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Conflitti per fiumi e laghi Ma anche ponti di pace
Nel mondo due persone su cinque vivono lungo bacini condivisi fra nazioni. Le riserve idriche sono considerate una fonte potenziale di conflitto. Però l’esperienza dimostra che una risorsa vitale può obbligare al dialogo. Così avviene sul Titicaca, il Mar d’Aral, il Niger e il Mekong
Acque contese
Conflitti per fiumi e laghi Ma anche ponti di pace
[Avvenire] Sorgenti di pace o fonti di conflitti? Il dilemma posto dall’acqua dolce a cavallo delle frontiere è antico. Ancor più della celebre fiaba del lupo e dell’agnello a monte e a valle del ruscello: una sorta d’archetipo, parrebbe, di tanti spargimenti di sangue lungo sponde fluviali e lacustri condivise fra Stati. Oggi, il dilemma si ripropone. E rispetto al passato, persino con un balzo in su nella scala del rischio, assicurano tanti esperti di geopolitica. I prelievi idrici di città e villaggi, infatti, continuano a crescere in ogni continente e ciò potrebbe acuire un po’ dovunque le tensioni. Soprattutto se si considera che 2 esseri umani su 5 vivono lungo bacini idrografici condivisi fra nazioni: ad esempio quelli di Nilo, Niger e Congo in Africa, di Danubio e Reno in Europa, di Indo e Mekong in Asia, di Rio delle Amazzoni e Rio della Plata in Sudamerica, del San Lorenzo in Nordamerica. Ma c’è anche chi la pensa all’opposto. Sostenendo che una risorsa vitale come l’acqua, ancor più quando è scarsa, obbliga prima o poi le parti a un’indispensabile cooperazione. Gli esempi, del resto, abbondano. Sulle rive del Lago Titicaca, a oltre 3600 metri d’altitudine, ogni timore di guerra dell’acqua pare ormai fugato. Perù e Bolivia, i due Stati rivieraschi dello specchio d’acqua più esteso del Sudamerica, hanno costruito su queste rive da lunga data il successo delle proprie relazioni. Fino a dar vita, nel 1993, a un’autorità indipendente binazionale che veglia sullo svolgimento delle attività lungo e attraverso la frontiera liquida. Navigazione, commercio, pesca e turismo hanno conosciuto così uno sviluppo crescente, generando un circolo virtuoso favorevole a entrambi i Paesi. Ancor più sorprendente è il caso delle coste settentrionali del Mar d’Aral, nelle assetate steppe d’Asia centrale e in mezzo ai temuti rigurgiti della decomposizione dell’impero sovietico. Qui, dal 1995, la cooperazione fra Kazakhstan e Uzbekistan ha permesso di rimediare ai disastri ambientali provoc ati dai prelievi idrici abnormi ordinati da Mosca nei decenni precedenti. Prelievi che, in particolare, avevano prosciugato i principali corsi d’acqua dolce di tutta la regione, nuocendo pure alle altre tre Repubbliche ex-sovietiche vicine e finanche all’Afghanistan. La riabilitazione idrica dell’area è ancora in corso, ma la costruzione di dighe e canali ha già permesso di rilanciare l’agricoltura in terre che sembravano spacciate ed evitato così enormi esodi dalle zone rurali. La comunità internazionale ha contribuito fornendo fondi e risorse tecniche. Questa volta, per costruire attorno all’acqua. Non per arginare gli effetti delle guerre da sempre ipotizzate nella regione da tante cassandre. Altro continente, analoga sorpresa. Il fiume Niger, che serpeggia in mezzo a nove diversi Paesi d’Africa occidentale, vive da tempo una crisi idrica senza precedenti. Una crisi potenzialmente drammatica, dato che sulle sponde del fiume e dei suoi affluenti vivono oltre 110 milioni di persone. Anziché farsi la guerra o perdersi in un vortice di reciproche accuse sul prosciugamento del prezioso alveo, i rappresentanti degli Stati colpiti hanno preferito riunirsi attorno a un tavolo. Ne è nata un’autorità indipendente che potrebbe fare scuola in Africa e che è riuscita ad ottenere due anni fa la promessa di importanti fondi dalla comunità internazionale per un’azione di risanamento dell’intero bacino. Che l’acqua possa spesso servire più a fare la pace che l’inverso è dimostrato anche da alcuni storici trattati rivelatisi a prova di bombe. Non fu l’acqua a scatenare la guerra del Vietnam, ma è significativo che durante quegli anni convulsi non venne mai dissolta la Commissione del fiume Mekong stipulata fin dal 1957 fra Vietnam, Thailandia, Laos e Cambogia. Gli esempi di acerrimi nemici costretti dall’acqua a dialogare si ritrovano in tutti i continenti. Ed è davvero una lunga storia, se si pensa che già attorno al 2500 avanti Cristo le città-Stato sumere di Lagash e Umma rius cirono a trovare un’intesa per condividere le acque del Tigri. Le stesse che negli scorsi decenni le autorità turche si sono sempre rifiutate di "tagliare" a monte, nonostante il sostegno di Ankara alle offensive occidentali in Iraq. Sulle sponde di fiumi e laghi di frontiera, sono stati firmati infiniti accordi e patti. Quanto agli ultimi 50 anni, occorre mettere sui piatti della bilancia 150 nuovi trattati di cooperazione contro 37 contenziosi sfociati nella violenza. Un recente studio retrospettivo dell’Università dell’Oregon, coordinato dal geografo Aaron Wolf, ha mostrato che l’acqua finora non è stata quasi mai fra le cause principali di conflitti fra Stati. Un altro noto esperto della questione, il francese Bernard Barraqué, prevede semplicemente che «le guerre dell’acqua non avranno luogo». Quando le si evocano, in effetti, ci si riferisce spesso impropriamente a conflitti in cui il controllo delle risorse idriche è impiegato come micidiale strumento di rappresaglia o di usura del campo avverso. Lo si è visto di recente in Costa d’Avorio, dove il fronte governativo ha deciso di chiudere le condotte verso il Nord controllato dai ribelli. Aldilà di ogni legittimo timore geopolitico, non va dunque sottovalutato il bicchiere mezzo pieno. L’acqua, certo, non rappresenta in sé un pegno di pace. E non verrà probabilmente mai sradicata la tentazione degli Stati di "farsi giustizia" lungo i "ruscelli" del mondo alla stregua del vecchio lupo della fiaba. Ma da qui a prevedere guerre in ogni cantone, ce ne corre. Di acqua, naturalmente.
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