole in mezzo ai rami degli alberi; nel dolce autunno dei cacciatori solitari assomigliava alla castagna dentro il riccio spinoso; negli inverni lontani pareva accucciata alla maniera del capriolo infreddolito; a primavera si preparava a spiccare il balzo giù nella valle, inseguendo le allodole.
Sono trascorsi sessant'anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. Più di 90 dall'attentato di Sarajevo: entrambi i conflitti bellici, ma specialmente il primo, hanno segnato in modo irreversibile l'Altopiano dei Sette Comuni. Cosa abbiamo guadagnato nel frattempo, noi, reduci di pace? Lo chiedo all'antico ragazzo che, nel fatidico settembre 1939, quando la Germania e l'Unione Sovietica si spartirono la Polonia, non aveva ancora compiuto diciott'anni, ma era già caporalmaggiore degli alpini, entusiasta e fresco di nomina, acquartierato con il suo reparto nel settore del Monte Bianco, diviso fra gare di sci ed esercitazioni al poligono di tiro, pronto ad entrare in azione per eseguire gli ordini dei comandi superiori.

Il continente riguadagnato
Le sue parole, pronunciate nella lucida consapevolezza di aver militato, in quanto sottufficiale dell'Armir, dalla parte sbagliata, scendono su di me come una specie di benedizione: «Abbiamo guadagnato un'Europa senza confini che ci dobbiamo ancora meritare: dal Mediterraneo al Baltico. Gli Stati che prima si combattevano adesso hanno la moneta unica. Sarebbe arrivato il momento di riconoscere nostra anche un'unità morale. Se andiamo a zappare nei millenni, ci scopriremo figli del Centro Africa. Dirci siciliani o padani è ridicolo. Al mondo siamo tutti compaesani».
Va bene, sergente. Ma cosa abbiamo perso? «La misura umana. Negli anni Cinquanta la gente cantava: si sentiva fischiettare per le strade, nei campi e nelle cucine. Oggi chi lo fa più? La musica si ascolta n elle cuffiette, ognuno per conto suo. In treno tutti stanno zitti, leggono o fanno finta, pur di non parlare. Poi scendono alla stazione senza dire buongiorno e buonasera. Isolamento e comodità sembrano procedere di comune accordo: è forse il prezzo che dobbiamo pagare al progresso?».
«Se penso all'Europa», sostiene adesso Mario Rigoni Stern, «mi viene in mente Alcide De Gasperi. Lo ricordo sotto un larice, a Sella di Valsugana dove veniva a riposare. Gli bastava poco: un quaderno, qualche libro e una penna stilografica a cui teneva molto. Mi è rimasta negli occhi la sua semplicità».

Il Vangelo letto nel lager
Lascio scorrere i titoli che, come ponti fra due generazioni, illustrano la nostra amicizia. Una classe scolastica. «La mia maestra Elisa. Quaranta ragazzi. Sapeva tenerli a bada. Non aveva preferenza per poveri e ricchi, ti giudicava solo per quello che dimostravi di essere». Anna Frank. «Credo di averne viste tante, nei lager tedeschi, trascinate a fare le schiave in Germania. Riscopro ora le sue sembianze nello sguardo di Caterina, mia nipote». Il fungo atomico. «Ero tornato da poco. I giornali parlavano di una bomba strana che aveva provocato decine di morti. Quando venimmo a sapere la verità, pensai: per fortuna quell'arma non l'aveva avuta Hitler!». La steppa. «Le sere estive di luglio, quando ti senti portato per l'universo. Le notti, con le stelle che si possono contare una ad una. Senza presenza umana». Un uomo con le mani in tasca. «Charlot col berretto di sghimbescio. Finalmente qualcuno che non ha niente da fare».
Un testo memorabile: «Il Vangelo di Giovanni. Lo lessi nel lager, con la fame, il freddo e i pidocchi. Mi sembrò tutto chiarissimo. Perché i teologi e gli esegeti ne discutono tanto?». Un film di guerra. «L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij». Don Gnocchi. «Era uno sbandato come noi, quei giorni di gennaio del 1943. Immaginai che ci desse la benedizione in articulo mortis, prima della ritirata». Il fucile. «Un giocattolo per sparare al tirassegno». La baita celeste. «È un luogo dove non c'è freddo. Non si ha fame, non si ha sete. Si sta con gli amici a ragionare, come nel vascello di Dante». Una tazza di latte. «La bevanda più buona che ci sia. Non dà, come il vino, solo ebbrezza. Siamo mammiferi, nati per succhiare il latte della madre. Ah! Se avessi potuto averne una nel lager!».
E se dovessi dare qualche consiglio a un giovane, cosa gli diresti? «Non sprecare il tuo tempo perché poi lo rimpiangerai. Cerca di non attribuire troppa importanza a personaggi senza valore. Scegli un lavoro adatto a te non per guadagnare denaro ma per completare la vita».
«Non so se oggi siamo più sereni di ieri - riflette Mario -. Il benessere non è prerogativa di tutti. Pochi giorni fa, in un supermercato, ho rivisto il libretto della spesa fra le mani di una giovane moglie che aveva appena comprato pane e formaggio. Non me lo ricordavo dai tempi di guerra. Adesso ricompare. E non è un semplice reperto: serve ancora a sbarcare il lunario».
Andare oltre è stato il sogno dell'uomo novecentesco. Il suo vanto, il suo delirio. Ad ogni costo bisognava partire verso nuovi traguardi, fuori e dentro di noi, mettendo in conto di spingersi talmente in là da non poter più tornare indietro. Tutto ciò che imbrigliava l'energia non era ritenuto degno di essere preso in considerazione. È stato giusto? Oppure quell'idea di libertà era illusoria? «Mi fai tremare le vene nei polsi», dice Mario Rigoni Stern. E aggiunge: «Chi può stabilire, nella vita di un uomo o nella ricerca scientifica, quale è il punto preciso in cui fermarsi? Dovremmo riuscire ad evitare le stupidaggini, le crudeltà. Non sarebbe poco». Il silenzio pesa su di noi per qualche secondo, prima che il vecchio alpino riprenda a parlare: «Ricordo un semplice boscaiolo che aveva fatto soltanto la terza elementare. Una volta qualcuno gli chiese: come va Bortolo? E lui rispose con una frase che ancora adesso mi resta dentro, al pari di una sen tenza inappellabile: ah caro, in questo mondo non c'è redenzione».

Un alpino e la redenzione
Guardo il sergente maggiore e penso ad Alì, un ragazzo afghano che ho avuto in classe quest'anno. Ha perso i genitori in guerra, da bambino. Mentre io gli insegnavo l'italiano, lui mi raccontava la storia del suo lungo cammino, dalla pianure asiatiche a piedi fino a Teheran sulle spalle del fratello più grande, attraverso i valichi innevati, sfuggendo al fuoco delle guardie turche. E poi ancora più avanti, sotto il Caucaso per raggiungere Istanbul, fino a restare da solo. Il mio scolaro è arrivato in Italia agganciandosi alle sospensioni di un Tir. Due giorni e due notti senza mangiare né bere dal mar Egeo a quello Adriatico fino alle cupole dorate di San Marco. Ha staccato la presa, ormai sfinito, solo durante la sosta del camion a un semaforo alla periferia di Treviso, non lontano dalla casa di Mario Rigoni Stern. Alì ha superato tutti i confini ma adesso ne cerca uno per frenare la sua corsa: quanto vorrei che trovasse, se non la redenzione, almeno il coraggio di voltarsi indietro!(Avvenirte)
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