Fritz!
05-03-2008, 13:09
CARLO BASTASIN
Silvio Berlusconi ha espresso ieri in termini molto chiari la sua proposta concreta di governo: proteggere la parte di economia che sta a cuore ai propri elettori e liberalizzare quella che sta a cuore agli elettori dell’avversario. Questa risposta alla globalizzazione, che si può definire «protezionismo di parte», è sorpassata e rischiosa. Tipica infatti dei Paesi le cui economie sono cresciute di meno dagli Anni Novanta e che hanno paura di aprire economia e società agli stimoli della concorrenza. Ieri Berlusconi ha descritto con un esempio lampante il «protezionismo di destra»: abolire o riscrivere lo Statuto dei lavoratori, ma salvare imprese nazionali, come Malpensa e Alitalia, a costo di perdere denaro pubblico.
Questo tipo di risposta alla globalizzazione non funziona. È figlia infatti di un mondo che non esiste più, in cui capitale e lavoro sono ancora nettamente distinti e in cui i confini nazionali sono chiusi. Inoltre è destinata a lacerare il Paese anziché mobilitarne il consenso per le riforme. È lo stesso errore che sta commettendo Nicolas Sarkozy, pur con minori inclinazioni stataliste, e che ne sta facendo arenare la spinta riformista e crollare il consenso. Anche nel suo ultimo governo, Berlusconi seguì lo stesso schema: riuscì a liberalizzare il mercato del lavoro con la Legge Biagi.
Ma dall’altro lato si sforzò di proteggere le imprese, rinunciando alle privatizzazioni, mancando di liberalizzare i mercati dei prodotti, dei servizi e degli assetti proprietari, fino a costruire la più dannosa delle barriere protettive del capitale nazionale: la depenalizzazione del falso in bilancio di fronte alla quale qualsiasi investitore è costretto a pensarci due volte prima di appropriarsi di una società italiana.
Esiste ovviamente anche un «protezionismo di sinistra» che, come nell’ultimo governo, liberalizza servizi e mercati dei prodotti, ma protegge i diritti dei lavoratori irrigidendo il mercato e arretrando nelle riforme sociali. E Veltroni deve ancora dimostrare, al di là delle candidature affiancate di operai e imprenditori, di sapersene affrancare davvero e di aver colto la lezione del riformismo a tutto campo. Tuttavia le proposte di Berlusconi di ieri sul salvataggio a ogni costo di Alitalia e di Malpensa rappresentano un perfezionamento perverso del protezionismo di parte. In questo caso infatti si tutelano quasi al chilometro le constituency elettorali degli alleati: la Lega con Malpensa e Alleanza Nazionale con la compagnia di bandiera.
Sul Corriere Giavazzi ha sintetizzato criticamente il programma del Popolo della Libertà in termini inquietanti: «Dazi e quote per difendere le nostre produzioni dalla concorrenza asiatica e protezione delle nostre industrie e dei nostri capannoni». In filigrana si riconosce la filosofia «dei rischi e della chiusura» di Giulio Tremonti, a cui infatti Berlusconi intende affidare il ministero dell’Economia. Tutti i Paesi europei che si sviluppano più rapidamente fanno invece dell’apertura, non della chiusura, il loro punto di forza. In Svezia e Gran Bretagna, due dei Paesi meglio funzionanti in Europa, pur diversissimi politicamente, oltre metà degli investimenti in tecnologia che ne spingono lo sviluppo sono portati da capitali stranieri. Non a caso sono anche i due Paesi in cui gli immigrati si integrano meglio. Il Belgio, che è riuscito a riequilibrare conti pubblici un tempo peggiori di quelli italiani, ha vincolato gli aumenti salariali nazionali ai divari di produttività rispetto ai Paesi vicini, delegando dunque perfino parte della propria sovranità salariale. La Germania è riuscita a ripartire con eccezionale vigore grazie al fatto di aver «aperto» quasi contemporaneamente sia il mercato del lavoro sia gli assetti proprietari delle imprese e delle banche, dopo decenni di protezionismo corporativo di sindacati e capitalisti. Oggi le imprese tedesche non assumono più lavoratori dequalificati, bensì laureati con stipendi elevati.
Alcune migliaia di imprese italiane sono già riuscite ad agganciare lo sviluppo globale. Le statistiche sull’andamento dei profitti mostrano grandi oscillazioni che testimoniano che il processo di «distruzione creativa», attraverso cui le imprese più capaci prevalgono su quelle che non reggono la concorrenza, è in corso. L’andamento della crescita economica e dell’export italiano degli ultimi due anni testimonia che il processo, benché doloroso, è benefico per l’intero Paese. Fermarlo per dar retta alla retorica della «chiusura protettiva» e per raccogliere così consenso elettorale di breve termine, è una garanzia di declino per asfissia del Paese e una colpa imperdonabile per una forza politica che si pretende liberale.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=4239&ID_sezione=&sezione=
Silvio Berlusconi ha espresso ieri in termini molto chiari la sua proposta concreta di governo: proteggere la parte di economia che sta a cuore ai propri elettori e liberalizzare quella che sta a cuore agli elettori dell’avversario. Questa risposta alla globalizzazione, che si può definire «protezionismo di parte», è sorpassata e rischiosa. Tipica infatti dei Paesi le cui economie sono cresciute di meno dagli Anni Novanta e che hanno paura di aprire economia e società agli stimoli della concorrenza. Ieri Berlusconi ha descritto con un esempio lampante il «protezionismo di destra»: abolire o riscrivere lo Statuto dei lavoratori, ma salvare imprese nazionali, come Malpensa e Alitalia, a costo di perdere denaro pubblico.
Questo tipo di risposta alla globalizzazione non funziona. È figlia infatti di un mondo che non esiste più, in cui capitale e lavoro sono ancora nettamente distinti e in cui i confini nazionali sono chiusi. Inoltre è destinata a lacerare il Paese anziché mobilitarne il consenso per le riforme. È lo stesso errore che sta commettendo Nicolas Sarkozy, pur con minori inclinazioni stataliste, e che ne sta facendo arenare la spinta riformista e crollare il consenso. Anche nel suo ultimo governo, Berlusconi seguì lo stesso schema: riuscì a liberalizzare il mercato del lavoro con la Legge Biagi.
Ma dall’altro lato si sforzò di proteggere le imprese, rinunciando alle privatizzazioni, mancando di liberalizzare i mercati dei prodotti, dei servizi e degli assetti proprietari, fino a costruire la più dannosa delle barriere protettive del capitale nazionale: la depenalizzazione del falso in bilancio di fronte alla quale qualsiasi investitore è costretto a pensarci due volte prima di appropriarsi di una società italiana.
Esiste ovviamente anche un «protezionismo di sinistra» che, come nell’ultimo governo, liberalizza servizi e mercati dei prodotti, ma protegge i diritti dei lavoratori irrigidendo il mercato e arretrando nelle riforme sociali. E Veltroni deve ancora dimostrare, al di là delle candidature affiancate di operai e imprenditori, di sapersene affrancare davvero e di aver colto la lezione del riformismo a tutto campo. Tuttavia le proposte di Berlusconi di ieri sul salvataggio a ogni costo di Alitalia e di Malpensa rappresentano un perfezionamento perverso del protezionismo di parte. In questo caso infatti si tutelano quasi al chilometro le constituency elettorali degli alleati: la Lega con Malpensa e Alleanza Nazionale con la compagnia di bandiera.
Sul Corriere Giavazzi ha sintetizzato criticamente il programma del Popolo della Libertà in termini inquietanti: «Dazi e quote per difendere le nostre produzioni dalla concorrenza asiatica e protezione delle nostre industrie e dei nostri capannoni». In filigrana si riconosce la filosofia «dei rischi e della chiusura» di Giulio Tremonti, a cui infatti Berlusconi intende affidare il ministero dell’Economia. Tutti i Paesi europei che si sviluppano più rapidamente fanno invece dell’apertura, non della chiusura, il loro punto di forza. In Svezia e Gran Bretagna, due dei Paesi meglio funzionanti in Europa, pur diversissimi politicamente, oltre metà degli investimenti in tecnologia che ne spingono lo sviluppo sono portati da capitali stranieri. Non a caso sono anche i due Paesi in cui gli immigrati si integrano meglio. Il Belgio, che è riuscito a riequilibrare conti pubblici un tempo peggiori di quelli italiani, ha vincolato gli aumenti salariali nazionali ai divari di produttività rispetto ai Paesi vicini, delegando dunque perfino parte della propria sovranità salariale. La Germania è riuscita a ripartire con eccezionale vigore grazie al fatto di aver «aperto» quasi contemporaneamente sia il mercato del lavoro sia gli assetti proprietari delle imprese e delle banche, dopo decenni di protezionismo corporativo di sindacati e capitalisti. Oggi le imprese tedesche non assumono più lavoratori dequalificati, bensì laureati con stipendi elevati.
Alcune migliaia di imprese italiane sono già riuscite ad agganciare lo sviluppo globale. Le statistiche sull’andamento dei profitti mostrano grandi oscillazioni che testimoniano che il processo di «distruzione creativa», attraverso cui le imprese più capaci prevalgono su quelle che non reggono la concorrenza, è in corso. L’andamento della crescita economica e dell’export italiano degli ultimi due anni testimonia che il processo, benché doloroso, è benefico per l’intero Paese. Fermarlo per dar retta alla retorica della «chiusura protettiva» e per raccogliere così consenso elettorale di breve termine, è una garanzia di declino per asfissia del Paese e una colpa imperdonabile per una forza politica che si pretende liberale.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=4239&ID_sezione=&sezione=