Un chip in grafene nella testa per aiutare le persone con il Parkinson

La spagnola Inbrain Neuroelectronics ha creato una BCI in grafene che può aiutare i malati di Parkinson a gestire meglio la malattia. Il chip sarà sperimentato su pazienti umani per la resezione di tumori cerebrali, per poi puntare a usi più complessi.
di Manolo De Agostini pubblicata il 23 Luglio 2024, alle 11:01 nel canale Scienza e tecnologiaUna startup di Barcellona, Inbrain Neuroelectronics, ha creato un'interfaccia cervello-computer, meglio nota come BCI (brain-computer interface), sfruttando il "materiale delle meraviglie", ovvero il grafene. La startup punta a realizzare i primi test clinici su pazienti umani nel corso dell'estate.
Ne parla IEEE Spectrum, spiegando che a differenza di soluzioni come quella di Neuralink o Synchron, "Inbrain intende trasformare la sua tecnologia BCI in uno strumento terapeutico per i pazienti con problemi neurologici come il morbo di Parkinson".
L'uso del grafene permette all'interfaccia neurale di essere utilizzata sia per registrare che per stimolare il cervello. "La bidirezionalità è il risultato della risoluzione di un problema fondamentale dei chip metallici tipicamente usati nelle BCI: le reazioni faradiche", spiega IEEE Spectrum.
Le reazioni faradiche sono un particolare tipo di processo elettrochimico che si verifica tra un elettrodo metallico e una soluzione elettrolitica; il tessuto neurale è composto in gran parte da elettroliti acquosi. Con il tempo, le reazioni faradiche riducono l'efficacia dei chip metallici.
Carolina Aguilar, CEO e cofondatrice di Inbrain, ha spiegato che questi problemi non interessano il grafene, poiché si tratta essenzialmente di carbonio. "Il chip può iniettare 200 volte più carica senza creare una reazione faradica. Di conseguenza, il materiale è stabile per i milioni di impulsi di stimolazione richiesti da uno strumento terapeutico", ha spiegato al portale.
Sebbene Inbrain non stia ancora testando il chip per la stimolazione cerebrale, l'azienda prevede di raggiungere questo obiettivo in futuro. Al momento, Inbrain produce un chip dello spessore di 10 micrometri costituito da "punti di grafene" (da non confondere con i punti quantici di grafene) di dimensioni comprese tra 25 e 300 micrometri. "Questa scala micrometrica ci permette di ottenere una risoluzione unica nella decodifica dei segnali cerebrali e ci fornisce anche una stimolazione o modulazione micrometrica del cervello", ha aggiunto Aguilar.
Il primo test su un paziente umano sarà presto effettuato all'Università di Manchester, dove servirà da interfaccia durante la resezione di un tumore al cervello. Quando asportano un tumore, i chirurghi devono assicurarsi di non danneggiare aree come i centri del linguaggio del cervello, in modo che il paziente non subisca danni dopo l'intervento.
"Il chip viene posizionato durante la resezione del tumore in modo da poter leggere, ad altissima risoluzione, i segnali che indicano al chirurgo dove c'è e dove non c'è un tumore", spiega Aguilar. I chirurghi dovrebbero quindi essere in grado di estrarre il tumore con precisione micrometrica, preservando aree funzionali come il linguaggio e la cognizione.
La stessa tecnologia potrebbe essere usata per aiutare i pazienti affetti da Parkinson. Lo scorso settembre il sistema di Inbrain ha ottenuto la Breakthrough Device Designation dalla FDA statunitense come terapia aggiuntiva per il trattamento del morbo di Parkinson.
Il chip di Inbrain si collega alla via nigrostriatale del cervello, fondamentale per i movimenti. Il chip decodifica innanzitutto il messaggio di intenzione proveniente dal cervello che attiva un passo o il sollevamento del braccio, cosa che può fare una tipica BCI. Ma il chip di Inbrain, con la sua precisione micrometrica, può anche decodificare i biomarcatori patologici legati ai sintomi del Parkinson, come tremori, rigidità e blocco dell'andatura.
Determinando questi biomarcatori con grande precisione, la tecnologia di Inbrain è in grado di determinare l'efficacia dell'attuale regime farmacologico del paziente. In questa prima iterazione del chip Inbrain non tratta direttamente i sintomi del Parkinson, ma consente invece di indirizzare meglio e ridurre la quantità di farmaci utilizzati nel trattamento.
"I pazienti affetti da Parkinson assumono quantità enormi di farmaci che devono essere cambiati nel tempo solo per tenere il passo con la crescente resistenza che sviluppano alla potenza del farmaco", ha detto Aguilar. "Siamo in grado di ridurla almeno del 50 percento e, in futuro, speriamo di ridurla ancora di più quando i nostri dispositivi diventeranno più precisi".
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