Leggendo il libro "Cuba dopo Cuba" che contine diverse notizie di carattere storico, sono stato colpito da questo punto che vi cito...
Dopo trent'anni di guerra combattuti fianco a fianco da bianchi e neri, lo stato delle relazioni razziali nell'isola sconsigliò agli occupanti americani di includere Cuba nella repubblica stellata. È vero che l'annessione era stata a lungo considerata parte del «destino manifesto» degli Stati Uniti, ma essa era stata sponsorizzata soprattutto dagli Stati del Sud, che pensavano di accrescere il loro potere facendo entrare nell'Unione un altro grande Stato schiavista. Dopo trent'anni di sollevazione antischiavista a Cuba, l'isola apparve un boccone diffìcile da inghiottire, tanto che la vigilia di Natale del 1897, J.C. Breckenridge, sottosegretario americano al Department of War, potè sottolineare, in un memorandum ufficiale, come Cuba avesse una «popolazione composta da bianchi, neri, asiatici, e gente che è un miscuglio
di tutte queste razze. Gli abitanti sono solitamente apatici ed indolenti, indifferenti alla religione, e la maggioranza di essi è al tempo stesso immorale, passionale e dalle forti inclinazioni sessuali. (...) È ovvio che un'annessione immediata di queste fastidiose persone nella nostra federazione sarebbe pura follia, e che è necessario procedere prima di tutto ad una pulizia dell'isola, anche se ciò significa ricorrere ai metodi che la Divina Provvidenza utilizzò contro Sodoma e Gomorra. Dobbiamo distruggere qualsiasi cosa si trovi entro il raggio dei nostri cannoni, dobbiamo imporre un embargo così duro che la fame e la sua compagna di sempre, la malattia, indeboliscano la popolazione civile e decimino l'esercito. (...) La nostra politica deve essere quella di appoggiare il debole contro il forte, fino a che non si sia ottenuto lo sterminio di entrambi».
Questo nobile programma non riuscì completamente, sicché gli Usa rinunciarono (forse...) all'annessione di Cuba...
Lucio Virzì
25-07-2005, 14:25
Leggendo il libro "Cuba dopo Cuba" che contine diverse notizie di carattere storico, sono stato colpito da questo punto che vi cito...
Dopo trent'anni di guerra combattuti fianco a fianco da bianchi e neri, lo stato delle relazioni razziali nell'isola sconsigliò agli occupanti americani di includere Cuba nella repubblica stellata. È vero che l'annessione era stata a lungo considerata parte del «destino manifesto» degli Stati Uniti, ma essa era stata sponsorizzata soprattutto dagli Stati del Sud, che pensavano di accrescere il loro potere facendo entrare nell'Unione un altro grande Stato schiavista. Dopo trent'anni di sollevazione antischiavista a Cuba, l'isola apparve un boccone diffìcile da inghiottire, tanto che la vigilia di Natale del 1897, J.C. Breckenridge, sottosegretario americano al Department of War, potè sottolineare, in un memorandum ufficiale, come Cuba avesse una «popolazione composta da bianchi, neri, asiatici, e gente che è un miscuglio
di tutte queste razze. Gli abitanti sono solitamente apatici ed indolenti, indifferenti alla religione, e la maggioranza di essi è al tempo stesso immorale, passionale e dalle forti inclinazioni sessuali. (...) È ovvio che un'annessione immediata di queste fastidiose persone nella nostra federazione sarebbe pura follia, e che è necessario procedere prima di tutto ad una pulizia dell'isola, anche se ciò significa ricorrere ai metodi che la Divina Provvidenza utilizzò contro Sodoma e Gomorra. Dobbiamo distruggere qualsiasi cosa si trovi entro il raggio dei nostri cannoni, dobbiamo imporre un embargo così duro che la fame e la sua compagna di sempre, la malattia, indeboliscano la popolazione civile e decimino l'esercito. (...) La nostra politica deve essere quella di appoggiare il debole contro il forte, fino a che non si sia ottenuto lo sterminio di entrambi».
Questo nobile programma non riuscì completamente, sicché gli Usa rinunciarono (forse...) all'annessione di Cuba...
E poi ci si stupisce dell'isolamento del regime Castrista...
LuVi
von Clausewitz
25-07-2005, 15:06
Leggendo il libro "Cuba dopo Cuba" che contine diverse notizie di carattere storico, sono stato colpito da questo punto che vi cito...
Dopo trent'anni di guerra combattuti fianco a fianco da bianchi e neri, lo stato delle relazioni razziali nell'isola sconsigliò agli occupanti americani di includere Cuba nella repubblica stellata. È vero che l'annessione era stata a lungo considerata parte del «destino manifesto» degli Stati Uniti, ma essa era stata sponsorizzata soprattutto dagli Stati del Sud, che pensavano di accrescere il loro potere facendo entrare nell'Unione un altro grande Stato schiavista. Dopo trent'anni di sollevazione antischiavista a Cuba, l'isola apparve un boccone diffìcile da inghiottire, tanto che la vigilia di Natale del 1897, J.C. Breckenridge, sottosegretario americano al Department of War, potè sottolineare, in un memorandum ufficiale, come Cuba avesse una «popolazione composta da bianchi, neri, asiatici, e gente che è un miscuglio
di tutte queste razze. Gli abitanti sono solitamente apatici ed indolenti, indifferenti alla religione, e la maggioranza di essi è al tempo stesso immorale, passionale e dalle forti inclinazioni sessuali. (...) È ovvio che un'annessione immediata di queste fastidiose persone nella nostra federazione sarebbe pura follia, e che è necessario procedere prima di tutto ad una pulizia dell'isola, anche se ciò significa ricorrere ai metodi che la Divina Provvidenza utilizzò contro Sodoma e Gomorra. Dobbiamo distruggere qualsiasi cosa si trovi entro il raggio dei nostri cannoni, dobbiamo imporre un embargo così duro che la fame e la sua compagna di sempre, la malattia, indeboliscano la popolazione civile e decimino l'esercito. (...) La nostra politica deve essere quella di appoggiare il debole contro il forte, fino a che non si sia ottenuto lo sterminio di entrambi».
Questo nobile programma non riuscì completamente, sicché gli Usa rinunciarono (forse...) all'annessione di Cuba...
ma ti riferisci a questo "Cuba dopo Cuba"? :confused:
http://www.davidegiacalone.it/costume/cuba_dopo_cuba
La rivista diretta da Lucio Caracciolo, liMes, dedica un numero a Cuba, l’isola caraibica dove il pregiudizio sembra essere più forte di ogni cosa. Un pregiudizio che cambia le carte in tavola. Ciò che dovrebbe essere normale, ovvero l’esame della realtà, sia pure da diversi punti di vista ed approcci, lo si accoglie, quindi, con positivo stupore. In effetti questa raccolta di saggi è un buono strumento per farsi un’idea di come stanno le cose, a Cuba, di come ci si è arrivati, di quanto sia forte la necessità di abbattere un regime che, con ogni probabilità, cadrà con la morte del suo interprete dittatoriale: Fidel Castro.
L’editoriale segna bene il senso ed il ritmo del numero, sottolineando che “se la dittatura castrista non è finita come una delle tante tessere del domino comunista sovietico il motivo è semplice: non è mai stata solo comunista, né tantomeno sovietica”. Il che non significa che il regime castrista non si sia prestato ad operazioni militari, all’estero, nell’interesse dei sovietici, come giustamente si ricorda a proposito del corno d’Africa. Che fu anche un totale fallimento “costato una fortuna ai finanziatori sovietici e allo stesso regime cubano, che ricorre al narcotraffico pur di alimentare le velleità di diffusione della rivoluzione”.
Né ha senso difendere le presunte conquiste interne della rivoluzione, come se prima della rivoluzione stessa regnassero l’ignoranza, l’oppressione e la disperazione. Nulla di più falso, perché Cuba era all’avanguardia nell’educazione e nella medicina, aveva un reddito pro capite doppio rispetto al resto dell’America latina ed una intensa e vivace vita culturale, sia musicale che letteraria. Tutto questo è stato spazzato via dalla rivoluzione. “Ma qualcuno o qualcosa - conclude l’editoriale – libererà un giorno Cuba dalla prigionia del mito cui l’ha costretta una rivoluzione ridotta a divorare se stessa. I cubani meritano la ‘normalità’. Purché siano loro a costruirsela, por cuenta propria”. Che è quanto scrivevamo noi qualche tempo fa, preoccupati del fatto che non è facile costruire un percorso democratico in un paese lungamente piagato dalla dittatura, che si libera del dittatore mortis causa, e con un’economia in ginocchio.
Non si deve dimenticare che uno degli ingredienti forti della politica e della storia cubana è il nazionalismo, ed a questo si è più volte aggrappato Castro per giustificare il suo governo liberticida e distruttore di ricchezza, il suo programma d’ignoranza e repressione. In questo aiutato, certo, dal protrarsi dell’embargo statunitense, che ha funzionato più da spauracchio da far valere all’interno che come effettivo vincolo verso l’esterno, ma anche, non si può dimenticarlo, dal belante seguito d’intellettualoidi e politicanti ubriacati di mitologia rivoluzionaria, che ancora faticano a vedere in lui quello che egli è: un dittatore sanguinario.
La rivista mette in ordine qualche passaggio storico, anche questo annegato nel luogo comune e nell’approssimazione. Per esempio ricorda (è il saggio di Maurizio Stefanini) che nel 1944 Batista, descritto dal conformismo filorivoluzionario come un dittatore feroce, fu sconfitto alle elezioni presidenziali, lasciando il potere a Ramón Grau San Martin, un socialdemocratico fondatore del Partido revolucionario cubano auténtico. Al quale successe, sempre per via elettorale, un altro esponente dello stesso partito, Carlos Prío Socorras. Contro il Partido revolucionario cubano auténtico nasce il Partido revolucionario cubano ortodoxo, fondato da Eduardo Chibás, con un programma moralistico ed una polemica violenta, stile mani pulite. E’ dalle fila di questo partito che arriva Fidel Castro.
Alle elezioni del 1948 Eduardo Chibás prende solo 325 mila voti ed arriva terzo. Nel 1951 si spara in diretta radiofonica, lasciando orfano Castro. Un tipetto equilibrato, come si vede.
Il secondo colpo di Stato di Batista arriva il 10 marzo 1952, ed è possibile grazie al caos ed al malcontento generali. Questo ex sergente, mulatto, aveva creato, con il primo colpo di Stato, le condizioni di un’evoluzione democratica, che vi era effettivamente stata, al punto che lui stesso era stato incruentamente sconfitto nelle urne. Torna quindi al potere in modo non democratico, dopo che l’instabilità aveva fatto maturare i suoi frutti avvelenati.
Castro, a sua volta, tenta l’assalto armato contro Batista il 26 luglio 1953, alla testa di un gruppo di giovani della Juventud ortodoxa (seguaci del suicida), cercando di espugnare la caserma Moncada. Fu un disastro, dal quale, però, Castro uscì prima con una condanna mite e, poi, con un’amnistia. Batista, come si vede, non risponde al cliché del dittatore sudamericano. Tant’è che, sei anni dopo, si dichiara sconfitto ed abbandona l’isola, la notte del capodanno 1959, senza ulteriormente combattere.
Ma il governo che s’insedia, dopo la fuga del dittatore, è presieduto da José Miró Cardona, e Castro neanche ne fa parte. Gli succede Manuel Urrutia Lleó, che durò solo pochi mesi. Pressati da Castro i due andranno in esilio. A loro andò ancora bene, perché ad altri rivoluzionari della prima ora spettò la morte.
Da qui comincia il lugubre regno di Castro, che oggi pretenderebbe di lasciarlo in eredità al fratello, Raul. Una storia ben diversa da quella fumettistica ed agiografica che ci viene continuamente fornita.
Purtroppo nulla ci fa sperare che i cubani siano in grado di liberarsi di el barba prima che sia la natura a decretarne la fine. Bisogna riconoscere che, come dittatore, può ben dare delle lezioni ai Videla ed ai Pinochet. Ha saputo durare ritagliando per sé uno spazio geopolitico protetto; alluvionando di parole i suoi connazionali; uccidendo o portando all’estero gli oppositori; impoverendo ogni settore della vita civile ed economica. Ma non ha spento Cuba. Mi piace ricordare dei versi bellissimi, di Herberto Padilla, un poeta che subì la repressione, la galera, e fu costretto ad una “confessione” in perfetto stile staliniano, od inquisitoriale, se si preferisce, in omaggio alla formazione gesuitica di Castro. Scrive Padilla:
Generale, c’è uno scontro
tra i suoi ordini e le mie canzoni.
(….)
Generale, non posso distruggere le sue flotte o i suoi blindati,
né so quanto durerà questa guerra;
ma ogni sera qualcuno dei suoi ordini muore senza essere eseguito
e rimane imbattuta qualcuna delle mie canzoni.
Ma di Padilla, manco a dirlo, si conosce poco, in Italia, e poco si legge Arenas, poco Cabrera Infante. Tutti poveri poeti e letterati che non hanno avuto la fortuna, che arrise ai Neruda ed ai Garcia Marquez, di battersi dalla parte della potente macchina culturale comunista. Però, Padilla, ha visto lontano. E vincerà. Come sempre capita. Prima o poi.
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