easyand
16-02-2008, 12:11
Al-Anbar(La Stampa) «Siamo in crisi. Nelle nostre file domina il panico». Nella guerra dell’Iraq, «questa è una fase straordinaria». Lo scrivono due leader di Al Qaeda, e l’altro ieri i comandanti americani hanno mostrato le loro lettere ai giornalisti come trofei di battaglia. Parlano di defezioni di massa, dicono che molti sono passati nell’esercito americano. Il quotidiano britannico «Times» spiega che le lettere sono state recuperate dai soldati Usa in due raid diversi, uno nella scorsa primavera e l’altro a novembre. La prima è di Abu Tariq, emiro delle aree di al Layin e al Mashahdah, comandante di Al Qaeda, che avrebbe smarrito una sorta di testamento lungo 16 pagine, ritrovato dalle forze statunitensi in un blitz vicino a Balad, a Nord di Baghdad: «C’erano almeno 600 combattenti nel nostro settore prima che le tribù cambiassero la loro linea di 360 gradi. Molti dei nostri militanti se ne sono andati e qualcuno di loro ha finito per disertare. Adesso saremo rimasti una ventina di persone».
L’altro documento, di 39 pagine, è stato recuperato nei pressi di Samarra, in una base di Al Qaeda. Lo firma un emiro di al Anbar, ed è una sorta di testamento: «Lo Stato islamico sta affrontando una crisi straordinaria, specialmente nella nostra provincia. L’espulsione di Al Qaeda da al Anbar ha provocato debolezza e una defezione psicologica tra le nostre truppe. C’è un clima di panico, ed è diminuita la voglia di combattere. Il morale dei combattenti è basso, e molti di loro preferiscono essere trasferiti in posti amministrativi piuttosto che restare in prima linea. L’effetto è un collasso totale nella nostra struttura».
Se è tutto vero, è una grande notizia. Il portavoce dell’esercito americano, Gregory Smith, giura sull’autenticità di questi documenti e ieri ne ha mostrato anche alcuni estratti ai giornalisti. Che le forze di Al Qaeda stiano attraversando un momento di crisi, è probabilmente vero. Che però non siano del tutto allo sbando e che la guerra sia ancora lunga, lo è forse altrettanto. Come in parte dimostrato da altre due notizie. Proprio ieri, il segretario Usa alla Difesa, Gates, ha parlato di una pausa nel programma di parziale ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Entro luglio dovrebbero rientrare 5 brigate su 20, circa 30 mila uomini. Gates ha fatto capire che forse non sarebbe il caso. Poi è vero, come ha detto il generale Abdul Kharim Khalaf, direttore delle operazioni del Ministero dell’Interno iracheno, che «Al Qaeda in Iraq per noi è ormai un libro aperto, perché siamo riusciti a mettere in piedi un apparato di intelligence capace di penetrarlo», ma, allo stesso modo, sui «registri di Sinjar», nei file trovati durante un raid in autunno, si è scoperto che gli stranieri arrivati a combattere tra l’ottobre del 2006 e del 2007 sono stati più di 700, fra i quali 244 sauditi, 112 libici, 49 siriani, 48 yemeniti, 43 algerini, 36 marocchini. Molti disertano, ma altri arrivano.
D’altro canto, il principale blocco sunnita - il Fronte della concordia - ha appena deciso di rientrare nel governo guidato dallo sciita Nouri al Maliki, dopo aver ricevuto garanzie di un aumento del livello di sicurezza nel Paese. Che Al Qaeda abbia rapporti sempre più difficili con i sunniti sembra una realtà incontestabile. Nella sua lettera, Abu Tariq spiega che più di 80 mila sunniti si sono messi insieme ai «concerned local citizens», creando una forza che ha contribuito a espellere Al Qaeda da quelle zone. E l’emiro di Anbar riconosce che gli americani hanno guadagnato consensi «persuadendo i combattenti sunniti che Al Qaeda era responsabile delle loro sofferenze, togliendoli dalla povertà e inserendoli nelle forze di sicurezza». Definisce i sunniti «un cancro» e sentenzia che «non dovremo avere nessuna pietà di loro».
Aggiunge che il reclutamento degli stranieri è diminuito e che «è sempre più difficile fare opera di proselitismo» nelle aree tribali. «I kamikaze sono diventati sempre più disillusi. Qualcuno ha smesso, qualcuno è tornato a casa». La soluzione, dice, potrebbe essere quella di spostare i combattimenti «verso aree come le province di Diyala e Baghdad» (e in effetti è proprio quello che sta succedendo). Abu Tariq, invece, fa un quadro desolante delle sue truppe: «La maggior parte dei soldati del 1° Battaglione ci ha traditi. Il leader del secondo se n’è andato e quasi tutti i suoi 300 uomini hanno disertato. Il terzo non combatte. Nel quarto, molti sono non credenti, quindi felloni non affidabili». In una lista ha segnato le 38 persone che lavorano ancora per lui. Ma sotto 5 nomi ha scritto: questo no, «questo ci ha lasciato una settimana fa», «questo non lo vedo più da 20 giorni». Ecco, dice, «tutti quelli che ho sono questi».
L’altro documento, di 39 pagine, è stato recuperato nei pressi di Samarra, in una base di Al Qaeda. Lo firma un emiro di al Anbar, ed è una sorta di testamento: «Lo Stato islamico sta affrontando una crisi straordinaria, specialmente nella nostra provincia. L’espulsione di Al Qaeda da al Anbar ha provocato debolezza e una defezione psicologica tra le nostre truppe. C’è un clima di panico, ed è diminuita la voglia di combattere. Il morale dei combattenti è basso, e molti di loro preferiscono essere trasferiti in posti amministrativi piuttosto che restare in prima linea. L’effetto è un collasso totale nella nostra struttura».
Se è tutto vero, è una grande notizia. Il portavoce dell’esercito americano, Gregory Smith, giura sull’autenticità di questi documenti e ieri ne ha mostrato anche alcuni estratti ai giornalisti. Che le forze di Al Qaeda stiano attraversando un momento di crisi, è probabilmente vero. Che però non siano del tutto allo sbando e che la guerra sia ancora lunga, lo è forse altrettanto. Come in parte dimostrato da altre due notizie. Proprio ieri, il segretario Usa alla Difesa, Gates, ha parlato di una pausa nel programma di parziale ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Entro luglio dovrebbero rientrare 5 brigate su 20, circa 30 mila uomini. Gates ha fatto capire che forse non sarebbe il caso. Poi è vero, come ha detto il generale Abdul Kharim Khalaf, direttore delle operazioni del Ministero dell’Interno iracheno, che «Al Qaeda in Iraq per noi è ormai un libro aperto, perché siamo riusciti a mettere in piedi un apparato di intelligence capace di penetrarlo», ma, allo stesso modo, sui «registri di Sinjar», nei file trovati durante un raid in autunno, si è scoperto che gli stranieri arrivati a combattere tra l’ottobre del 2006 e del 2007 sono stati più di 700, fra i quali 244 sauditi, 112 libici, 49 siriani, 48 yemeniti, 43 algerini, 36 marocchini. Molti disertano, ma altri arrivano.
D’altro canto, il principale blocco sunnita - il Fronte della concordia - ha appena deciso di rientrare nel governo guidato dallo sciita Nouri al Maliki, dopo aver ricevuto garanzie di un aumento del livello di sicurezza nel Paese. Che Al Qaeda abbia rapporti sempre più difficili con i sunniti sembra una realtà incontestabile. Nella sua lettera, Abu Tariq spiega che più di 80 mila sunniti si sono messi insieme ai «concerned local citizens», creando una forza che ha contribuito a espellere Al Qaeda da quelle zone. E l’emiro di Anbar riconosce che gli americani hanno guadagnato consensi «persuadendo i combattenti sunniti che Al Qaeda era responsabile delle loro sofferenze, togliendoli dalla povertà e inserendoli nelle forze di sicurezza». Definisce i sunniti «un cancro» e sentenzia che «non dovremo avere nessuna pietà di loro».
Aggiunge che il reclutamento degli stranieri è diminuito e che «è sempre più difficile fare opera di proselitismo» nelle aree tribali. «I kamikaze sono diventati sempre più disillusi. Qualcuno ha smesso, qualcuno è tornato a casa». La soluzione, dice, potrebbe essere quella di spostare i combattimenti «verso aree come le province di Diyala e Baghdad» (e in effetti è proprio quello che sta succedendo). Abu Tariq, invece, fa un quadro desolante delle sue truppe: «La maggior parte dei soldati del 1° Battaglione ci ha traditi. Il leader del secondo se n’è andato e quasi tutti i suoi 300 uomini hanno disertato. Il terzo non combatte. Nel quarto, molti sono non credenti, quindi felloni non affidabili». In una lista ha segnato le 38 persone che lavorano ancora per lui. Ma sotto 5 nomi ha scritto: questo no, «questo ci ha lasciato una settimana fa», «questo non lo vedo più da 20 giorni». Ecco, dice, «tutti quelli che ho sono questi».