View Full Version : Spiegatemi perchè se Israele...mentre i Palestinesi...
zerothehero
17-07-2006, 15:49
Concetto starno per un liberista.
Una forza che ha rappresentanza in parlamento non può essere definita terrosrista.
In Italia abbiamo Forza Nuova e Mussolini che professano idee estreme ma sono all'interno di una coalizione e hanno una loro rappresentanza in Europarlamento.
Non sono d'accordo. Hezbollah è un classico ( da manuale di dottrina politica, ) esempio di partito-milizia, non è mica l'unico (Ira [braccio armato], Sinn Fein [braccio politico], Eta e via discorrendo). Un partito che opera da un lato su un piano "legittimista", "legale", accettando la competizione elettorale democratica, dall'altro si serve di proprio milizie per imporre, al di là della sovranità statale (nella fattispecie quella libanese), la propria forza in un contesto territoriale. Questo doppio binario non può essere accettato in uno stato di diritto, ovviamente, perchè al di fuori dello stato NESSUNO può porsi in concorrenza con l'attività coercitiva/coattiva in grado di sostanziare la capacità di agire dello stato.
Il fatto di essere votati, non comporta la cancellazione automatica di "forza terrorista". Hamas è riconosciuta dall'UE, come una forza terrorista, eppure ricopre funzioni esecutive nell'autorità palestinese.
Forza Nuova è una forza antisistema, più che terrorista.
Non capisco cosa c'entri il termine "liberista" :) , liberista afferisce al campo della politica economica, un liberista non è colui che dice "fate quel cazzo che volete". :p ..se invece intendevi "liberale", anche qui c'entra poco..visto che in uno stato liberale vi è la supremazia della LEGGE, la separazione dei poteri e il monopolio della forza fisica legittima da parte dello stato, tutte cose negate dal partito di Dio.
Le Pen e Hider professano idee filonaziste.
Ma vengono votati.
Diversa è la realtà: una forza politica non può avere un esercito indipendente o produrre azioni militari unilaterali.
Ma anche i coloni israeliani sono armati e a volte sparano sui palestinesi e sono protetti dall'esercito.
Ma il Libano non ha mai invaso Israele per questo.
Ma il problema è diverso. Hezbollah ha operato un'operazione CONTRO uno stato sovrano, il Libano cosa c'entra con i "palestinesi"? Nulla..sò pure sciiti. :confused: . Non posso credere che tu possa pensare che alla Siria, all'Iran (dietro Hezbollah) gliene freghi qualcosa dei palestinesi, visto che li fanno marcire nei campi profughi e negano piena cittadinanza ai palestinesi.
Infatti Hezbollah (intervista ai rainews) ha affermato di aver operato in Israele per riavere i propi prigionieri nelle carceri israeliane.
In Libano addirittura un palestinese non può accedere a determinate professioni. Conclusione: a buona parte degli stati arabi dei palestinesi non gliene frega un'emerita minchia (si può dire minchia?)...tuttalpiù li strumentalizzano per distruggere israele
Il controfatto della mia affermazione risiede in un fatto storico..dal 48 al 67 quando L'Egitto e la Giordania occuparono la striscia di Gaza e la Transgiordania non hanno fatto nulla (anzi hanno impedito) la costituzione di uno stato palestinese. Hanno usato quei territori come trampolino di lancio per la guerra ad ISraele.
Finchè Israele occupava il Libano meridionale posso anche capire l'uso della forza in mancanza di una possibilità di negoziato, come extrema ratio, adesso che Israele non è più in Libano (dopo aver ottemperato ad una risoluzione onu), Hezbollah non deve più attaccare Israele.
Se poi vuole rimanere un partito milizia, facciano pure, sono questioni interne al Libano, ma se rompono le balle ad Israele, la cosa diviene una questione che inevitabilmente coinvolge tale stato. E, qualsiasi stato avrebbe risposto agli Hezbollah usando la via militare. Noi europei con LA NATO, figuriamoci, abbiamo bombardato la Serbia e la Yugoslavia per questioni di "diritto umanitario", che neanche ci coinvolgevano direttamente, quindi. :p
In tutto questo il nostro ministro Emma Bonino propone di far entare in UE lo stato di Isralele.
Così ci portiamo a casa la guerra, visto che molti islamici già risiedono qui.
La Bonino a volte spara delle cazzate talmente assurde, come del resto i Radicali Italiani in genere, tanto da non capire se provocano o dicono barzellette.
Israele non è geograficamente in Europa.
Non ha una condotta militare accettabile per la UE
Non ha comportamento democratici con gli abitanti Palestinesi
E sarebbe impensabile portare in Europa uno stato criminale che carbonizza in una sola volta un pulmino con due famiglie a bordo che fuggivano dalla guerra, polverizzando 21 persone fra cui 9 bambini di cui uno è stato ritrovato mentre mangiava del pane.
In guerra purtroppo pagano i civili, non è una novità.
Sulla questione europa e nato, non rispondo, altrimenti dilatiamo troppo gli argomenti, a mio avviso.
Sono popoli incapaci di parlarsi e capaci solo di azioni di forza.
Stiano a casa loro e nessuno dei due avrà il mio appoggio: sono troppo sciocchi per poter dialogare seriamente.
fg
SEi pessimista (o forse realista? :stordita: )..L'egitto dopo la guerra del '67 scatenata da Nasser ha stipulato un trattato di pace con Israele e hanno riavuto tutto il Sinai, non un cm di meno. Certo, Sadat è stato ammazzato dai fratelli musulmani, ma adesso l'Egitto non attacca più Israele, anzi Mubarak (anche se rimane un dittatore) è un validissimo mediatore (sta trattando con Hamas).
La Giordania ha stipulato anch'essa una pace duratura con ISraele, i rapporti sono pacifici tra i due stati.
Con La Turchia non c'è solo pace, ma una solida alleanza (economica, specie per le forniture idriche e militare).
L'Iraq attuale se ne sta tranquillo, il premier Al-Maliki ha altro a cui pensare.
Il problema attuale è la Siria che di fatto è dominus del Libano e soffia sul fuoco (per distogliere le sue colpe sull'omicidio Hariri), Il Libano (che è troppo debole per avere un monopolio della forza) e l'Iran.
E poi c'è la questione palestinese con uno stato da costruire per i palestinesi che accetteranno Israele come stato.
zerothehero
17-07-2006, 15:58
Beh forse perche israele non riconosce il Libano come stato ?
Il problema attuale è che Hezbollah non riconosce Israele come stato.
Il che sarebbe ininfluente se poi Hezbollah non facesse di tutto per distruggere tale stato.
HenryTheFirst
17-07-2006, 16:18
Hey, fuck yeahhhhhhhhhhhh!
E questo messaggio cosa sta a significare? :confused:
Ad ogni modo: apporto alla discussione nullo ed insulto ad altro utente.
Ammonito.
EDIT: doppia ammonizione, sospeso 3gg.
powerslave
17-07-2006, 16:30
non direi proprio
giu|dè|o
agg., s.m.
1a agg. CO ebraico: tradizioni giudee | agg., s.m., ebreo: il popolo g., i Giudei
1b agg., s.m. TS stor., nativo o abitante dell’antica Giudea
2 s.m. CO fig., ster., spreg., secondo un antico pregiudizio antisemita, chi è avido di denaro; usuraio | persona infida; traditore
anche io sapevo che giudeo non fosse dispregiativo;)
Infatti se cerchi la parola "ebreo" sul de mauro,che presumo sia il dizionario che hai usato, trovi questo:
e|brè|o
agg., s.m.
AU
1a agg., s.m., che, chi appartiene al popolo ebraico: e. sefardita, askenazita; l’esodo degli ebrei | che, chi professa la religione ebraica
1b agg., s.m., ster., spreg., secondo un antico pregiudizio antisemita, che, chi è avido di guadagno
2 s.m. BU ebraico
indelebile
17-07-2006, 16:50
Bilancio dei morti in Libano supera i 200 civili
Sono quarantatre i morti in Libano sotto i bombardamenti israeliani nella giornata di oggi, mentre hanno superato quota 200 le vittime degli ultimi sei giorni. Il bilancio complessivo comprende 192 civili e 12 soldati, mentre i feriti sono 430. La Croce Rossa ha inoltre scoperto i cadavetri di dieci persone, sotto le macerie di una casa colpita dagli aerei israeliani nella giornata di ieri. Da parte israeliana le perdite
complessiva ammontano a 12 civili e 12 soldati, caduti sotto i razzi sparati dagli Hezbollah
come ho detto in precedenza siamo a livello di 10 libanesi morti contro uno solo israeliano
ma il bello/brutto che gli Hezbollah si gasano per aver ucciso qualcuno (che ne so quando ucciso la motovedetta israeliana) quando subiscono 10 volte le perdite di civili, come soldati siamo alla pari, a queste merde non interessa nulla dei civili ma gli sfruttano
Non è colpa di Israele se gli stati se questi iniziano delle guerre che poi puntualmente perdono. La striscia di Gaza è stata occupata a partire dalla guerra dei sei giorni. Quanto al radere al suolo le case dei parenti dei kamikaze, dimmi tu che disincentivo proponi, arrestare ogni kamikaze che si fa esplodere? La vedo un filino poco efficace come procedura.
Il 1967, siamo nel 2006. Con L'Egitto c'è un trattato di pace e la striscia di Gaza apparteneva all'Egitto all'epoca. Qual'è il motivo per rimanerci 28 anni, visto che il trattato è stato firmato nel 1978?
L'ultima guerra in larga scala l'ha iniziata Israele nel 1982 con l'operazione "Pace in Galilea". Ariel Sharon diede il meglio di sé i quell'occasione, per sistemare i conti con i Palestinesi. Erano altri tempi comunque, il muro non era ancora caduto e l'URSS sosteneva la Siria che come sappiamo ha forti interessi in Libano.
Riguardo la distruzione delle case dei kamikaze, l'arresto amministrativo, rinnovabile con la semplice firma di un ufficiale militare senza processo o avvocato, gli assassini mirati. Non vedi altra soluzione per fermare i terroristi? Quindi usiamo gli stessi metodi. E dov'è la differenza allora la differenza? Qual'è la superiorità morale? Dov'è la democrazia? Dov'è il rispetto dei diritti elementari? Forse questi si applicano solo agli Israeliani? Troppo comodo e semplice allora.
Su chi ha interrotto il processo di pace beh
Arafat, Bill Clinton e Camp David
Il 23 dicembre 2000 fu un giorno fatale per il processo di pace in Medio Oriente.
Invitai le due parti a Washington per un ultimo tentativo, e, dopo che ebbero negoziato per diversi giorni, io e il mio team ci convincemmo che se non avessimo ristretto l'ambito delle trattative, forzando le parti a scendere a compromessi sostanziali, non vi sarebbe mai stato un accordo.
Arafat temeva di essere criticato da altri leader arabi; Barak stava perdendo terreno in patria a favore di Sharon.
Pertanto feci ciò che non molto tempo prima sarebbe stato impensabile: invitai la delegazione palestinese e quella israeliana ad accomodarsi nella Cabinet Room e lessi loro i miei «parametri» per l'avanzamento del negoziato, messi a punto dopo lunghe conversazioni private tenute separatamente con le due parti dopo Camp David. Se li avessero accettati entro quattro giorni, avremmo proseguito. In caso contrario, l'incontro era chiuso.
Il 27, l'esecutivo di Barak accettò i parametri con alcune riserve, che apparivano negoziabili.
Si trattava di un fatto storico: un governo israeliano aveva dichiarato che per raggiungere la pace avrebbe accettato la nascita di uno Stato palestinese in circa il 97% della Cisgiordania e in tutta la striscia di Gaza, dove c'erano insediamenti israeliani. Ora la palla passava ad Arafat.
(...) Ancora non avevo avuto notizie da Arafat. Il Capodanno del 2001 lo invitai alla Casa Bianca per il giorno dopo. (...) Quando Arafat arrivò, mi pose molte domande sulla mia proposta. A volte sembrava confuso, come se non avesse il completo controllo degli avvenimenti. (...) Forse non era semplicemente capace di compiere il salto finale da rivoluzionario a uomo di Stato. (...)
Quando Arafat partì, non avevo ancora idea di quali fossero le sue intenzioni.
Le espressioni del suo volto e i suoi gesti mi dicevano che non avrebbe accettato, ma l'accordo era così buono che non riuscivo a credere che qualcuno potesse essere così sciocco da lasciarselo sfuggire.
In una delle nostre ultime conversazioni Arafat mi ringraziò per tutti i miei sforzi e mi disse che ero un grand'uomo.
«Signor presidente - risposi -, non sono un grand'uomo. Sono un fallimento, e questo grazie a lei».
Lo avvertii che stava praticamente spianando la strada all'elezione di Ariel Sharon e che avrebbe raccolto quello che aveva seminato.
In febbraio Sharon fu eletto primo ministro a stragrande maggioranza. Gli israeliani avevano deciso che se Arafat non avesse accettato la mia offerta, non avrebbe ottenuto proprio niente, e che, in mancanza di una controparte disposta a concludere la pace, sarebbe stato meglio essere guidati dal leader più aggressivo e intransigente sulla piazza. (...)
Quasi un anno dopo la fine della mia presidenza, Arafat mi disse di essere pronto a negoziare sulla base dei parametri da me proposti; ma era troppo tardi: in Israele c'erano un governo che non sarebbe stato morbido con lui e un'opinione pubblica che non credeva che avrebbe tenuto fede alla parola data.
Il rifiuto di Arafat fu un errore di dimensioni storiche".
Bill Clinton (My Life)
Ho letto N volte questo passaggio e sono giunto alla conclusione che non dice assolutamente nulla. Nessun dettaglio, nessuna specificazione. Troppo poco per dare un valore alla proposta d'accordo.
Clinton dice che fu un errore di dimensioni storiche? Lo metto sullo stesso piano delle prime dichiarazioni fatte sul caso Lewinsky.
Sul discorso missili vale lo stesso discorso di prima, sono attacchi in risposta agli attentati. Il punto che non vuoi considerare è cosa Israele si trova a dover fronteggiare da decenni: se qualcuno ha idee migliori su come fronteggiare offensive terroriste, idee che non contemplino ovviamente la distruzione dello stato di Israele siamo ben lieti di starle a sentire...
Guarda di quello che ha intenzione di fare oggi Israele mi interessa poco per non dire nulla. In questi ultimi anni Israele ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di fare un passo, partendo da posizioni di forza, per arrivare ad una soluzione politica.
La strada che stanno percorrendo insieme da 60 anni è l'unica? Che poi non si venga a dire che ci sono i buoni e i cattivi.
jumpermax
17-07-2006, 22:04
Il 1967, siamo nel 2006. Con L'Egitto c'è un trattato di pace e la striscia di Gaza apparteneva all'Egitto all'epoca. Qual'è il motivo per rimanerci 28 anni, visto che il trattato è stato firmato nel 1978?
Il motivo te lo mostra chiaramente quanto sta succedendo in Libano: israele si ritira, e milizie armate si insediano nei territori per attaccare le città israeliane. Non c'è la minima fiducia negli interlocutori che hanno di fronte, ogni azione di fatto va decisa unilateralmente.
L'ultima guerra in larga scala l'ha iniziata Israele nel 1982 con l'operazione "Pace in Galilea". Ariel Sharon diede il meglio di sé i quell'occasione, per sistemare i conti con i Palestinesi. Erano altri tempi comunque, il muro non era ancora caduto e l'URSS sosteneva la Siria che come sappiamo ha forti interessi in Libano.
Riguardo la distruzione delle case dei kamikaze, l'arresto amministrativo, rinnovabile con la semplice firma di un ufficiale militare senza processo o avvocato, gli assassini mirati. Non vedi altra soluzione per fermare i terroristi? Quindi usiamo gli stessi metodi. E dov'è la differenza allora la differenza? Qual'è la superiorità morale? Dov'è la democrazia? Dov'è il rispetto dei diritti elementari? Forse questi si applicano solo agli Israeliani? Troppo comodo e semplice allora.
troppo comodo è semplice? hai ragione. Troppo comodo è semplice fare come fai tu che critichi i metodi israeliani senza saper dire cosa dovrebbero fare. Che il mondo faccia schifo e che certe azioni siano disumane siamo buoni tutti. Io voglio sapere quali sono le alternative. Lasciar continuare gli attacchi senza reagire? Il muro difensivo no. Distruggere le abitazioni no. Rispondere al fuoco no. Cosa devono fare gli israeliani quindi? morire suppongo...
Ho letto N volte questo passaggio e sono giunto alla conclusione che non dice assolutamente nulla. Nessun dettaglio, nessuna specificazione. Troppo poco per dare un valore alla proposta d'accordo.
Clinton dice che fu un errore di dimensioni storiche? Lo metto sullo stesso piano delle prime dichiarazioni fatte sul caso Lewinsky.
97 % della cisgiordania e striscia di gaza. Mi pare che come descrizione di massima sia già più che esauriente. Il commento su Clinton è imbarazzante. Evidentemente il presidente degli stati uniti che fece da mediatore tra Rabin e Arafat non è credibile come testimone dei fatti.
Guarda di quello che ha intenzione di fare oggi Israele mi interessa poco per non dire nulla. In questi ultimi anni Israele ha dimostrato di non avere alcuna intenzione di fare un passo, partendo da posizioni di forza, per arrivare ad una soluzione politica.
La strada che stanno percorrendo insieme da 60 anni è l'unica? Che poi non si venga a dire che ci sono i buoni e i cattivi.
Non mi pare. Mi pare invece che si sia ritirato unilateralmente da Gaza, ottenendo come risultato che ora dai territori sotto controllo palestinese partono continui attacchi verso il suolo israeliano. Stessa cosa che accade nel sud del libano. A spiegare bene la situazione ci pensa David Grossman
http://www.wittgenstein.it/post/20060714_70477.html
"Israele ha lanciato una controffensiva, e ha il pieno diritto di farlo. Il violento attacco di Hezbollah contro decine di pacifici villaggi e paesi israeliani è ingiustificabile.
Nessuna nazione al mondo potrebbe tacere e abbandonare i propri cittadini al loro destino dopo aver subito l'attacco di uno Stato vicino, sferrato peraltro senza alcuna provocazione da parte sua.
Sei anni fa Israele si è ritirato dalle zone occupate in Libano nel 1982, rientrando nei propri confini internazionali. L'Onu ha accolto con favore quel ritiro, ratificando la fine dell'occupazione e riconoscendo che il contenzioso sui confini tra Israele e Libano era risolto. Ma subito dopo il ritiro il movimento Hezbollah ha cominciato a violare ripetutamente la risoluzione dell'Onu occupando posizioni prossime alla linea di frontiera, contestando la legittimità del confine in una piccola zona (quella delle cosiddette Fattorie Shaba) e accrescendo la propria forza militare con l'aiuto di Siria e Iran.
Per anni il governo libanese ha fatto di tutto per sottrarsi a uno scontro frontale con Hezbollah che nel frattempo costruiva nel sud del Libano una rete di postazioni fortificate e depositi di armi e munizioni, fra cui missili in grado di penetrare in profondità nel territorio israeliano. Israele, intenzionato a non mettere a ferro e fuoco il confine, si è sforzato di evitare scontri con i militanti di Hezbollah e come risultato si è creata una situazione insostenibile in cui in Libano, Stato sovrano, un'organizzazione definita dall'Onu «terroristica» agisce indisturbata lanciando di quando in quando attacchi contro Israele.
L'aggressione di tre giorni fa rende ancora più evidente il fatto che il governo libanese e l'Autorità palestinese mantengono un atteggiamento problematico ed equivoco nei confronti di Israele.
Entrambi agiscono in maniera contraddittoria: da un lato, in ambito politico, seguono canali diplomatici e mostrano moderazione, dall'altro proclamano di possedere completa libertà di azione e fanno uso dell'arma del terrorismo per colpire civili e invocare apertamente, con retorica razzista, l'annientamento dello stato di Israele. Tale ambivalenza è, fra le altre cose, una della difficoltà che impediscono a Israele di raggiungere un accordo stabile con questi suoi vicini. E anche il motivo principale per cui la stragrande maggioranza degli israeliani - tra cui anche molti sostenitori della pace - negli ultimi anni ha perso fiducia nelle intenzioni dei rappresentanti più moderati degli Stati arabi.
Oggi Israele ha sferrato una controffensiva in Libano perché questo Stato è il padrone di casa di Hezbollah ed è dal suo territorio che partono i razzi Katiusha diretti a colpire le città e i villaggi israeliani. Membri di Hezbollah siedono nel Parlamento libanese e partecipano alle decisioni politiche di questo Stato. I danni che Israele infligge alle infrastrutture libanesi sono ingenti e non si può che provare rammarico e angoscia per i residenti di Beirut, di Sidone e di Tripoli costretti a pagare il prezzo degli errori e dell'impotenza del loro governo. Anche in un momento come questo Israele deve fare di tutto per non colpire innocenti. C'è forse però qualche cittadino libanese che non capisce che i guerriglieri di Hezbollah hanno cinicamente creato una situazione nella quale Israele non ha altra scelta che reagire con la forza a una provocazione tanto sfacciata?
L'intenzione dello Stato ebraico non è solo rispondere all'aggressione di Hezbollah ma creare una nuova realtà lungo la frontiera con il Libano, allontanando i guerriglieri di questo movimento che attentano ripetutamente alla sicurezza dei suoi cittadini e dell'intera regione.
Tale obiettivo è logico e giustificato, per quanto la possibilità che possa essere raggiunto sia minima e i pericoli siano grandi.
Negli ultimi decenni Israele si è ripetutamente impantanato in campagne militari in Libano senza mai riuscire a raggiungere gli obiettivi che si era posto. Come è noto anche i precedenti tentativi di «modellare» una realtà araba conforme agli interessi di Israele sono falliti (e oggi anche il presidente Bush può direttamente testimoniare della dubbiosa efficacia di tali tentativi). Una seconda complicazione deriva dal fatto che Israele è costretto ad aprire un secondo fronte di combattimenti nel nord del Paese, parallelamente a quello cruento - e molto più problematico da un punto di vista morale - già esistente nella striscia di Gaza.
Il sanguinoso attacco di Hezbollah rischia di far precipitare il Medio Oriente in una situazione disperata, i cui contraccolpi potrebbero scuotere i regimi moderati e anti-fondamentalisti di Giordania, Egitto e Arabia Saudita, nazioni preoccupate della piega presa dagli eventi non meno di Israele e degli elementi moderati del governo libanese e dell'Autorità Palestinese. D'altro canto, però, l'attuale scoppio di violenza potrebbe anche portare i Paesi coinvolti nel conflitto mediorientale a ricordare che questo conflitto racchiude un tremendo potenziale di distruzione e che essi si trovano in una trappola da cui l'uso della forza e la violenza non li aiuterà a uscire. Forse questa comprensione, che forse ora si risveglierà con nuova forza e asprezza, li costringerà finalmente a sedersi al tavolo delle trattative e a porre fine, mediante un negoziato, ai problemi e alle divergenze.
In Israele, e anche nella vivace e occidentalizzata Beirut, molti già volevano credere di non essere ormai più parte del conflitto mediorientale. Disperati dalle tendenze sanguinose, integraliste e distruttive presenti nella regione, si erano costruiti una sorta di bolla fatta di comodità, di piaceri e di fuga dalla realtà. In Israele molti sono riusciti a rimuovere efficacemente dalla propria coscienza persino il sanguinoso conflitto con i palestinesi della striscia di Gaza, i missili Qassam che cadevano nel sud del Paese e la sofferenza della popolazione palestinese in seguito alle rappresaglie israeliane. I recenti eventi lungo la frontiera libanese hanno dato a noi tutti una scossa, portando i combattimenti sulla soglia delle nostre case e rammentandoci di quali materiali è fatta la vita in questa regione"
Il motivo te lo mostra chiaramente quanto sta succedendo in Libano: israele si ritira, e milizie armate si insediano nei territori per attaccare le città israeliane. Non c'è la minima fiducia negli interlocutori che hanno di fronte, ogni azione di fatto va decisa unilateralmente.
Se decidi unilateralmente ti godi poi le conseguenze. Gli accordi si fanno i due e l'interlocutore di solito non te lo puoi scegliere come Israele sembra voler fare ogni volta.
troppo comodo è semplice? hai ragione. Troppo comodo è semplice fare come fai tu che critichi i metodi israeliani senza saper dire cosa dovrebbero fare. Che il mondo faccia schifo e che certe azioni siano disumane siamo buoni tutti. Io voglio sapere quali sono le alternative. Lasciar continuare gli attacchi senza reagire? Il muro difensivo no. Distruggere le abitazioni no. Rispondere al fuoco no. Cosa devono fare gli israeliani quindi? morire suppongo...
Dimmi in che cosa queste misure sono state efficaci nel ridurre di una virgola la violenza verso Israele e pensa invece quanto hanno contribuito ad alzare il livello dello scontro.
Soluzioni politiche mai?
97 % della cisgiordania e striscia di gaza. Mi pare che come descrizione di massima sia già più che esauriente. Il commento su Clinton è imbarazzante. Evidentemente il presidente degli stati uniti che fece da mediatore tra Rabin e Arafat non è credibile come testimone dei fatti.
E che cosa vuol dire il 97% della West Bank e della Striscia di Gaza? Il 3% rimane ad Israele e perché? E qui riattacco il disco di altre discussioni: controllo dei confini, gestione dell'acqua, diritto al rientro dei profughi, Gerusalemme, eccetera eccetera. Tutto questo nella biografia di Clinton non lo trovo.
Riguardo il commento su Clinton, i rapporti con la Lewinsky non li ho avuti io, le bugie riguardo l'affaire non le ho dette io. E' un uomo, può sbagliare e le sue impressioni, lasciano il tempo che trovano in assenza di fatti. Era Barak comunque, Rabin l'aveva ammazzato un estremista israeliano.
Non mi pare. Mi pare invece che si sia ritirato unilateralmente da Gaza, ottenendo come risultato che ora dai territori sotto controllo palestinese partono continui attacchi verso il suolo israeliano. Stessa cosa che accade nel sud del libano. A spiegare bene la situazione ci pensa David Grossman
Si è ritirato? E cosa è cambiato? I palestinesi ora sono liberi? O hanno trasformato Gaza in un enorme prigione senza l'impiccio di dover proteggere le colonie?
Anche Gideon Levy la descrive bene su Haaretz:
But does the fact that Hezbollah is a cynical organization that exploits the misery of Palestinians for its own purposes justify the disproportionate reaction? The concept that we have totally forgotten is proportionality. While we're in no hurry to get to the negotiating table, we're eager to get to the battlefield and the killing without delay, without taking any time to think. That deepens suspicions that we need a war every few years, with terrifying repetition, even if afterward we end up back in exactly the same position.
http://www.haaretz.com/hasen/spages/738739.html
jumpermax
18-07-2006, 00:14
Se decidi unilateralmente ti godi poi le conseguenze. Gli accordi si fanno i due e l'interlocutore di solito non te lo puoi scegliere come Israele sembra voler fare ogni volta.
appunto gli accordi si fanno a due. Se l'interlocutore non ha la minima affidabilità che accordi pensi che si possano fare? Gli interlocutori affidabili (Abu Mazen) non hanno sufficiente potere, quelli che hanno potere (Hamas) non hanno la minima credibilità. Come si può negoziare con qualcuno che parte dal presupposto di cancellare Isreaele?
Dimmi in che cosa queste misure sono state efficaci nel ridurre di una virgola la violenza verso Israele e pensa invece quanto hanno contribuito ad alzare il livello dello scontro.
Soluzioni politiche mai?
Come no, ben vengano. Inizia ad elencarne qualcuna e vediamo...
E che cosa vuol dire il 97% della West Bank e della Striscia di Gaza? Il 3% rimane ad Israele e perché? E qui riattacco il disco di altre discussioni: controllo dei confini, gestione dell'acqua, diritto al rientro dei profughi, Gerusalemme, eccetera eccetera. Tutto questo nella biografia di Clinton non lo trovo.
Riguardo il commento su Clinton, i rapporti con la Lewinsky non li ho avuti io, le bugie riguardo l'affaire non le ho dette io. E' un uomo, può sbagliare e le sue impressioni, lasciano il tempo che trovano in assenza di fatti. Era Barak comunque, Rabin l'aveva ammazzato un estremista israeliano.
Intanto era la striscia di gaza e il 97% della cisgiordania. La proposta era dell'amministrazione USA e non di Israele, i dettagli su quel 3% erano ben lontani dall'essere discussi. Cosa c'entri la questione lewinski con tutto questo, a parte un forse maldestro tentativo di voler screditare le parole di Clinton senza minimamente considerarle nel merito lo sai solo tu. A quanto pare per te comunque i compromessi li dovrebbe accettare solo Israele.
Si è ritirato? E cosa è cambiato? I palestinesi ora sono liberi? O hanno trasformato Gaza in un enorme prigione senza l'impiccio di dover proteggere le colonie?
Anche Gideon Levy la descrive bene su Haaretz:
But does the fact that Hezbollah is a cynical organization that exploits the misery of Palestinians for its own purposes justify the disproportionate reaction? The concept that we have totally forgotten is proportionality. While we're in no hurry to get to the negotiating table, we're eager to get to the battlefield and the killing without delay, without taking any time to think. That deepens suspicions that we need a war every few years, with terrifying repetition, even if afterward we end up back in exactly the same position.
http://www.haaretz.com/hasen/spages/738739.html
Israele si ritira dalla striscia di gaza e non ti va bene nemmeno questo. Che devono fare cancellarsi dalle mappe per farti contento?
I palestinesi non saranno mai liberi fintanto che si affideranno ad Hamas e a gruppi fondamentalisti che vogliono lo scontro con Israele. Quanto all'articolo non si capisce bene il nesso con la questione di Gaza visto che parla del conflitto con gli Hezbollah.
von Clausewitz
18-07-2006, 00:17
anche io sapevo che giudeo non fosse dispregiativo;)
Infatti se cerchi la parola "ebreo" sul de mauro,che presumo sia il dizionario che hai usato, trovi questo:
e|brè|o
agg., s.m.
AU
1a agg., s.m., che, chi appartiene al popolo ebraico: e. sefardita, askenazita; l’esodo degli ebrei | che, chi professa la religione ebraica
1b agg., s.m., ster., spreg., secondo un antico pregiudizio antisemita, che, chi è avido di guadagno
2 s.m. BU ebraico
dunque ricapitoliamo....
l'utente Andala rivolto ad altro utente, senza alcun motivo tangibile, così scrive:
E' una minaccia?
Vuoi deferirci a qualche servizio segreto giudeo per farci scomparire?
e così io rispondo ad Andala:
qui l'accezione "giudeo" mi sembra espressa neanche tanto velatamente in senso dispregiativo-razzista
pongo questo post all'attenzione dei moderatori
per il resto prenditi una camomilla e dormici su, che sembri abbastanza alterato, per non dire altro :rolleyes:
gli scrivo così perchè evidentemente ogni parola va inserita in un contesto e quello di Andala sta a indicare come ho sottolineato un accezione dispregiativa-razzista e questo sotto molteplici punti di vista:
1) perchè qualifica il servizio segreto israeliano come "giudeo", quando evidentemente se si parla di servizio segreto si fa riferimento a una nazione e non a una etnia (e in questo senso è verosimile pensare che il mossad abbia al su servizio anche non giudei, ivi compresi arabi musulmani e anche cristiani)
2) per l'utente Andala suddetto servizio segreto "giudeo" avrebbe un innata tendenza a far "scomparire" la gente, tendenza che potrebbe addirittura riguardare la sua persona
3) di stereotipi sui "giudei", malvagi, profittatori, sporchi, abbietti ecc. ecc., sono pieni i libri di storia, che narrano anche le tragiche conseguenze a cui hanno portato questi stereotipi
ora secondo te l'utente Andala ha usato il termine "giudeo" in senso neutro? :confused:
ma ci voleva molto a contestualizzare quello che ha scritto l'utente Andala senza andare a scomodare vocabolari con altri termini sinonimi e scoprire che anch'essi possono essere usati, come nella storia umana sono stati usati, in senso dispregiativo (e qui peraltro mi staresti dando ragione anche se nemmeno te ne sei accorto)? :confused:
indelebile
18-07-2006, 00:40
Intanto era la striscia di gaza e il 97% della cisgiordania. La proposta era dell'amministrazione USA e non di Israele, i dettagli su quel 3% erano ben lontani dall'essere discussi. Cosa c'entri la questione lewinski con tutto questo, a parte un forse maldestro tentativo di voler screditare le parole di Clinton senza minimamente considerarle nel merito lo sai solo tu. A quanto pare per te comunque i compromessi li dovrebbe accettare solo Israele.
Su camp david si è detto di tutto, ovviamente a Clinton conviene scaricare tutte le colpe ad Arafat, e altrettanto sicuro che Arafat non è esente da colpe ma mi sembra semplicistico dare tutta la colpa ad arafat
queste sono altre versioni:
partendo dal primo articolo di haaretz
http://www.haaretz.com/hasen/objects/pages/PrintArticleEn.jhtml?itemNo=437895
Piccole grandi bugie
Autore: Juan Gelman
[Poeta e scrittore argentino di origine ebraica]
Fonte: "Pagina 12" giornale Argentino
...Non è la prima volta nella storia che menzogne di questo tipo si usano per infiammare l'opinione pubblica per giustificare azioni di dubbiosa legalità. Il "misterioso" scoppio che nel 1898 mando a picco il "Maine", l'imbarcazione da guerra americana in sosta nel porto dell'Avana, è servito come pretesto a Whashington per sottomettere Cuba.
Dan Meridor è tornato il martedi scorso su queste pagine a dissertare su un mito ricorrente: "la generosità di Israele e l'ostinato rifiuto palestinese nelle negoziazioni di pace tripartite Barak/Clinton/Arafat, realizzate a Camp David nel luglio del 2000". Il ministro centrista dell'attuale governo Sharon era stato membro della delegazione israelita in tale riunione e ha dichiarato: "A Camp David, il primo ministro Ehud Barak ha offerto ai palestinesi quello che mai era stato offerto, in quel caso si è arrivato all'estremo….. quello che è stato proposto ad Arafat è semplicemente la fine dell'occupazione, cioè più del 90% dei territori occupati…. Arafat non accetto semplicemente perché non ha voluto firmare una frase nella quale si diceva 'la fine del conflitto'." San Agostino aveva già segnato che "negli ampi spazi della memoria" si modificano anche "in qualche modo gli oggetti che sono stati percepiti dai sensi". Una pratica politica frequente.
Vediamo - come semplice esempio - un'altra versione di un altro partecipante al vertice, parliamo di Robert Malley, assistente speciale del presidente Clinton nelle relazioni Arabe-Israelite: "Si dice che (a Camp David) Israele aveva fatto una proposta generosa, storica, e che i palestinesi come al solito hanno perso una nuova opportunità per non approfittarne. In sintesi, addossarle a Yasser Arafat il non accordo finale…. Per un processo di tale complessità, è una diagnosi notevolmente superficiale". L'articolo di Malley, pubblicato nel The New York Review of Books del 9/8/2001, analizza la strategia del "tutto o niente" di Barak - che non seguiva i passi intermedi fatti da Rabin a Oslo - la crescente sfiducia di Arafat, la tendenza pro-Israelita di Clinton, per concludere: "La conseguenza finale e quasi totalmente non avvertita della proposta di Barak è che, veramente parlando, non è esistito mai una proposta israelita. Decisi a preservare la posizione di Israele nel caso non si trovasse un accordo, e decisi a non permettere che i palestinesi ottengano alcun vantaggio con i compromessi unilaterali, gli israeliani sempre si fermarono ad un passo, per non dire vari, prima della proposta. Le idee dichiarate a Camp David non sono mai state messe per scritto, si formularono solo verbalmente….E inoltre non sono state mai definite in dettaglio".
Malley afferma che Barak era disposto a sloggiare il 91% della Riviera Occidentale, ma niente ha detto sulla Striscia di Gaza, la quale è un terzo sotto controllo israeliano. Inoltre Tel Aviv considera che il "Gran Gerusaleme" non forma parte della Riviera Occidentale, e Robert Fisk, inviato del giornale britannico The Independent, ha segnalato il 23/07/2001: "Fuori di discussione rimaneva l'oriente arabo di Gerusaleme - illegalmente occupato da Israele dopo la guerra dei sei giorni del 1967 - la larga striscia di territori occupati dagli israeliani attorno alla città e una zona cuscinetto militare con 16 Km attorno ai territori palestinesi…..La superficie totale delle terre palestinesi dalle quali Israele era disposto a ritirarsi era circa un 46%". Secondo Tanya Reinhart professoressa dell'Università di Tel Aviv, Barak reiterò in luglio il piano israelita "1040-50" presentato a marzo di quel anno, cioè: Israele prendeva immediatamente un 10% del territorio palestinese, un 50% doveva essere sotto autonomia palestinese e un 40% era tutto da discutere. "Questo è il discorso di Barak - sottolineava anche la giornalista del giornale israelita Yedioth Aharonot il 16/01/01 - che ci viene detto sia al mattino che alla notte e che modella la percezione collettiva della realtà: la generosità di Barak in confronto al rifiuto di Arafat…. Nel caso dei palestinesi, non c'è documentazione ufficiale alcuna su quello che Barak ha proposto ad Arafat, e certamente nessuna lista o data stabilita per smantellare nemmeno un solo insediamento….L'unico dato è il discorso sulla generosità di Barak". Inoltre, Ami Ayalon, capo dei servizi secreti del Shin Beth sotto il governo Barak, opinò pubblicamente anche che non è stata una discussione seria quella di Camp David. Ma il mito tranquillizza le coscienze, aiuta a giustificare il terrorismo di stato che applica Sharon e giustifica pure la occupazione dei territori palestinesi.
Non è la prima volta nella storia che menzogne di questo tipo si usano per infiammare l'opinione pubblica per giustificare azioni di dubbiosa legalità. Il "misterioso" scoppio che nel 1898 mando a picco il "Maine", l'imbarcazione da guerra americana in sosta nel porto dell'Avana, è servito come pretesto a Whashington per sottomettere Cuba. La stampa faceva la campagna per la guerra contro il dominio coloniale spagnolo, ma in realtà la lotta era contro l'indipendentista Martì agli inizi del 1895. Le presunte cacciatorpediniere vietnamite contro i distruttori americani nel Golfo del Tonkino nell'agosto del 1964, hanno servito da base ad una guerra che eliminò milioni di vietnamiti e 50.000 soldati americani. Quasi 30 anni dopo, durante la guerra del golfo, il giornalista Sydney Schanberg sollecitava i suoi colleghi a non dimenticare "il nostro incondizionale coro di approvazione quando Lyndon Jhonson ci ingannò con la storia del Golfo del Tonkino". Sarebbe anche lodevole che non lo dimenticassero ora i giornali americani, che attualmente danno un appoggio quasi incondizionato alla guerra "antiterrorista" globale. Comunque, questo già non interessa alle centinaia di civili palestinesi che l'Israele di Sharon assassinò a Jenin.
Il vertice di Camp David del luglio 2000: la “tragedia degli errori”
di Aviram Levy
(gennaio 2002)
1. A un anno dal vertice di Camp David (per brevità CD), tenutosi nel luglio del 2000 e il cui esito infelice sta segnando la storia della regione, sono apparsi sulla stampa estera delle interessanti riflessioni su quell’evento; col distacco consentito dal tempo trascorso, i protagonisti – tra i quali i negoziatori israeliani e palestinesi – hanno ricostruito la vicenda per mezzo di interviste, articoli o libri scritti in prima persona. In questo articolo si vuole offrire ai lettori una rassegna di alcuni di questi preziosi documenti che aiutano a capire meglio i motivi del fallimento del vertice e, soprattutto, mettono in discussione alcune interpretazioni semplificate e frettolose di quell’evento.
Tra i documenti più interessanti vi sono delle lunghe sezioni tematiche del Jerusalem Report del 16 luglio 2001 e del New York Times del 26 luglio 2001, in cui si analizza la vicenda con l’aiuto di interviste a protagonisti di entrambe le parti. Inoltre, due dei principali negoziatori che hanno partecipato al vertice – l’allora ministro degli esteri israeliano Shlomo Ben-Ami e l’assistente speciale di Clinton per le questioni mediorientali Robert Malley – hanno pubblicato dei resoconti della loro esperienza (rispettivamente su Haaretz del 14 e 23 settembre 2001 e sulla New York Review of Books del 9 agosto 2001). Infine, due libri di testimonianze, di cui tuttavia non si darà conto in questa sede, sono stati di recente pubblicati in Israele da Gilead Sher, membro del team di negoziatori, e da Menachem Klein, accademico prescelto come consigliere da Ben-Ami.
Vi sono alcuni aspetti del vertice di CD che rivestono particolare importanza per risalire alle cause dell’insuccesso e alle eventuali responsabilità:
· l’adeguatezza dei preparativi alla vigilia del vertice (in aprile 2000 si svolsero dei colloqui preparatori a Stoccolma) e la scelta dei tempi del vertice, fissato per luglio 2000;
· i progressi conseguiti sui tre capitoli principali del contenzioso: i termini del compromesso territoriale, lo status di Gerusalemme, il ritorno dei profughi palestinesi;
· le strategie seguite dai protagonisti: il potere contrattuale di Barak e Arafat e la capacità del Presidente Clinton di mediare tra le parti con efficacia;
· l’effettiva entità delle concessioni israeliane a CD;
· alla fine del vertice, la decisione di Clinton di addossare ad Arafat la responsabilità del suo fallimento;
· il ruolo del fallimento di CD e le responsabilità di Arafat nel provocare lo scoppio della seconda Intifada alla fine di settembre 2000;
· il punto cui si arrivò ai negoziati di Taba, condotti dal governo dimissionario di Barak nel gennaio 2001.
2. Il Jerusalem Report del 16 luglio 2001 raccoglie e presenta, in parallelo, le testimonianze di alcuni dei negoziatori israeliani e palestinesi presenti a CD, oltre alle opinioni di alcuni studiosi che hanno fornito la loro consulenza ai negoziatori. Della parte israeliana vengono interpellati oltre a Shlomo Ben-Ami anche Gilead Sher, Menachem Klein e l’allora ministro Meridor. Ben Ami e Sher riconoscono che la preparazione del vertice di CD era stata inadeguata: essi sottolineano che nei colloqui svoltisi tra le due parti a Stoccolma nel mese di aprile del 2000 con lo scopo di spianare il terreno prima di CD non venne affrontato il capitolo di Gerusalemme, questione che si rivelò in seguito determinante per l’insuccesso del vertice. Barak avrebbe preso questa decisione per paura delle ripercussioni che una fuga di notizie avrebbe avuto sulla tenuta della sua coalizione. Il giornalista del Jerusalem Report fa notare che, peraltro, questi timori di Barak avrebbero condizionato negativamente l’esito del vertice per un’altra ragione. Le proposte che egli fece di volta in volta nel corso delle trattative a CD non erano mai messe per iscritto, sia per evitare che le fughe di notizie gli facessero perdere altri pezzi della sua fragile coalizione di governo (quando egli partì per CD aveva già perso la maggioranza parlamentare) sia per permettere di “ripartire da zero” a eventuali suoi successori che dovessero riprendere le trattative: le proposte di Barak venivano così presentate alla controparte palestinese come proposte di Clinton, con il risultato di generare in Arafat l’impressione che il Presidente degli Stati Uniti stesse “favorendo” gli israeliani.
Circa l’entità delle concessioni territoriali israeliane a CD e nei negoziati successivi, il prof. Klein riferisce che a CD Barak arrivò a proporre la restituzione dell’89,5% dei territori occupati (Cisgiordania e Gaza); in contropartita per la rinuncia palestinese a questo 10,5% Barak avrebbe offerto territori dell’Israele pre-‘67 (le dune di Chalutzà nel Negev) pari all‘1% della Cisgiordania e di Gaza, con un rapporto di “concambio” di 1 a 10 (ma Gilead Sher, interpellato a proposito, ha preferito non pronunciarsi su queste percentuali). Dall’articolo si evince anche che i cosiddetti “parametri” per un accordo proposti il 23 dicembre 2000 da Clinton, ormai dimissionario, per trovare un compromesso dell’ultim’ora prevedevano la restituzione di una quota di territori occupati compresa tra il 94% e il 96%. Infine, nel gennaio 2001 si svolse a Taba una maratona negoziale che si rivelò vana ma, per altri versi, incoraggiante dato che le distanze, alla fine, si erano ridotte al minimo; essa si svolse mentre l’intifada divampava e con Barak dimissionario, a poche settimane dal voto per l’elezione del premier: secondo il Jerusalem Report, a Taba la delegazione israeliana avrebbe offerto la restituzione di una quota di territori in linea con i cosiddetti “parametri” di Clinton (94-96%), proponendo in cambio territori israeliani con superficie pari a metà del 4-6% annesso.
Sullo stesso numero del Jerusalem Report vengono raccolte, per la parte palestinese, le testimonianze del negoziatore di CD Abu Ala e dello studioso K. Shikaki. Innanzitutto, essi sottolineano come la decisione presa a maggio del 2000 di convocare il vertice di CD era apparsa subito ai loro occhi come la “cronaca di una catastrofe annunciata”. Arafat fu costretto a prendervi parte sebbene egli avesse messo in guardia dai rischi di un vertice in presenza di un divario ancora ampio tra le posizioni sul tavolo negoziale; in particolare, nella preparazione del vertice sarebbe stata del tutto trascurata la questione dei profughi. A loro avviso i tempi del negoziato erano stati dettati dall’approssimarsi delle scadenze elettorali di Clinton, che avrebbe lasciato l’incarico a novembre, e di Barak, che non poteva rinviare le elezioni oltre la primavera del 2001. Entrando nel merito dei negoziati di CD, gli esponenti palestinesi intervistati ridimensionano i dati riguardanti le proposte territoriali israeliane, sostenendo che queste ultime prevedevano la restituzione solo dell’80% dei territori occupati; il restante 20 per cento annesso a Israele avrebbe di fatto spezzato la Cisgiordania in 3 cantoni senza continuità geografica. Secondo i negoziatori palestinesi la trattativa era stata male impostata “alla nascita” nel fissare come punto di partenza sulle questioni territoriali non la risoluzione n. 242 dell’ONU (ossia i confini precedenti la guerra del 1967), come sarebbe stato corretto a loro avviso, bensì la situazione creata “de facto” dalla politica degli insediamenti condotta da Israele nei territori occupati, dove dopo gli accordi di Oslo il numero di coloni è salito di 80.000 unità, fino a circa 200.000. Infine, secondo gli esponenti palestinesi ha avuto conseguenze assai negative il fatto che alla fine del vertice il presidente Clinton, forse in buona fede ma venendo meno a un impegno preso alla vigilia con Arafat, ha addossato pubblicamente a quest’ultimo la responsabilità del fallimento di CD.
3. In due lunghe interviste concesse al giornalista Ari Shavit e apparse su Haaretz a settembre del 2001 l’allora ministro degli esteri Ben-Ami ripercorre lo svolgimento del fatidico vertice fornendo interessanti elementi per ricostruirne la dinamica. Ben-Ami riconosce in partenza che è stato un errore fatale quello di avere convocato CD senza avere preparato in modo adeguato un compromesso sulla questione di Gerusalemme. Peraltro, sull’altra questione che causò il fallimento del vertice, quella del ritorno dei profughi, a suo avviso non sarebbe stato impossibile trovare un compromesso: ciò viene suggerito dal fatto che nel gennaio 2001, a Taba, i negoziatori palestinesi avanzarono la proposta di fare rientrare in Israele 150.000 profughi scaglionati nell’arco di 10 anni, mentre Beilin fece la controproposta di accettarne 40.000; i negoziati si interruppero nei giorni successivi a causa del sopraggiungere delle elezioni.
Ben-Ami riconosce ai palestinesi il fatto che nel 1993 a Oslo essi avevano “rinunciato” al 78% della Palestina “storica”; essi vedono il processo in corso come uno di “decolonizzazione” e quindi sono riluttanti a fare compromessi. Tuttavia gli otto mesi di negoziati – tra il vertice di CD di luglio 2000 e i negoziati di Taba del gennaio 2001 – mostrano che il movimento nazionale palestinese ha anche degli elementi patologici: i palestinesi ritengono più importante il “fare giustizia”, il “riparare i torti subiti”, come dimostra la questione dei profughi, che non la riconciliazione e una soluzione al conflitto. Ben-Ami è dell’avviso che Arafat, il cui ethos è quello del vittimismo, in cuor suo non riconosca la legittimità dell’esistenza di Israele e perciò non sia in grado di fare un compromesso con lo Stato ebraico. Tuttavia Ben-Ami compie anche un’autocritica severa: lungi dall’avere rivisto le sue posizioni di “colomba”, egli ribadisce il fatto che Israele non può soggiogare un altro popolo, cosa che, la storia dimostra, non è mai riuscita a lungo andare. Né si è ricreduto sul tema delle colonie nei territori: a suo avviso è stato un atto di arroganza quello di investire così tante energie del paese in un progetto, senza speranza, di insediamenti nel cuore di una popolazione araba. Egli rimane inoltre convinto della necessità morale e politica di creare uno stato palestinese.
4. Infine Robert Malley, membro del team di negoziatori statunitensi a CD, ha proposto la sua radiografia del fallimento del vertice in un lungo contributo uscito sulla New York Review of Books in agosto 2001 (una versione condensata delle sue tesi è apparsa poco tempo dopo sull’International Herald Tribune). Egli ritiene che vi siano tre pericolosi “miti” da sfatare riguardo al vertice di CD. Mito n. 1: A Camp David sono state messe alla prova le buone intenzioni di Arafat ed egli ha deluso il mondo. Secondo Malley non era pensabile che un conflitto che dura da cento anni come quello israelo-palestinese e che affonda le radici in migliaia di anni, costato decine di migliaia di vite umane, si potesse risolvere in una dozzina di giorni senza che le questioni cruciali – territori, Gerusalemme, profughi – fossero state preventivamente discusse e risolte dai due leader. Mito n. 2: Le proposte fatte da Israele a CD soddisfacevano tutte, o quasi, le legittime aspirazioni dei Palestinesi. Dopo avere descritto le proposte israeliane sui tre punti principali del contenzioso, l’autore riconosce che le offerte di Barak sono state di gran lunga le più generose mai fatte sino ad allora da parte di Israele; altra cosa è, tuttavia, affermare che si sia trattato di offerte “da favola”, sicuramente non lo erano dal punto di vista palestinese. In particolare, Malley puntualizza che in tema di territori l’offerta finale di Barak a CD era di restituire il 91% dei territori occupati nel 1967; su Gerusalemme, Barak aveva proposto di restituire i quartieri musulmano e cristiano della città vecchia, assieme ad alcuni quartieri di Gerusalemme est, ma conservando per Israele la sovranità sulla spianata delle Moschee (affidandola in custodia ai palestinesi). Mito n. 3: I palestinesi non hanno fatto alcuna concessione. A suo avviso questa tesi trascura alcune importanti concessioni fatte, sia pure implicitamente, dai palestinesi a CD: i) il riconoscimento dei confini di Israele del 4 giugno 1967; ii) l’accettazione del principio di uno scambio di territori per consentire la permanenza dei blocchi di insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gaza; iii) l’accettazione dell’annessione a Israele di parte di Gerusalemme est (i quartieri ebraici); iv) l’accettazione della necessità di conciliare il ritorno dei profughi con le esigenze demografiche e di sicurezza di Israele.
Infine Malley propone anche due riflessioni più generali. In primo luogo egli ritiene che la leadership palestinese non è stata all’altezza della situazione né delle proprie responsabilità: essi rimpiangeranno a lungo di non avere fatto delle controproposte più articolate e più lungimiranti negli otto mesi di negoziati. In secondo luogo, Malley riconosce che il vertice di CD non venne preparato adeguatamente e che fu un grave errore il non predisporre una “soluzione di riserva” (optando invece per una strategia di tipo “o la va o la spacca”). Tuttavia, a suo avviso non si può assolutamente sostenere che CD sia stato convocato prematuramente: nella primavera del 2000 tutti gli analisti erano concordi nel prevedere che, in assenza di progressi significativi nel processo di pace, nel giro di pochi mesi sarebbe scoppiata una rivolta nei territori dell’ANP; la decisione di affrontare direttamente i delicati nodi dello ”status finale” della regione non fu prematura ma, semmai, arrivò troppo tardi.
5. Quali conclusioni si possono trarre da questa rassegna, in cui si è cercato di dare voce ai protagonisti diretti dei negoziati? L’interesse di questi contributi sta soprattutto nel fatto che essi sfatano una narrazione semplicistica ma assai diffusa secondo cui la responsabilità del fallimento del vertice di CD sarebbe da addossarsi interamente ai palestinesi; oltre a poggiare su basi poco solide, come mostrano i documenti esaminati, tale vulgata – “Israele ha proposto ai palestinesi l’inimmaginabile e questi hanno rifiutato e scatenato l’intifada, ergo non potrà mai esservi pace con i palestinesi” – appare dannosa soprattutto in quanto alimenta un pericoloso fatalismo.
La lezione di questi documenti è particolarmente importante per il fronte pacifista in Israele e nell’ebraismo diasporico dove lo smarrimento, accentuato dai tragici eventi dell’11 settembre e dall’imbarbarimento dello scontro tra israeliani e palestinesi, si sta trasformando in rassegnazione. Lo sforzo di sfatare certe ricostruzioni manichee non rappresenta solo un esercizio intellettuale ma serve a comprendere che il fallimento del vertice di Camp David del luglio 2000 non discende dal fatto che gli accordi di Oslo e con essi il progetto di pace fossero stati male concepiti ma è piuttosto una conseguenza delle politiche miopi – qualcuno l’ha definita una “tragedia degli errori” – condotte dai protagonisti.
powerslave
18-07-2006, 00:50
gli scrivo così perchè evidentemente ogni parola va inserita in un contesto e quello di Andala sta a indicare come ho sottolineato un accezione dispregiativa-razzista e questo sotto molteplici punti di vista:
Io ho letto solamente il post di jumper e ho ritenuto di dover fare una precisazione sul fatto che il termine giudeo non è di per se spregiativo e difatti non lo è,come non lo è o almeno non dovrebbe esserlo tra persone civili il termine ebreo.
Che poi il termine ebreo o giudeo,alla stessa identica maniera ,possano essere usati in senso spregiativo è cosa purtroppo nota.
Il fatto che poi andala abbia usato il termine nella sua accezzione negativa o sia stato tu a cogliere l'occasione per fare un po di polemica è cosa di cui mi interessa pochino e di cui credo debbano occuparsi i moderatori di sezione.
Se sei proprio così interessato alla mia opinione nel merito:
1) perchè qualifica il servizio segreto israeliano come "giudeo", quando evidentemente se si parla di servizio segreto si fa riferimento a una nazione e non a una etnia (e in questo senso è verosimile pensare che il mossad abbia al su servizio anche non giudei, ivi compresi arabi musulmani e anche cristiani)
Sbaglio o Israele sorge proprio nel territorio che una volta era denominato giudea?
2) per l'utente Andala suddetto servizio segreto "giudeo" avrebbe un innata tendenza a far "scomparire" la gente, tendenza che potrebbe addirittura riguardare la sua persona
come tutti i servizi segreti,un paio di 3d più sopra lo stesso stereotipo è utilizzato con riferimento alla CIA
3) di stereotipi sui "giudei", malvagi, profittatori, sporchi, abbietti ecc. ecc., sono pieni i libri di storia, che narrano anche le tragiche conseguenze a cui hanno portato questi stereotipi
e quindi dire giudeo o ebreo diventa automaticamente un isulto?Andiamo bene...
ora secondo te l'utente Andala ha usato il termine "giudeo" in senso neutro?
ma ci voleva molto a contestualizzare quello che ha scritto l'utente Andala senza andare a scomodare vocabolari con altri termini sinonimi e scoprire che anch'essi possono essere usati, come nella storia umana sono stati usati, in senso dispregiativo (e qui peraltro mi staresti dando ragione anche se nemmeno te ne sei accorto)?
Poniti il problema che magari le persone contestualizzano in maniera dversa da te e che probabilmente il tuo etichettare troppo spesso i tuoi interlocutori come antiamericani se criticano Bush o antisemiti se criticano israele sia più discriminatorio e intollerante dei tuoi interlocutori stessi,perchè implicitamente rende qualunque opinione difforme dalla tua illeggittima a priori.
Magari prima di fare le tue contestualizazzioni e dare dell'antisemita a destra e a manca dovresti porti il problema che dare dell'antisemita a chi antisemita non lo è equivale ad insultarlo e anche pesantemente.
P.s.
A volte un post non è fatto per dare ragione o torto a qualcuno,ma per il semplice gusto di aggiungere qualcosa,sia anche una piccola precisazione linguistica che mi sono sentito in dovere di fare dal momento che trovo irrispettoso dare al termine giudeo una valenza esclusivamente negativa.
Ma io non credo che si tratti di un errore..semplicemente l'attuale governo sa bene quale sia la natura del partito-milizia Hetzbollah, ma, per paura di rappresaglie (siriane o iraniane) decide di "lasciar fare", per evitare che scoppi un'altra guerra civile.)
infatti ho detto che si tratta di evitare conflittualita interne.
A questo punto ti chiedo una cosa: che deve fare Israele per non essere attaccato da Hezbollah?
Israele nulla.
forza di interposizione ONU.
97 % della cisgiordania e striscia di gaza. Mi pare che come descrizione di massima sia già più che esauriente. Il commento su Clinton è imbarazzante. Evidentemente il presidente degli stati uniti che fece da mediatore tra Rabin e Arafat non è credibile come testimone dei fatti.
Rabin... A Camp David nel 2000 c'era Barak e scusa se è poco... Rabin era presente a quelli del '93 , fu assassinato nel '95 da un colono estemista ebreo a tel aviv.
Una «vittoria di Sharon»: così un editorialista israeliano ha riassunto il discorso del 24 giugno scorso del presidente americano George W. Bush. Mentre il governo israeliano distrugge ciò che resta degli accordi di Oslo, gli Stati uniti esigono, come condizione preliminare per ogni progresso diplomatico, un cambiamento radicale ai vertici dell'Autorità palestinese. All'orizzonte si profila quindi una guerra senza fine. Eppure, nel luglio 2000, israeliani e palestinesi sembravano vicini ad un accordo. Ritorno quanto mai necessario sul vertice di Camp David, e sulle menzogne che l'hanno seguito.
di Alain GRESH
Quando, fra qualche decennio, gli storici si occuperanno del conflitto israelo-palestinese degli anni '90, sicuramente si troveranno d'accordo su un punto: il vertice di Camp David, quel conclave di due settimane (11-25 luglio 2000) che ha riunito il presidente americano William Clinton, il primo ministro israeliano Ehud Barak e il presidente dell'Autorità palestinese Yasser Arafat, ha segnato la tappa iniziale della lunga discesa agli inferi che vive il Medioriente. Decifrando i resoconti di quell'incontro trasmessi dai media internazionali, gli stessi cronisti sicuramente metteranno in guardia i loro studenti: se fosse scritta solo in base agli articoli della stampa, la storia avrebbe ben pochi punti di contatto con la realtà.
Dico questo perché, nel corso dei mesi, si è propagata e ha prevalso una versione del vertice di Camp David che si sintetizza in una frase: Yasser Arafat ha respinto le «generose offerte» di Barak, ha rifiutato la creazione di uno stato palestinese sul 95%, forse anche sul 97% della Cisgiordania - e su tutta la striscia di Gaza - con Gerusalemme est come capitale. La sua ostinata pretesa del diritto al ritorno di milioni di rifugiati palestinesi in Israele avrebbe fatto abortire la nascita di una pace storica tra israeliani e palestinesi.
Uno dei grandi meriti dell'ultimo libro di Charles Enderlin, Le rêve brisé (1), è quello di fornire una sferzante smentita a questa tesi.
Corrispondente di France 2 a Gerusalemme da oltre vent'anni, man mano che procedevano le trattative di pace l'autore ha filmato i principali protagonisti, con l'impegno di non utilizzare le loro testimonianze prima della fine del 2001. Enderlin ha avuto accesso a numerosi loro appunti personali, che è riuscito a situare nel contesto, grazie alla sua straordinaria conoscenza della storia e del campo.
Il risultato, suffragato da altre testimonianze (2), presenta sotto una nuova luce il fallimento del processo di Oslo.
«Non abbiamo più margini di manovra. La società palestinese ha perso ogni speranza nella pace. In questi ultimi anni è stata letteralmente soffocata e umiliata»: sono le parole con cui Saeb Erekat, uno dei principali negoziatori palestinesi, tenta di mettere in guardia i nuovi interlocutori israeliani. Ci troviamo alla fine del maggio 1999: dopo tre anni di potere, Benjamin Netanyahu ha ceduto il passo a Ehud Barak e al Partito laburista. È vero, i palestinesi hanno potuto eleggere una loro Autorità, e l'esercito israeliano ha evacuato le grandi città della Cisgiordania - con l'importante eccezione di Hebron. Ma la vita quotidiana continua a degradarsi: gli spostamenti all'interno dei territori occupati diventano ogni giorno più difficili - con il moltiplicarsi di check points e di controlli umilianti - ancor più che prima della firma degli accordi di Oslo nel 1993. Il livello di vita è in caduta libera, mentre la politica degli insediamenti procede inesorabile: ogni giorno vengono confiscate nuove terre arabe. Centinaia di prigionieri palestinesi, incarcerati prima del 1993, rimangono dietro le sbarre. Il maggio 1999 doveva segnare la fine del periodo transitorio di autonomia, doveva vedere la creazione di uno stato palestinese, ma il calendario non è stato rispettato, e non è stato affrontato nessuno dei grandi capitoli ancora in sospeso - frontiere, lo status di Gerusalemme, le colonie, i rifugiati, la sicurezza, le risorse idriche.
In questo contesto, la vittoria di Ehud Barak è accolta con soddisfazione dai leader palestinesi, anche se il personaggio, neofita della politica, desta comunque qualche apprensione. Il «soldato più decorato della storia di Israele», allora capo di stato maggiore, si era opposto agli accordi di Oslo (settembre 1993); divenuto ministro degli interni, aveva votato contro gli accordi di Oslo II (settembre 1995), che prevedevano il ritiro dell'esercito israeliano dalle grandi città palestinesi. Salito al potere, secondo la formula di Charles Enderlin, riuscirà nel giro di pochi mesi a «costruire la sfiducia» con i palestinesi.
Con il pretesto di intavolare immediatamente le trattative sullo status definitivo della Cisgiordania e di Gaza, Barak è restio a mettere in pratica gli impegni del suo predecessore, e a cedere i nuovi territori all'Autorità palestinese; si deciderà a farlo solo in maniera tardiva e molto limitata. Rinnegherà anche le sue promesse di evacuare i villaggi alla periferia di Gerusalemme - Abu Dis, Azaryeh e Sawaharah - , nonostante il voto favorevole sia del governo che del parlamento israeliano.
Barak manifesta anche una propensione alla politica delle colonie che non ha nulla di tattico. Uno dei suoi primi gesti, dopo le elezioni vittoriose, è stata la visita ai coloni estremisti di Ofra e di Beit-El, che chiama «fratelli carissimi (3)». Il 31 marzo 2000 invia un messaggio ai coloni di Hebron - fanatici insediatisi nel cuore stesso della città araba di cui terrorizzano la popolazione, e afferma «il diritto degli ebrei a vivere in sicurezza, al riparo da qualsiasi attacco nella città dei Patriarchi». Il ritmo di costruzione delle case nelle colonie, durante il suo governo, sarà ancora più rapido che durante il governo della destra.
Cosa ancora più grave: Barak ritarda per mesi e mesi la discussione della questione palestinese, privilegiando la trattativa con la Siria.
Tempo dopo ha cercato di giustificarsi: «Sono sempre stato un fautore del "prima la Siria"(...) Firmare la pace con la Siria avrebbe limitato decisamente la capacità dei palestinesi di allargare il conflitto, quando invece risolvere il problema palestinese non diminuirà affatto la capacità della Siria di minacciare l'esistenza di Israele (4)».
Non dà ascolto a Oded Eran, capo delegazione delle trattative con i palestinesi: «Gli ho detto che al centro del conflitto israelo-arabo c'era la questione palestinese. (...) Se non veniva risolto quello, non si sarebbe riusciti a trovare una soluzione al conflitto e a firmare un accordo con la Siria».
Ma, una volta di più, il primo ministro non dà ascolto a nessuno.
Una volta di più fallirà - e il libro di Charles Enderlin ci fornisce alcune rivelazioni sulla sua responsabilità personale in questo fiasco.
Denis Ross, il negoziatore speciale americano per il Medioriente, poco sospetto di simpatie filo-arabe, spiegherà: «I siriani facevano progressi su tutti i temi in discussione, e Barak non si muoveva di un millimetro».
Criminale di pace Quando riprendono le conversazioni con i palestinesi, nella primavera 2000, il capo del governo ha già perso quasi un anno, la sua maggioranza si è sfaldata, la diffidenza dell'Anp e del popolo palestinese si è rafforzata. A quel punto, decide di forzare la mano al destino, di imporre un vertice per risolvere in un colpo solo tutti i problemi ancora in sospeso. Un'offerta sincera? Un bluff? La volontà di intrappolare l'Anp e di renderla responsabile di un fallimento? La leadership palestinese è più che riluttante: spiega che bisogna preparare il terreno affinché un incontro tra Barak e Arafat sia veramente fruttuoso, e che un vertice improvvisato rischia di portare a un disastro. Niente da fare.
Barak ha convinto Clinton, il cui secondo mandato presidenziale è ormai prossimo alla scadenza, a concludere la sua carriera con una iniziativa clamorosa. I due uomini si sono incontrati per la prima volta il 15 luglio 1999 - e secondo Charles Enderlin fu amore a prima vista. Il presidente americano scopre di provare «grande ammirazione per questo generale». Dirà anche: «Mi sento come un bambino che ha appena ricevuto un nuovo giocattolo». Questa connivenza peserà molto sul vertice di Camp David. Malgrado i suoi sforzi, il presidente americano si sentirà sempre più vicino al primo ministro israeliano che ad Arafat. Gli viene istintivo comprendere il punto di vista israeliano, accettarlo, farsene egli stesso portavoce.
Un lungo capitolo del libro di Charles Enderlin è dedicato all'incontro di Camp David. Si vive insieme ai partecipanti. Si possono seguire le discussioni all'interno di ognuna delle tre delegazioni. Ma è stato veramente un vertice? Barak rifiuta di trattare direttamente con Arafat, non lo vedrà mai faccia a faccia. Due anni dopo, tenta di giustificare questo atteggiamento inconcepibile: «Forse che Nixon ha incontrato Ho Chi Minh o Giap (prima di firmare l'accordo di pace sul Vietnam)? Forse che de Gaulle ha mai parlato a Ben Bella?» (5) Ma né Nixon né de Gaulle avevano preteso un incontro al vertice con i loro avversari. Il disprezzo così ostentato nei confronti di Arafat alimenterà i sospetti dei palestinesi.
Al di là delle peripezie di quindici giorni vissuti a porte chiuse, molto istruttivi, il resoconto di Charles Enderlin conferma che «in nessun momento Arafat si è visto proporre lo Stato palestinese su oltre il 91% della Cisgiordania, e questo senza che mai gli sia stata riconosciuta piena sovranità sui quartieri arabi di Gerusalemme e su Haram al-Sharif/il monte del Tempio». E, prosegue il giornalista, «a differenza di quanto affermano certe organizzazioni ebraiche, i negoziatori palestinesi non hanno mai preteso il ritorno in Israele di tre milioni di rifugiati. Le cifre discusse durante i colloqui variavano da qualche centinaia a qualche migliaia di palestinesi, autorizzati a tornare con l'autorizzazione di Israele».
Il presidente dell'Autorità palestinese ha già spiegato al presidente americano, il 15 giugno 2000 a Washington: «Certo, esiste la risoluzione 194 (dell'11 dicembre 1948, sul diritto dei rifugiati a tornare nelle loro case), ma noi dobbiamo trovare il punto di equilibrio tra le preoccupazioni demografiche degli israeliani e le nostre preoccupazioni».
Il problema dei rifugiati, confermano Robert Malley e Hussein Agha, «è stato discusso appena dalle due parti (6)» durante il vertice.
Alla conferenza stampa svoltasi alla conclusione del vertice, Barak attribuirà il fallimento alle divergenze sullo status di Gerusalemme, prima di cambiare la sua versione dei fatti e porre l'accento sul problema dei rifugiati.
Camp David, quindi, si è concluso senza un accordo. Ma non era la fine del mondo. Erano stati comunque fatti dei passi avanti, erano stati infranti dei tabù - sullo status di Gerusalemme, da parte degli israeliani che per la prima volta prevedevano una qualche forma di divisione; da parte dei palestinesi, che ammettevano che certi territori della Cisgiordania o di Gerusalemme est, con una forte presenza di coloni, avrebbero potuto essere annessi da Israele.
Ma, invece di lavorare con spirito costruttivo sui risultati acquisiti, il primo ministro israeliano scarica sul presidente palestinese la responsabilità dell'insuccesso, e soprattutto comincia a far suo il vecchio slogan della destra: non c'è un interlocutore, nel campo palestinese. Rilanciata alla grande dalla stampa e dai media, questa tesi si rafforzerà fino a dettar legge. E Barak a quel punto si dedicherà tutto a un unico compito, rivelare «il vero volto» di Arafat. Non tratta più per avere successo, ma piuttosto per dimostrare che il successo è impossibile.
Naturalmente, le trattative sono continuate, soprattutto durante l'incontro di Taba, in Egitto, nel gennaio 2001. Hanno permesso di riavvicinare le posizioni sulla maggior parte dei problemi in discussione, sia territoriali che relativi alla divisione di sovranità a Gerusalemme est - secondo il principio che i quartieri arabi saranno integrati nello stato palestinese, i quartieri ebraici saranno annessi da Israele.
Anche sulla questione dei rifugiati, i delegati israeliani avevano presentato proposte innovatrici (7). Ma rappresentavano veramente le posizioni di Barak? Il fatto è che Barak non le ha mai avallate.
D'altronde, Menahem Klein, consigliere dell'ex ministro israeliano degli affari esteri Shlomo Ben Ami, ha ammesso di recente che Barak gli aveva detto di avere inviato una delegazione a Taba «esclusivamente per rivelare il vero volto di Arafat, e non per concludere un accordo (8)». In realtà, il capo del governo israeliano riuscirà a convincere la sua opinione pubblica che ormai si tratta di «o noi o loro». Così facendo, infliggerà un colpo mortale al campo della pace - Uri Avnery, vecchio militante pacifista israeliano, definirà con ragione Barak «un criminale di pace».
Charles Enderlin si guarda bene dall'esonerare i leader palestinesi da ogni responsabilità. Arafat è spesso incapace di assumere decisioni e di tagliare i nodi. Sottovaluta completamente i rischi di una vittoria della destra alle elezioni del febbraio 2001 e accorda un credito ingiustificato alla nuova amministrazione americana. Soprattutto, si rivela incapace di comprendere i movimenti profondi dell'opinione pubblica israeliana e di formulare un programma chiaro, in particolare dopo lo scoppio della seconda Intifada.
Charles Enderlin smentisce categoricamente l'idea secondo cui sarebbe stata la leadership palestinese a pianificare la rivolta, valutazione condivisa dal collega Georges Malbrunot, nel suo libro documentatissimo sull'Intifada Des pierres aux fusils (9). Quest'ultimo cita Saeb Erekat che, rivolgendosi ai responsabili dei servizi di sicurezza - alcune settimane prima dello scoppio dell'Intifada - dichiara a Gerico: «Camp David è fallito, ma è necessario salvare i risultati acquisiti. I negoziati continuano, e vi sono reali probabilità di successo (...) Nelle settimane a venire, dovete prevenire gli attriti che potrebbero portare a uno scontro violento».
È già troppo tardi. L'Autorità deve far fronte alla rivolta del popolo palestinese, che vuole la fine immediata dell'occupazione. È opportuno ricordare che ci vorranno ancora molte settimane prima che l'Intifada si militarizzi, in risposta alla repressione dell'esercito di cui Georges Malbrunot ci ricorda alcune cifre: «204 palestinesi sono stati uccisi dai soldati israeliani tra il 28 settembre e il 2 dicembre, fra cui 73 ragazzi sotto i 17 anni e 24 membri del servizio di sicurezza.
Non potevamo perdere dieci ragazzi al giorno, il costo umano era troppo elevato. Bisognava passare ad un'altra strategia», sottolineano all'unisono i responsabili palestinesi.
Il trattato di Oslo è ormai morto e sepolto. Si discuterà ancora a lungo sulle cause di questo decesso, sulle responsabilità personali degli uni e degli altri. Ma la pace è fallita soprattutto perché la potenza occupante, Israele - sia il governo che una parte importante dell'opinione pubblica - è stata incapace di riconoscere l'Altro, il palestinese, come suo pari. I diritti dei palestinesi alla dignità, alla libertà, alla sicurezza, all'indipendenza, sono sempre stati subordinati ai diritti degli israeliani. Per andare avanti, un giorno dovrà pur finire questa visione colonialista, di cui Barak è diventato ormai il portavoce.
In un recente colloquio, in cui sostiene la strategia del terrore di Sharon, e in particolare l'operazione Muraglia di difesa dell'aprile scorso - anzi l'avrebbe voluta «più energica, più rapida e lanciata contemporaneamente contro tutte le grandi città» - Barak svela il suo «vero volto». Parla degli arabi: «Sono il prodotto di una cultura in cui dire una menzogna non pone alcun problema (creates no dissonance).
Non soffrono a mentire, come avviene nella cultura giudaico-cristiana.
La verità per loro è una categoria irrilevante».
Questa visione essenzialista, che pone sotto accusa un'intera cultura, ricorda l'ossessione razzista che propagandavano le autorità francesi in Algeria e di cui si faceva cantore Camille Brunel, autore colonialista degli inizi del XX secolo: «Un ufficiale francese aveva lasciata salva la vita a un ribelle arabo che, peraltro, aveva meritato cento volte la morte. E l'altro gli fece questo discorso: sono tuo debitore; come ringraziamento, ti do questo consiglio, che non dovrai mai dimenticare, perché ti sarà sempre utile fra la mia gente: "Non fidarti mai di un arabo, neppure di me" (10)».
note:
(1) Charles Enderlin, Le rêve brisé. Histoire de l'échec du processus de paix du Proche-Orient. 1995-2002, Fayard, Parigi 2002, 366 pagine.
Salvo diversa indicazione, le citazioni sono tratte da tale libro.
(2) Si legga in particolare, Robert Malley e Hussein Agha, New York Review of Books, 9 agosto 2001. Uno dei primi resoconto che contestano la visione dominante di Camp David era stato scritto da Amnon Kapeliouk: «Parto difficile per l'indipendenza palestinese». Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2000. Si legga anche «Camp David, le ragioni di un fallimento», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2002.
(3) Citato da Michel Warschawski, Sur la frontière, Stock, Parigi 2002, p. 230.
(4) New York Review of Books, 13 giugno 2002.
(5) Ibidem.
(6) Ibidem, risposta di Robert Malley, che ha partecipato al vertice come consigliere del presidente Clinton.
(7) Per le trattative di Taba, si legga Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2001.
(8) Haaretz, 2 maggio 2002.
(9) Georges Malbrunot, Des pierres aux fusils. Les secrets de l'Intifada, Flammarion, Parigi, 2002.
(10) Citato da Alain Ruscio, Le Credo de l'homme blanc, Complee, Bruxelles, p. 63.
la teoria della "generosa offerta" è uno dei numerosi falsi storici dati in pasto alla massa. Fu barak a procastinare innumerevoli volte le trattative privileggiando la ricerca di un'accordo con la Siria. Torna alle trattative nel luglio 2000 ( già in odore di elezioni) sotto auspicio di Clinton (ibidem).
le questioni che fecero fallire l'accordo furono la frammentazioni a cui erano sottoposti i territori a controllo palestinese, il rifiuto di ritiro da gerusalemme est, il mancato smantellamento degli insediamenti ebraici, le condizioni capestro per quanto riguarda le risorse, l'acqua, i rifugiati ecc.
Per quanto riguarda le percentuali si parla di un 40% della West Bank e un 75% sulla striscia di gaza (naturalmente controllo amministrativo) ma le percentuali sono superficiali come detto si parla di territori scollegati.
appunto gli accordi si fanno a due. Se l'interlocutore non ha la minima affidabilità che accordi pensi che si possano fare? Gli interlocutori affidabili (Abu Mazen) non hanno sufficiente potere, quelli che hanno potere (Hamas) non hanno la minima credibilità. Come si può negoziare con qualcuno che parte dal presupposto di cancellare Isreaele?
E come mai i Palestinesi si sono buttati nella braccia di Hamas? La maggioranza è formata da pazzi suicidi irragionevoli? O forse il comportamento di Israele fornisce qualche motivazione?
Gli interlocutori affidabili sono solo quelli che sceglie Israele?
Come no, ben vengano. Inizia ad elencarne qualcuna e vediamo...
Generalmente ci si mette intorno ad un tavolo, si ascoltano le proposte reciproche e si comincia a negoziare. Spesso però bisogna fare rinunce dolorose. Se le proposte sono come quelle di Camp David la strada è lunga.
Comunque per fare un elenco, eccolo qua:
La Linea Verde sarà il confine tra i due nuovi stati con eventuali scambi di territorio 1:1.
Tutte le colonie devono essere evacuate e smantellate.
I confini tra i due Stati saranno aperti al passaggio di beni e persone.
Gerusalemme sarà la capitale dei due stati. Gerusalemme Est sarà la capitale Palestinese, Gerusalemme Ovest quella Israeliana.
Garantito il ritorno dei profughi o attraverso accordi un'indennizzo in denaro.
L'acqua verrà cogestita dai due stati.
Elenco tratto da qua, punto numero 100:
http://www.gush-shalom.org/Docs/Truth_Eng.pdf
Intanto era la striscia di gaza e il 97% della cisgiordania. La proposta era dell'amministrazione USA e non di Israele, i dettagli su quel 3% erano ben lontani dall'essere discussi. Cosa c'entri la questione lewinski con tutto questo, a parte un forse maldestro tentativo di voler screditare le parole di Clinton senza minimamente considerarle nel merito lo sai solo tu. A quanto pare per te comunque i compromessi li dovrebbe accettare solo Israele.
Allora riguardo le percentuali ti invito a guardare la cartina del 1949 e quella del 1967 e fare il conto di quanto hanno già ceduto i Palestinesi. I compromessi li avevano già accettati da un pezzo.
La striscia di Gaza non sarebbe stata restituita integralmente.
Tornando a Clinton, vorrei che mi spiegassi da cosa si evince che si tratta di un testimone imparziale e non come qualcuno che ha riportato una sua impressione, che come tale è questionabile. Gli USA sono sempre stati filoisraeliani garantendo sempre un incondizionato appoggio e sotto l'amministrazione Clinton non mi pare ci fosse un'atmosfera diversa. In base a cosa improvvisamente sarebbero diventati equidistanti? Il link sopra riporta anche una versione "diversa" dell'incontro di Camp David e dell'atteggiamento di Clinton.
Israele si ritira dalla striscia di gaza e non ti va bene nemmeno questo. Che devono fare cancellarsi dalle mappe per farti contento?
I palestinesi non saranno mai liberi fintanto che si affideranno ad Hamas e a gruppi fondamentalisti che vogliono lo scontro con Israele. Quanto all'articolo non si capisce bene il nesso con la questione di Gaza visto che parla del conflitto con gli Hezbollah.
Se mi spieghi in cosa il ritiro da Gaza ha cambiato la situazione in meglio per i Palestinesi e non è stato un semplice modo per Israele per controllare il territorio senza l'impiccio delle colonie, forse riesco a capire anch'io.
I Palestinesi non saranno mai liberi fino a quando le concessioni saranno solo quelle decise da Israele senza confronto.
Il nesso riguarda che la risposta di Israele è sempre e solo militare senza curarsi delle conseguenze e del fatto che in 60 anni alla fine ci si è sempre ritrovati al punto di partenza, guerra e ancora guerra, senza che cambi alcunché.
Tornando a Clinton, vorrei che mi spiegassi da cosa si evince che si tratta di un testimone imparziale e non come qualcuno che ha riportato una sua impressione, che come tale è questionabile. Gli USA sono sempre stati filoisraeliani garantendo sempre un incondizionato appoggio e sotto l'amministrazione Clinton non mi pare ci fosse un'atmosfera diversa. In base a cosa improvvisamente sarebbero diventati equidistanti?
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quando mai?
Quando riprendono le conversazioni con i palestinesi, nella primavera 2000, il capo del governo ha già perso quasi un anno, la sua maggioranza si è sfaldata, la diffidenza dell'Anp e del popolo palestinese si è rafforzata. A quel punto, decide di forzare la mano al destino, di imporre un vertice per risolvere in un colpo solo tutti i problemi ancora in sospeso. Un'offerta sincera? Un bluff? La volontà di intrappolare l'Anp e di renderla responsabile di un fallimento? La leadership palestinese è più che riluttante: spiega che bisogna preparare il terreno affinché un incontro tra Barak e Arafat sia veramente fruttuoso, e che un vertice improvvisato rischia di portare a un disastro. Niente da fare.
Barak ha convinto Clinton, il cui secondo mandato presidenziale è ormai prossimo alla scadenza, a concludere la sua carriera con una iniziativa clamorosa. I due uomini si sono incontrati per la prima volta il 15 luglio 1999 - e secondo Charles Enderlin fu amore a prima vista. Il presidente americano scopre di provare «grande ammirazione per questo generale». Dirà anche: «Mi sento come un bambino che ha appena ricevuto un nuovo giocattolo». Questa connivenza peserà molto sul vertice di Camp David. Malgrado i suoi sforzi, il presidente americano si sentirà sempre più vicino al primo ministro israeliano che ad Arafat. Gli viene istintivo comprendere il punto di vista israeliano, accettarlo, farsene egli stesso portavoce
tratto dall'articolo di qualche post sopra.
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