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Old 17-08-2007, 10:53   #21
Ser21
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La politica dell'inazione

di GIUSEPPE D'AVANZO

Che nessuno si stupisca, per favore. Almeno questo. Di che cosa dovremmo sorprenderci? Di aver esportato in Europa e nel mondo il nostro "lurido"? Dov'è la novità? Lungo i canali della libera circolazione europea delle merci e delle persone già si muoveva il "denaro sporco" delle nostre mafie, a miliardi di euro. Da anni lo si può leggere negli atti della magistratura; nei documenti del Parlamento; nelle analisi delle polizie e dei servizi segreti; addirittura nel lavoro degli storici.

Prima o poi doveva accadere che, per il soldo o per l'egemonia, si creasse una criticità tale da rendere necessario un paio di mitragliette calibro 9 che fanno sei morti stecchiti nel luogo in cui è opportuno farli. Ora è accaduto. Tutto qui. Era prevedibile, e previsto, che accadesse. E' accaduto a Duisburg, Germania. Poteva accadere, e non è detto che accada presto, in Olanda, Spagna, Montenegro, Colombia, Australia, Canada - e si potrebbe continuare - ovvero in tutti quei paesi dove sono presenti, con i loro uomini e interessi illegali, semi-legittimi e legittimi, le 'ndrine di Calabria, il nostro "lurido". Possono meravigliarsi i tedeschi, gli inglesi, i francesi, ma noi - noi italiani - non possiamo. Noi, con una vampata di rossore per il discredito internazionale che ce ne viene, dovremmo riflettere sulle ragioni che ci impediscono di vedere, di prendere atto, anche soltanto di discutere pubblicamente, questa patologia acuta. Dovremmo interrogarci sulla nostra incapacità di approntare anche soltanto una terapia di contenimento. E dunque la domanda è: perché la 'ndrangheta, al contrario di Hamas, non trova alcun posto nell'agenda politica? Perché non riesce a diventare né una priorità la distruzione di un'organizzazione criminale capace di controllare un terzo del traffico di cocaina del mondo con profitti per decine di miliardi di euro né un'urgenza il riscatto di una regione dove operano 112 cosche, c'è un'intensità criminale del 27 per cento (pari a una persona su quattro), con un epicentro nel Reggino di 4-5 mila affiliati su una popolazione di 576 mila abitanti?

Per aggirare o scolorire la vera questione, è al lavoro un discreto spin doctoring che confonde la scena. La strage di Duisburg non sarebbe da iscriversi a un conflitto, a una guerra tra interessi criminali, ma all'antropologia. Quel paesello dell'Aspromonte, San Luca, e forse l'intera Calabria, sarebbero prigionieri di un regime psichico primitivo che di tanto in tanto, per un nonnulla, magari per uno scherzo di Carnevale, deflagra in gesti imprevedibili, in una violenza inumana, degna di un livello ferino. La strage sarebbe nata in questa arretratezza antropologica, consigliano ambienti governativi e sembra suggerire in pubblico il ministro dell'Interno. La ricostruzione, sostengono gli investigatori più attenti, non sta in piedi. Non è uno scherzo di Carnevale a provocare la faida, ma un conflitto di interessi per il controllo del territorio e del traffico della droga a provocare quello scherzo di Carnevale, come sfida, provocazione e umiliazione dell'antagonista. Lo spinning permette però di liquidare quel che tutti sappiamo da tempo e sempre dimentichiamo fino a farci sembrare nuovissimo l'antico.

La mafia, e basta qui ripetere la lezione degli storici più che quella dei magistrati, non potrebbe esistere se non intrecciata a poteri più visibili e formalizzati: la politica, l'economia, le istituzioni. Solo queste relazioni le permettono di assumere, come in Calabria, in Sicilia e in Campania, funzioni di ordine pubblico. Le consentono di garantire ogni tipo di transazioni, di prelevare tributi, di offrire occasioni impensate di profitto e di reddito, che altrimenti in quei territori dimenticati dall'agenda dei governi non ci sarebbero. E' un protagonismo che consente alle mafie di governare i meccanismi di mercato e addirittura di condizionare la democrazia rappresentativa. Per sciogliere un nodo così serrato, non possono bastare la magistratura e le polizie e nemmeno un centinaio di arresti. L'affare è ben più serio per essere affidato ai soli schiavettoni, che pure sono necessari. Dovrebbe essere una battaglia nutrita con un costante alimento etico-politico; con un adeguato sostegno dello spirito pubblico; con il coinvolgimento di individui e gruppi, élite e popolo su obiettivi comprensibili e condivisi che possano rendere concreta la convenienza della legalità e assai fallimentare la scelta della illegalità. Non è sufficiente, in quelle regioni abbandonate dall'attenzione pubblica, l'appello alla scelta etica di ognuno e dei giovani soprattutto, come ha proposto ieri molto superficialmente Romano Prodi. Occorre offrire risposte più eque e più efficienti di quelle fornite dal sistema mafioso. Sarebbe necessaria, dunque, una politica oltre una promessa di repressione. E dov'è, nel tempo più recente, la politica, una politica? E' difficile rintracciarne la presenza, nonostante l'incomprensibile soddisfazione mostrata dal premier. E d'altronde, nel programma dell'Unione per il governo, al di là di qualche scontato luogo comune e buona intenzione non si va (18 righe in 281 pagine). In linea con il passato, la politica del governo è l'inazione ottimale.

"Inazione ottimale" fu chiamata la politica dell'Impero inglese in Oriente tra la fine del Settecento e i primi decenni dell'Ottocento a fronte delle iniziative d'aggressione all'India degli Zar e di Napoleone Bonaparte. Gli inglesi decisero che "far nulla" fosse la miglior delle politiche, la più fruttuosa.

La politica italiana, tutta la politica italiana, ha scelto l'"inazione ottimale" come nucleo essenziale delle politiche pubbliche destinate a contrastare le mafie. E' sempre più diffusa, al di là di retorica e approcci moraleggianti, la consapevolezza che "far nulla" sia la politica più efficace per tenere Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra invisibili, dipendenti, subalterne ai poteri statali, socialmente influenti ma disponibili.

"Nessuna politica pubblica", l'inazione - sembra pensare il ceto politico italiano - sollecita senza strappi la ricerca nel Mezzogiorno di un equilibrio "interno" tra politica, amministrazione, imprenditoria, burocrazie della sicurezza, interessi delle "famiglie" mafiose. Mentre, al contrario, un'azione che pretende di lasciare le mafie "nude", e quindi deboli e aggredibili, imporrebbe di affondare il bisturi, con esiti non prevedibili per il consenso, proprio in quei legacci che stringono le mafie ai poteri formalizzati della politica, dell'economia, delle istituzioni, della pubblica amministrazione. Un compito che alla politica italiana deve apparire troppo oneroso per essere affrontato. Se l'"inazione ottimale" è il "grande orizzonte" entro cui l'intero sistema politico italiano si muove nei rapporti con le mafie, chi può sorprendersi allora della strage di Duisburg e delle altre che, senza dubbio, affronteremo?
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Old 17-08-2007, 14:48   #22
Igor
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Dietro le cosche
Francesco Forgione
Presidente Commissione Antimafia


Una nuova strage di mafia nel cuore della Germania, a Duisburg, riaccende i riflettori sulla ’ndrangheta, sulla sua barbarie, sui suoi affari, sul suo ruolo internazionale che ne fanno, oggi, la più potente organizzazione criminale italiana e tra le più pericolose e ricche del mondo. Non ci fossero stati questi sei morti, col macabro rituale del colpo di grazia, e la scelta della «prima volta» fuori dal proprio territorio e dall’Italia, gli unici riflettori accesi, e di questo la ringrazio, sarebbero stati quelli de l’Unità

Il giornale che da settimane racconta la «normalità» della presenza della ’ndrangheta nella vita economico-sociale e politica della Calabria.

In queste ore di sconcerto per la barbarie di cui sono stati capaci i killer mandati dall’Aspromonte per colpire in una città industriale della Germania, non dobbiamo perdere la bussola. Siamo di fronte alla coda di una faida tra le famiglie di San Luca che ha già prodotto decine di morti, e probabilmente altri ne produrrà se non sapremo mettere in campo tutte le potenzialità investigative e gli strumenti giudiziari per arrestarla definitivamente; ma chi era in Germania - vittima o carnefice - non era partito con la valigia di cartone per fare il pizzaiolo, era lì per gestire investimenti, operazioni finanziarie, speculazioni edilizie. Per controllare e gestire il traffico della droga, come dimostrano recenti inchieste tra Germania Belgio e Olanda, o trattare importanti partite di armi o, come pare, era anche interessato all’acquisto di Gazprom, monopolista russo del gas, e agli investimenti turistici sul Baltico. La ’ndrangheta va guardata così: senza mai perdere il significato del suo simbolismo arcaico nel controllo del territorio, dai riti dell'affiliazione fino alle faide familiari, soprattutto nella ionica reggina, ma cogliendone sempre i nessi con la sua «modernità», frutto delle sue disponibilità finanziarie ripulite nelle mille opportunità della globalizzazione. Tutto il resto è fuorviante e tende a minimizzare un fenomeno che va aggredito al più alto livello della sua pericolosità: la sua ricchezza, i suoi patrimoni, la pervasività delle sue relazioni sociali e istituzionali.

Parliamo di una mafia che, a seguito dei colpi inferti a Cosa Nostra dopo la stagione stragista del ‘92-‘93, è riuscita a conquistare il primato mondiale nel traffico della droga, gestendo gran parte delle porte di accesso della cocaina in Europa. In questa scalata tra le organizzazioni criminali mondiali, la ‘ndrangheta è stata favorita dalla sua natura di organizzazione chiusa, dalla solidità di legami famigliari che l’hanno resa impermeabile al fenomeno dei «pentiti» che, per Cosa Nostra e la Camorra, ha avuto un effetto deflagrante in tutti gli anni 90.

Ed è una mafia che ha avuto una grande capacità imprenditoriale, contrattando, già nella fase di progettazione del mai realizzato centro siderurgico prima, e del nascente porto di Gioia Tauro poi, il proprio ruolo nel sistema di imprese nazionale e con i soggetti economici e politico-istituzionali che dovevano gestire il più grande insediamento industriale della regione.

Si è assicurata così il sistema degli appalti e dei grandi flussi di denaro pubblico arrivati a fiumi in Calabria senza incidere in termini di sviluppo, di modernizzazione, di livelli di civiltà.

Eppure le mafie, e la ‘ndrangheta tra esse, non sono più fattori di arretratezza, ma soggetti tra i più «dinamici» della modernizzazione distorta che ha investito il Sud e ne ha trasformato il paesaggio sociale: speculazione e cemento, saccheggio ambientale, stupro delle coste, dissipazione dei finanziamenti pubblici, scempio di ogni forma di diritti, negazione della libertà di mercato e d’impresa. Basta osservare il paesaggio percorrendo la Salerno-Reggio Calabria per toccare la materialità di ognuno di questi aspetti. Queste mafie, la politica non ha avuto la forza di combatterle e sconfiggerle, proponendo un altro modello di sviluppo credibile e sostenibile, di lavoro pulito, di gestione delle risorse trasparenti, di diritti esigibili al posto di favori elargibili. Anzi, ne ha accettato le logiche e ha compartecipato al sistema.

In fondo, la crisi della politica, in Calabria, è tutta qui: nell’essersi trasformata in esercizio separato del potere, trasversalità senza vincoli ideali o etico-morali, ricerca ossessiva del consenso senza regole, scambio privato e non più risposta generale e trasparente ai bisogni diffusi. Anzi, i bisogni della gente - dalla sanità, al lavoro, dai servizi alla pubblica amministrazione - sono diventati la leva di una nuova dipendenza non più e non solo clientelare, ma, in intere aree, anche mafiosa.

In questo scenario, si è anche affermata una commistione, a tutti i livelli, tra gestione politica e interessi economico-finanziari privati.

Ricostruire l’autonomia e la trasparenza della politica:
questo tema è più duro in Calabria, dove il livello occulto delle decisioni e l’intreccio con gli interessi mafiosi e la massoneria rappresentano la materialità di un potere che espropria le istituzioni di scelte fondamentali per la vita pubblica della regione. Di questo si fa forte la ‘ndrangheta. Per questo, per combatterla, non basta la dimensione giudiziaria e repressiva, necessaria e ineludibile.

Serve un ritorno alla politica pulita, a partiti indiscussi, a rappresentanti delle istituzioni senza condanne e rinvii a giudizio,
come indicato dal Codice etico approvato dalla Commissione antimafia, ma anche senza ombre. Occorre evitare il rischio del definitivo distacco della gente dalle istituzioni e quello, forse peggiore, dell’accettazione, fino all'emulazione, dei comportamenti politici amorali e mafiosi come gli unici possibili.

È questo il dovere per chiunque diriga uno spazio pubblico (partito, associazione, ente locale, istituzione economica di ogni livello) in una regione di frontiera come la Calabria.

Qualcuno contesterà che bisogna essere pragmatici: la politica, in fondo, è «realismo»!

È proprio questo il problema: adeguarsi al sistema, magari traendone benefici elettorali e finanziari o avviare processi di rottura. In fondo, la lotta alla mafia si è sempre sviluppata tra queste due sponde.

La pervasività delle ‘ndrine, oggi, è conseguenza della loro forza economica. Se non si centra questo punto di analisi non si mette a fuoco la strategia di contrasto.

In queste ore i riflettori sono sulla Germania, ma basta pensare che il controllo della piazza della droga più importante di Milano, Quarto Oggiaro, passa dalle famiglie mafiose di Petilia Policastro e della Piana, che molte mega-attività commerciali in Emilia Romagna passano da Cutro, che grandi partite di droga con i paesi latinoamericani incrociano le ‘ndrine reggine o le famiglie vibonesi, che grandi investimenti in Europa, dall'Atlantico alla Romania partono dalla Calabria. Sono note anche le forme di controllo del territorio e le attività preferite dalle ‘ndrine: dai grandi centri commerciali, con il doppio interesse mafioso per la destinazione delle aree edificabili e la possibilità di ripulire il denaro con attività lecite, ai grandi investimenti turistici. E ancora il racket e il pizzo o il controllo dei comuni e della burocrazia che uccidono le istituzioni al livello più diretto del rapporto con i cittadini. Occorrono scelte di rottura, segnali inequivoci.

Ho detto della politica. Ma dove sono le denunce degli imprenditori? E di quanti contributi alle imprese, nelle diverse aree industriali della Calabria, sono rimasti solo capannoni vuoti e arrugginiti, nei quali non si è avviata alcuna attività produttiva? Quanti milioni di euro della legge 488 hanno prodotto un solo posto di lavoro? In quanti processi le associazioni professionali si sono costituite parte civile e quanti imprenditori condannati per mafia sono stati espulsi dalla Confindustria?

Non sono domande retoriche. Serve un nuovo spirito pubblico.

Se vogliamo essere credibili dobbiamo mettere a nudo tutti i santuari nei quali mafia e potere saldano i loro interessi. La prima volta di una Commissione antimafia nel porto di Gioia Tauro, a fine luglio, è stata una scelta precisa e consapevole, per indicare le strade possibili del destino di questa terra: quella dello sviluppo trasparente, in un Mediterraneo di pace, cooperazione e relazioni commerciali tra diversi paesi e diversi popoli o quello di un’area fuori controllo dello Stato per alimentare profitti e ricchezze criminali.

E così insisteremo per adeguare leggi, apparati investigativi e uffici giudiziari, per fare dell'aggressione ai patrimoni, alle ricchezze e ai flussi finanziari del riciclaggio, il cuore di una nuova stagione della lotta alla ‘ndrangheta.

Non c’è un destino predeterminato per la Calabria, fuori dalla volontà che si vuole costruire. Occorre ripartire. Serve una stagione di indignazione di massa. Ci sono i morti di Duisburg e la sfiorata strage di pochi giorni fa in un ristorante di Cirò Marina, con un assalto da Chicago anni 30, ma anche i ragazzi di Locri, la serrata dei commercianti di Lamezia, i giovani che lavorano le terre confiscate ai boss nella Piana di Gioia Tauro, i tanti amministratori che ogni giorno, tra minacce e attentati, sfidano gli interessi delle cosche. E tanti sono i lavoratori, le associazioni, i rappresentanti politici e istituzionali che rifiutano la pratica e la logica dello scambio mafioso. Occorre una nuova forza morale ed un nuovo blocco sociale dei diritti e della legalità per contrastare un'egemonia mafiosa che tiene assieme disagio e precarietà sociale, ma anche ceti professionali, imprenditoriali e quella borghesia mafiosa senza la quale i tanti miliardi della ‘ndrangheta non potrebbero essere reinvestiti. È una battaglia dura e difficile, ma è l’unica possibile. Non è detto che si vinca ma, altrettanto, non è detto che si perda.

l'Unità
17-08-2007
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Old 17-08-2007, 17:02   #23
ripsk
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bhe,fosse facile
E invece sarebbe facilissimo, anzi, direi banale.
Almeno per quanto riguarda i 2/3 dei loro introiti e del loro potere.
Basterebbe legalizzarne la vendita

Ciao
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Old 17-08-2007, 17:07   #24
giorno
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E invece sarebbe facilissimo, anzi, direi banale.
Almeno per quanto riguarda i 2/3 dei loro introiti e del loro potere.
Basterebbe legalizzarne la vendita

Ciao
legalizzarne la vendita infatti,e´la cosa piu difficile da fare
pensa un po´,e´gia risaputo che la mafia ha stretti legami con la politica di alti livelli.......
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''Chi lotta può perdere,chi non lotta ha già perso.''
''Se tu vieni,per esempio,tutti i pomeriggi alle quattro,dalle tre io comincerò ad essere felice.''
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Old 17-08-2007, 17:29   #25
ripsk
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legalizzarne la vendita infatti,e´la cosa piu difficile da fare
pensa un po´,e´gia risaputo che la mafia ha stretti legami con la politica di alti livelli.......
Se per difficile intendevi questo ti dò pienamente ragione

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Old 17-08-2007, 17:43   #26
dantes76
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Il miglior metodo per sconfiggere le mafie
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che lo Stato deve «abituarsi a convivere con la mafia».
Pietro Lunardi
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Old 17-08-2007, 18:04   #27
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che lo Stato deve «abituarsi a convivere con la mafia».
Il che, per uno che è (era) a capo del ministero per le infrastrutture, non è cosa bella da dirsi
Comunque è stato coerente, anche il suo capo ai tempi conviveva con vittorio mangano ...

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Old 18-08-2007, 13:39   #28
Igor
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L'INTERVISTA
«Tra sconti e benefici, la legge ostacola la lotta alle cosche»
II procuratore nazionale antimafia: «Generalizzando i vantaggi processuali, si compromette uno dei cardini: quello dei collaboratori di giustizia»


di Edoardo Novella

«Un'azione senza precedenti. Una faida intestina alle cosche che salta i confini nazionali. E il messaggio: darsi alla latitanza volontaria all'estero per sfuggire alle vendette non serve, ti colpiranno». Pietro Grasso è in continuo contatto con gli investigatori, sia in Italia che in Germania: «Per il momento San Luca è presidiata, ci sono riscontri che fanno temere il peggio, altro sangue, anche se probabilmente non da subito». Una prova di forza, quella del comando in trasferta che elimina 6 rivali in un'unico blitz, che però secondo il procuratore antimafia è ancora presto per decifrare fino in fondo: «Non credo vogliano strategicamente passare alle azioni eclatant!: la 'ndrangheta è diventata il gruppo criminale più pericoloso crescendo nell'ombra, nell'omertà, mimetizzandosi e infiltrandosi nell'economia "pulita", avendo spesso contatti con le amministrazioni, con la politica». Struttura orizzontale, fatta di famiglie. E di 'ndrine contro 'ndrine. «E proprio qui è uno dei problemi: sciogliere questi nodi familiari. Ma con l'attuale legislazione - che permette sconti di pena e altri vantaggi agli imputati - si è compromesso uno dei perni della lotta alle mafie: quello dei collaboratori di giustizia».


Dottor Grasso, non crede ci sia stata una sottovalutazione della reale forza della 'ndrangheta?
«In passato forse sì, ma dopo l'omicidio Fortugno l'attenzione investigativa mi sembra massima. La potenza delle'ndrine l'abbiamo più volte denunciata, così come abbiamo messo in allarme i nostri colleghi europei, tedeschi innanzitutto. Abbiamo fatto una mappatura sulla presenza delle famiglie in Germania, sull'infiltrazione nelle comunità italiane d'origine. Certo ci sono degli ostacoli. A partire dal fatto che le autorità estere non possono procedere a sequestri e confische di esercizi o attività commerciali "lecite" dietro i quali però si ridiano proventi illeciti, a meno che non venga riconosciuto il "reato transnazionale" e quindi si possa procedere al sequestro penale. C'è poi il traffico di stupefacenti con la Colombia. Sappiamo che si muovono enormi quantità di denaro, ma poi non riusciamo a intercettarle. Perché c'è un sistema internazionale di paradisi fiscali e banche extraterritoriali che nessuno ha intenzione di abbattere. E poi non dimentichiamo che spesso queste finanziarie internazionali che gestiscono il denaro degli stupefacenti e i milioni "sporchi" dell'evasione e delle tangenti saltano completamente il sistema bancario, non lasciando tracce».


Mafia-business, oltre che di sangue. Sia il superprefetto De Sena che il procuratore della Dda di Reggio Boemi parlano di nuova "guerra" di 'ndrangheta. È d'accordo?
«Dietro la faida può esservi lo sfondo di una lotta per la supremazia sul tenitorio, interessi confliggenti, il tentativo di una famiglia di annientare l'altra». Torniamo all'omidicio. Una delle vittime era stata "avvertita" del pericolo da parte degli inquirenti... «Guardi, riuscire a prevenire un atto del genere è impossibile, per di più all'estero. Si conosceva la situazione, ma non avevamo elementi concreti per agire. Alla fine la 'ndrangheta è arrivata prima della giustizia italiana».


Prima loro dello Stato. Non un bel segnale...
«Abbiamo bisogno di riscontri e dobbiamo muoverci in un sistema di garanzie. Il sistema penale è fatto così, non lo si può usare come sistema di prevenzione».


Crede che la legislazione sia adeguata?
«Dico che il problema è dei mezzi con cui applicarla. E di un sistema che possa evitare che gli indagati abbiamo condanne risibili rispetto al valore detenente della pena. Faccio un esempio: per una attività organizzativa-direttiva di traffico di droga si rischiano 24-30 anni - quasi come per un omicidio -, ma attraverso tutta una serie di possibilità che si possono ottenere con un buon avvocato, -il rito abbreviato già concede il beneficio di un terzo, poi il patteggiamento allargato in Appello che non fa distinzione tra reati di mafia o altro e che produce un beneficio irrisorio per la giustizia, visto che a questo punto si sono svolti tutti i processi e forse il "risparmio" è solo sulla redazione della motivazione della sentenza e sul giudizio per Cassazione - insomma, si arriva facilmente da 24 a 8 anni. Se invece un indagato passa dalla parte dello Stato deve farsi almeno 10 anni e gli vengono confiscati tutti i beni. Mentre il mafioso può riavere quelli di cui riesce a dimostrare la legittima provenienza. Una disparità tale da compromettere del tutto il sistema dei collaboratori di giustizia».

l'Unità
17-08-2007




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Vincenzo Macrì: «I pentiti? Ha ragione Grasso, ormai sono diventati un’arma spuntata»
Alessandro Ferrucci

«Ha ragione il procuratore nazionale antimafia: tra sconti e benefici di legge, il nostro lavoro con i pentiti è oramai spuntato». A denunciarlo è Vincenzo Macrì, magistrato presso la Direzione Nazionale Antimafia, riferendosi all’intervista che Pietro Grasso ha rilasciato ieri a l’Unità. Macrì è da anni in prima linea a Reggio Calabria e per questo è considerato tra i maggiori esperti. Se non «l’esperto».

Cosa intende per armi spuntate?
«Che tra rito abbreviato, patteggiamento allargato e altre formule, ai mafiosi non conviene più la strada del pentitismo. Così, in questi ultimi anni, nonostante il numero dei pentiti sia stabile, abbiamo avuto un netto peggioramento dal punto di vista qualitativo: oramai, nella ‘ndrangheta, si pentono solo le figure marginali. E tutto avviene in un quadro che già prima non era roseo...»

Perché?
«In questi anni, in Calabria, non ci sono mai stati fenomeni di pentitismo nei piani alti della struttura. Insomma non abbiamo mai avuto personaggi del calibro di Buscetta o Giuliano».

Quando, in una struttura orizzontale come questa, sarebbe ancor più importante avere dei protagonisti...
«È vero, ma qui c’è una resistenza maggiore dal punto di vista culturale: valori come l’omertà o l’idea d’infamità sono ancora profondamente radicati. Per non parlare del senso di appartenenza alla famiglia: da noi in Procura arrivano “solo” personaggi come Giacomo Lauro, un affiliato ai Morabito, che aveva aderito al clan a titolo personale visto che la sua famiglia di appartenenza non è di origine mafiosa».

Una situazione dura, in un momento in cui l’‘ndrangheta è in forte sviluppo. Anche internazionale...
«È un azienda enorme e radicata in molte parti del mondo. Mi fanno ridere tutti coloro i quali pensano che sia un fenomeno legato solo alla Calabria: al contrario stanno ovunque. E il pluriomicidio di Duisburg ne è solo l’ennesima prova».

Come sono riusciti a esportare il «modello»?

«Semplice, ovunque vanno ripropongono alla lettera la struttura dell’organizzazione: dalla testa fino alla manovalanza. Tutti sanno quale è il loro compito e tutti lo rispettano»

Qual è la sua idea sulla vicenda di Duisburg?
«Che sono andati a colpire dove è più facile muoversi, dove le difese sono più basse. Vede, come le dicevo prima, per loro non è un problema agire all’estero: in Germania possono contare su centinai di uomini e, per questo, non trovano difficoltà nel reperire armi, automobili o basi logistiche dalle quali muoversi e tornare».

Dopo l’omicidio di Ferragosto, il giorno della Madonna dell’Assunta, molti credono che la risposta ci sarà il 2 settembre: per il pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Polsi...
«A breve non accadrà nulla, resteranno tutti nascosti per valutare le mosse da fare. Almeno credo. Perché, vede, tutti noi ci aspettavamo un attacco a San Luca, e invece sono andati a colpire in Germania. Oramai il clima di incertezza è forte, come è ampio il territorio sul quale lavorare... ».

Quindi anche la risposta sarà «straniera»?
«Anche italiana. Se si va a vedere la lista dei processi a Torino, ci si renderà conto che a parte un piccolo numero di extracomunitari, tutto il resto è legato a fatti riconducibili alla ‘ndrangheta. Stessa cosa per quanto riguarda Aosta o Milano».

Come è possibile arginare questa situazione?
«Gli strumenti ci sono ma spesso è difficile applicarli. Ad esempio sarebbe necessario semplificare il processo per colpire i patrimoni della mafia o la normativa legata al riciclaggio. Sono tutti ostacoli che ci impediscono di lavorare, esattamente come le ho detto all’inizio per la questione dei pentiti».

Come si spiega questa situazione?
«Semplice: manca la volontà politica... ».

l'Unità
18-08-2007
Igor è offline   Rispondi citando il messaggio o parte di esso
Old 24-08-2007, 18:31   #29
Igor
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L'INTERVISTA
II vicepresidente della commissione Antimafia: le nostre risposte molto al di sotto delle sfide lanciate dai criminali
«Queste leggi non bastano, così la 'ndrangheta non si batte»

di Enrico Fierro

«Se dobbiamo fare una intervista sulla 'ndrangheta dopo la strage di Duisburg, allora conviene dire anche le verità scomode». Con Beppe Lumia, vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, parliamo di 'ndrangheta, di San Luca e di Duisburg.

Onorevole, a lei la parola.
«Questo governo ha fatto molto, più dei governi precedenti, ma ancora non ci siamo. La 'ndrangheta è l'organizzazione mafiosa più potente, più ricca, e più estesa sul territorio europeo e mondiale. E le democrazie sono impotenti. Con i loro apparati penali insufficienti, con il loro controllo dei mercati e dell'economia debolissimo. Così riusciremo al massimo a contenere il fenomeno. La sconfitta è lontana».


Le faccio un nome, il prefetto Luigi De Sena. Aveva fatto un ottimo lavoro in Calabria e lo hanno promosso spostandolo a Roma.
«Il prefetto De Sena era giunto ad un livello di conoscenza del fenomeno di primissimo piano. Senza nulla togliere al suo successore dico che bisognava mantenerlo al suo posto. Dietro la sua promozione a vice capo vicario della Polizia non vedo strumentalità e in questo nuovo ruolo ci potrà dare un aiuto grandissimo, ma i dati oggettivi ci dicono che spostarlo da Reggio a Roma non è stato un buon segnale. De Sena aveva cominciato un ottimo lavoro sugli appalti, aveva costruito una rete con gli amministratori locali, e soprattutto aveva contribuito a diffondere fiducia nelle istituzioni dello Stato. Per questo la 'ndrangheta lo temeva».


Al prefetto De Sena erano stati promessi poteri eccezionali per trasformarlo in una sorta di Dalla Chiesa della Calabria. Come è andata a finire?
«I poteri che gli erano stati conferiti fin dalla nomina dopo l'omicidio Fortu-gno non erano affatto eccezionali. Si trattava di pochi poteri in più rispetto a quelli che normalmente hanno i prefetti».


Insomma, un'altra occasione persa.
«E non è l'unica. L'Italia è il Paese delle norme antimafia non applicate. Le faccio due esempi. Il primo, la legge Mancino del '94 che prevede che tutti i trasferimenti di proprietà registrati vengano contestualmente trasmessi alle questure. Una norma inapplicata nella sostanza, visto che il materiale non è informatizzato, non lo conosciamo e non abbiamo a disposizione una mappa per capire corrine si muovono le ricchezze della mafia. C'è poi la questione dell'anagrafe dei conti e dei depositi che non è nelle disponibilità degli investigatori e dei magistrati antimafia, eppure parliamo di lotta al riciclaggio. Come si vede siamo all'antimafia del giorno dopo».


Alcune proposte per una antimafia del giorno prima.
«Diciamo subito che un approccio ipergarantista non ci aiuta nel contrasto serio alle mafie. Guardi alla Germania, dove il mostro 'ndrangheta è cresciuto e si è esteso sul territorio grazie anche a leggi garantiste. In Italia, invece, con il rito abbreviato in primo grado e il patteggiamento allargato in secondo, un narcotrafficante rischia poco più di 7-8 anni di galera. Bisogna rivedere queste norme e decidere che per la lotta ai sistemi mafiosi è necessario stabilire un doppio binario. Quello che vale per i reati comuni non può valere per i reati di mafia».


La accuseranno di essere un forcaiolo.
«Per carità, sono per le garanzie. Ma i mafiosi non sono degli emarginati da comprendere, no: ci troviamo di fronte ad organizzazioni pericolose che stanno svuotando dall'interno le nostre società, al Sud come al Nord. In Italia come in Europa. Il pericolo della 'ndrangheta è pari a quello del terrorismo, con una sostanziale differenza: i mafiosi sono nel cuore delle nostre società. Le garanzie, quindi, vanno assicurate ai cittadini, agli onesti e al mercato che in molta parte d'Italia sta perdendo la sua libertà inquinato come è dall'economia mafiosa».


L'Italia e la strage di Duisburg.
«L'approccio è come al solito consolatorio, i giornali preferiscono narrare San Luca e il folklore dei riti di 'ndrangheta. È una lettura cieca, destinata a finire in poco tempo. Già i giornali di questi giorni parlano più del delitto di Pavia e delle cuginette che della 'ndrangheta. Il problema vero è che c'è poca volontà di combattere le mafie».


l'Unità
24-08-2007
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Old 24-08-2007, 19:21   #30
federuko
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La mafia non esiste.
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Old 29-08-2007, 14:10   #31
Igor
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La 'Ndrangheta Spa e lo Stato che non c'è
Elio Veltri

Chiunque non sia Paperon dei Paperoni, se va in banca e chiede di avere moneta contante in cambio di un assegno di qualche entità, viene sottoposto a domande e verifiche. A Santo Stefano d'Aspromonte, l'agenzia del Monte dei Paschi di Siena era più «democratica» e non badava a verifiche. Questa è una storia vera. Il 4 aprile del 1996 una signora pensionata, Briganti Caterina, che in base ai contributi versati dovrebbe avere una pensione di 22 mila lire al mese, ma che con l'integrazione al minimo Inps ne prende 720, entra nella locale agenzia del Monte dei Paschi, che da poco ha comprato la banca popolare di Reggio in odore di mafia, e cambia un assegno di suo marito di cui ha la procura. L'unica stranezza, se si può definire tale, è che quell'assegno è di cinque miliardi e la signora Briganti lo incassa in contanti per 4 miliardi. Il marito della Briganti, anche lui pensionato Inps da quando aveva 46 anni, con una pensione di 146 mila lire integrata al minimo, si chiama Rocco Musolino, ha precedenti penali perché considerato dagli inquirenti personaggio di spicco della 'ndrangheta, nel 1995 era stato arrestato per associazione mafiosa, ma non era stato mai condannato. Caterina aveva fretta di cambiare i titoli di cui aveva la procura perché forse sapeva che pochi giorni dopo il giudice dell'udienza preliminare di Reggio Calabria avrebbe disposto il rinvio a giudizio del marito nell'ambito del procedimento n. 46/93 Rgnr (operazione Olimpia). L'agenzia del Monte sembra davvero la banca dei miracoli. Mai chiariti e neanche giustificati. Compra una banchetta di Reggio Calabria nella quale Rocco Musolino aveva fatto operazioni per 15 miliardi comprando a sua volta azioni e intestandole a prestanome con legami di sangue. Fa trovare alla signora Briganti 4 miliardi in contanti e glieli consegna senza alcuna precauzione e preoccupazione. E quando il fatto viene notificato alla Commissione antimafia del Parlamento inizia lo scaricabarile delle responsabilità tra la Banca d'Italia che avrebbe dovuto vigilare, l'Ufficio Italiano Cambi e il Nucleo di polizia valutaria della guardia di finanza e finisce tutto a tarallucci e vino.

La 'ndrangheta, mafia della pastorizia e dell'abigeato, si scopriva mafia di imprenditori potenti e finanzieri carichi di soldi, capaci di cambiare assegni di miliardi in un paese sperduto dell'Aspromonte e di investirli altrove, a migliaia di chilometri di distanza, partecipando magari con i rappresentanti della cosca della terza generazione ai lavori di ovattati consigli di amministrazione. E lo Stato? Lo Stato, parla, discute, inventa garanzie, incassa sconfitte a catena e lascia indisturbate le cosche, contento solo se non si spara più di tanto.

Sembra impossibile che da paesi dell'Aspromonte come San Luca e Santo Stefano, dimenticati da dio e dagli uomini, resi familiari alle persone colte da Corrado Alvaro, con la descrizione delle condizioni di vita dure e aspre come la terra e le facce delle donne e degli uomini, o da Africo, che è difficile individuare sulla carta geografica, possano partire uomini carichi di banconote o di conti cifrati collocati nei forzieri di quasi tutti i paradisi fiscali o semplici telefonate o ordini attraverso il Web con i quali si comprano quote di giganti dell'energia come la Gazprom russa alle dirette dipendenze di Putin; palazzi e supermercati a Francoforte, Milano e Hong-Kong, immense distese di terre di cui non si vedono i confini, in Australia. Sembra impossibile. Ma è così. E se vogliamo dirci la verità e non vogliamo ingannare noi stessi prima ancora di ingannare gli altri, dobbiamo dire con franchezza che i buoi sono scappati dalla stalla e che la resa dello Stato c'è ed è incondizionata perché la «vergogna» che Luciano Violante urla per la mancata confisca dei beni e dei patrimoni delle mafie c'è ed è grande. Anche se Violante non dice a chi va attribuita e chi ne sono i responsabili, per cui, senza l'individuazione delle responsabilità, resta una grida manzoniana per chetare la propria coscienza. Eppure, delle due l'una: o la magistratura ha favorito la mafia e Violante sa bene che non è vero, oppure l'hanno fatto i governi e i legislatori. Tertium non datur. Le leggi antimafia sono colabrodi inadatti a colpire al cuore le organizzazioni criminali. Da almeno 15 anni si sa e si dice che bisogna cambiarle, ma non si fa. La latitanza dello Stato per tutti gli anni 90 di cui fatti, come quello raccontato, contenuti nei documenti parlamentari e giudiziali sono testimonianza inoppugnabile, essa sì, costituisce la grande vergogna della resa. Per conferma ne raccontiamo un altro.

Il 5 marzo del 1998 alle 10,40 del mattino sotto la presidenza del senatore Michele Figurelli, relatore anche sul caso precedente e sparito dalla scena politica, la Commissione Antimafia del Parlamento ascolta il dr. Manlio Minale procuratore aggiunto della direzione distrettuale antimafia di Milano e i suoi sostituti Laura Barbami e Armando Spataro. Si parla di 'ndrangheta. Oggetto della discussione è la capacità imprenditoriale in Lombardia e a Milano della cosca Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo. Giuseppe Morabito è latitante (sarà arrestato alcuni anni dopo) ed è un vero patriarca della 'ndrangheta. Quando i carabinieri lo braccheranno li tratterà con galanteria: «Siete stati bravi». Morabito, U Tiradrìtto, capisce prima degli altri che la 'ndrangheta deve diventare una potenza economica da affidare a persone incensurate. Laurea la figlia Giuseppina in medicina, la fa specializzare in psichiatria e la colloca nell'ospedale di Locri. Poi la sposa a Giuseppe Pansera, anch’egli medico e lo colloca in un altro ospedale dell'Asl di Locri. Entrambi mantengono buoni rapporti con il dr. Fortugno e l'onorevole Laganà. Ma U Tiradrìtto ha bisogno del genero il quale non esita a farsi 5 anni di latitanza con il suocero sapendo che dopo dovrà andare in carcere, nel quale attualmente sconta 16 anni per associazione mafiosa. Fedele alla consegna, il dottore non si sottrae. Prima però i Morabito si impadroniscono anche del Policlinico di Messina che per la città è l'equivalente della Fiat di Torino. E non solo per ragioni economiche. Possono controllare gli appalti, gli acquisti di beni e servizi, ma anche, cosa più importante, gli esami in molte facoltà e soprattutto nella facoltà di medicina attraverso un accordo con fedelissimi dell'Università di Milano. I rapporti sociali per la 'ndrangheta sono essenziali, si sa, e quindi il controllo di settori dell'Università è funzionale agli affari, ma anche a stringere rapporti con la società che conta.

Quella mattina Minale, Barbini e Spataro spiegano ai parlamentari, forse un po' distratti, come la cosca di Africo sbarca a Milano nell'ortomercato negli anni 80, come stringono alleanze con i gruppi palermitani Fidanzati e Ciulla e con la famiglia Dominante di Vittoria e come gli ortomercati di Catania, Ragusa e Vittoria rappresentano gli interlocutori privilegiati di Milano.

Ma dalla latitanza U Tiradritto intuisce che la globalizzazione è alle porte. Perciò stabilisce rapporti con gruppi slavi in maniera assolutamente «paritaria» sostituendosi ai turchi che vengono estromessi. Sapendo che i soldi non possono essere investiti in Calabria i capi della cosca prima puntano alle banche lombarde, agli immobili del centro di Milano e poi all'Europa. Barbami racconta: «Una fiduciaria della banca San Paolo di Brescia, della quale la banca è socia, ha fatto da intermediaria tra il gruppo Talia-Mollica-Morabito e un gruppo in sofferenza presso la banca sopra citata. Siamo a conoscenza di transazioni anche con l'Argentina e con paesi europei sempre nell'ordine di miliardi (occhio alle date: 1998!). Il capitale quindi esisteva e non si recava al Sud, ma rimaneva al Nord». Ma i Morabito pensano di fare il grande salto e nel 1997 cercano e trovano un commercialista di Milano, Enrico Ciglio, casualmente cognato di Michele Sindona, e «decidono di trasferire all'estero il patrimonio rappresentato da 26 società che gestivano attività quali alberghi, ristoranti, bar, garage nel cuore di Milano, tutte addirittura lungo il perimetro del tribunale». E pensare che Dia, Ros e squadra mobile avevano indetto appalti per lasciarvi le loro macchine! Ciglio si rivolge a un referente svizzero il quale trova immediatamente per l'operazione di transazione una società, la Eurosuisse italiana, partecipata della Eurosuisse Holding lussemburghese di Jean Paul Faber. Le quote della nuova società, necessaria per la transazione, sono poi cedute a una società svizzera anonima con una triangolazione Milano-Lussemburgo-Lugano nel giro di 15 giorni: efficienza sconosciuta e invidiabile! Il capitale ammonta a circa 50 miliardi, in quanto nel frattempo la società italiana era diventata cessionaria delle quote di partecipazione di 26 società.

Per raccontare il resto: rapporti con la Cassa di risparmio di Torino e di San Marino, il modo in cui furono ottenute le licenze per gli esercizi commerciali al centro di Milano, i tentativi di ingresso nella Deutsche Bank è necessaria almeno un'altra puntata. L'economia italiana fa fatica a competere nell'economia globalizzata perché oberata da conflitti di interessi, non rispetta le regole della concorrenza e del mercato. La 'ndrangheta che le regole se le fa da sé, compete e vince.


l'Unità
29-08-2007
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Old 29-08-2007, 15:17   #32
fsdfdsddijsdfsdfo
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agghiacciante
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Old 13-09-2007, 15:35   #33
Igor
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Sicilia: schierarsi dalla parte degli onesti
Rita Borsellino, Fiammetta Borsellino, Maria Falcone,
Pina Maisano Grassi, Giovanni Impastato,
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La Sicilia è una terra difficile. Una terra piena di contraddizioni, dove lavorare e schierarsi dalla parte della giustizia e della legalità non sempre è facile e non sempre porta a risultati immediati e tangibili. Dalla stagione delle stragi ad oggi tante cose sono cambiate e tante, purtroppo, sono rimaste uguali. Ma per chi come noi crede che un'altra isola sia possibile costruendo un progetto politico serio, capace di mettere assieme le forze sane della società siciliana per contrastare la criminalità organizzata non solo con l'azione della magistratura ma con il rafforzamento della coscienza civile, è fondamentale uscire dal generale ed entrare nei particolari delle cose. Archiviare gli anni della Procura Caselli così come ha fatto Cossiga su questo giornale è non solo sbagliato (nella forma, per i termini usati, e nella sostanza), ma colpevole. Decidendo di venire a Palermo, il procuratore Giancarlo Caselli ha dimostrato coraggio in anni difficili, attaccamento allo Stato e voglia di fare.

Senza volere entrare nel merito della sentenza Andreotti (se non per consigliare a chiunque di leggere quella sentenza anche solo per capire come la Dc abbia costruito la propria rete di consensi in Sicilia a partire dai suoi leader), da familiari di chi ha pagato con la vita l'amore per la giustizia e per questa terra e da cittadini che hanno vissuto e partecipato alle lotte civili di quegli anni, vogliamo invece confermare la stima per Caselli che non solo rimise in sesto la Procura di Palermo ma riuscì a creare un legame forte anche con la società, portando avanti quella azione intrapresa da Chinnici e poi da Falcone e Borsellino di coinvolgimento dei giovani e della società civile nel contrasto a Cosa Nostra. Dal punto di vista giudiziario il lavoro di quegli anni ha portato all'arresto di latitanti come mai in precedenza (da Riina a Bagarella ai Madonia...), ad oltre 600 ergastoli, al sequestro di arsenali di armi da guerra e beni per un valore di circa diecimila miliardi di vecchie lire, oltre che a decine e decine di processi a carico di imputati «eccellenti», i professionisti della cosiddetta zona grigia.

In questi anni il Paese è cambiato, si è imbastardito, concedendo molto all'apparenza e sorvolando spesso sulla sostanza. E diventando più distratto, opportunista, pronto al compromesso. Ma se attorno alla Giustizia e alla Politica non si riuscirà a ritrovare la serenità dell'analisi, abbandonando la via della delegittimazione, l'Italia e il popolo italiano andranno verso l'annichilimento e finiranno per perdere quell'identità democratica conquistata a così caro prezzo.

Giorni fa Giorgio Bocca in un'intervista trasmessa da RaiUno vedeva in questa «distrazione» degli italiani, la rovina dell'Italia stessa. Siamo d'accordo con lui e questa lettera vuole essere un atto di attenzione di un gruppo di cittadini impegnati che a Palermo e in Sicilia continuano a vivere, schierandosi dalla parte degli onesti. Non solo per chi a Palermo e in Sicilia vive ma per l'Italia intera.


CORRIERE DELLA SERA
13-09-2007
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Old 13-09-2007, 19:24   #34
Igor
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MAFIA: FORGIONE, BANCHE LA PIU' GRANDE RETE DI CONNIVENZA

Le banche rappresentano la rete piu' estesa della connivenza con gli interessi finanziari della mafia. I soldi vengono ripuliti li'. Ne e' convinto Francesco Forgione, presidente della commissione Antimafia, in una intervista a Sintesi Dialettica. "La politica - spiega Forgione - non ha avuto la forza di approvare una buona legge come quella sull'anagrafe dei conti correnti - legge Mancino del 1993, mai applicata in 15 anni. Da qui, quando si arresta un mafioso e gli si vogliono congelare subito i conti correnti, il mafioso, o l'amministratore del mafioso, ha tutto il tempo per svuotarli e movimentarli via internet in uno dei tanti paradisi fiscali del pianeta. Noi non abbiamo neanche la possibilita', attraverso l'anagrafe dei conti correnti e l'anagrafe degli immobili, di capire anche gli spostamenti di proprieta' e le movimentazioni catastali. Manca, quindi, la possibilita' di intervenire proprio li' dove si concentra il potere mafioso". Insomma, per il presidente della commissione Antimafia il ruolo delle banche e' centrale. Per Forgione, dunque, e' necessario aggredire "il santuario del mercato", altrimenti non si possono sconfiggere le mafie. "100.000 milioni di euro all'anno e' l'ammontare di movimentazione delle mafie di cui almeno il 60% entra nell'economia legale - dice ancora -. Da qui si apre il problema della rintracciabilita' dei flussi e dei patrimoni. Le mafie non hanno piu' la coppola e la lupara dei film in bianco e nero. Hanno capito che investire in patrimoni e' rischioso per cui "finanziarizzano" le loro attivita'. E per colpire questo livello di "finanziarizzazione" e intercettarne i flussi, bisogna aggredire il sistema bancario".
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Old 13-09-2007, 19:59   #35
Ser21
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allucinante..
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Old 13-09-2007, 20:02   #36
Ser21
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Caselli ha fatto cose che pochi magistrati al mondo sono riusciti a fare,onore a lui.
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