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sempreio
08-06-2005, 18:23
Bilderberg a convegno... sulla nostra pelle
Bilderberg a convegno: 120 politici, banchieri, miliardari e “analisti strategici” vari si riuniscono per decidere delle nostre vite. Come sempre, hanno un solo incubo: un’Europa padrona del proprio destino

Località: il lussuoso Dorint Seehotel di Rottach-Egern, 60 chilometri ad est di Monaco di Baviera. La data: 5-8 maggio. Gli invitati: circa 120 politici, banchieri, miliardari e i loro “analisti strategici” preferiti, da Kissinger a Brzezinski. Il livello di sicurezza: assoluto. Commenti dei grandi media: nessuno, anzi devoto silenzio. Perché, come spiegò nel 1991 David Rockefeller, membro permanente e fondatore del Bilderberg Club, “sarebbe stato impossibile per noi pianificare progetti per il mondo sotto la luce dell’informazione pubblica”. Di solito, alle riunioni del Bilderberg sono presenti i direttori di alcuni celebri giornali selezionati – il Financial Times e il New York Times – ma non è gente da andare in giro a spiattellare le decisioni del padronato globale (1). Anche quest’anno, la riunione del gruppo Bilderberg è stata annunciata solo da un articolo del Financial Times che qualificava preventivamente di “complottisti” tutti coloro che avessero osato definire lorsignori, riuniti all’Hotel Dorint dietro porte chiuse, dei “congiurati”. Il Bilderberg, ufficialmente, “è solo un luogo di discussione di idee”. Dove “ciascuno si esprime con franchezza”. Etienne Davignon, già vicepresidente dell’UE e membro del Bilderberg, ha sancito: “non è un complotto capitalista per governare il mondo”. E’ solo un “un piccolo forum internazionale, flessibile e informale, dove si possono esprimere vedute differenti”. Tutte nel senso di rinsaldare “l’amicizia fra le due sponde dell’Atlantico”; perché il Bilderberg è rigorosamente “bianco” e non accetta asiatici, né sudamericani, né arabi, ma solo statunitensi ed europei. Fondato nel 1954 dal principe Bernardo d’Olanda, il Bilderberg ha membri che, come per caso, appartengono ad altri consessi simili: Council on Foreign Relations, Pilgrims Society, Trilateral Commission, e la famosa Round Table, che “informalmente” (come il Bilderberg) pianificò per un secolo le conquiste, le politiche e i destini dell’impero britannico. Fra questi importantissimi membri, spiccano gli ancora più importanti membri dello “steering committee”, che decidono sul tema delle discussioni da tenere. Fra essi ci sono Josef Ackerman (Deutsche Bank), Jorma Ollila (Nokia), Juergen Schrempp (Daimler-Chrysler), Peter Sutherland, ex generale della NATO ed ora caporione della Goldman Sachs, James Wolfensohn (ex Banca Mondiale). Nuovi aggiunti, in forte delegazione, i neocon ebraico-americani, da Paul Wolfowitz a Richard Perle. Più l’israeliano Nathan Sharanski, già dissidente sovietico, oggi sionista fascistizzante, e consulente di Bush per “la democrazia in Medio Oriente”. Insolita coincidenza, la riunione di quest’anno del Bilderberg ha coinciso con la visita in Olanda e nei Paesi baltici di Bush junior E non è escluso che il presidente americano vi abbia fatto un’apparizione, ovviamente non riportata dalla stampa, insieme alla regina d’Olanda (che inaugura tutti i Bilderberg). Se è così, ha fatto bene. Di solito quello che al Bilderberg si decide a porte chiuse, viene poi eseguito dai G-8, dal Fondo Monetario e da altre istituzioni internazionali. Tanto vale, per i presidenti, saperlo in anticipo. Quali i temi del Bilderberg 2005? A quanto risulta, lorsignori sono preoccupati di tenere la Nato unita e a disposizione delle ulteriori avventure militari americane. Benché in gran parte europei, lorsignori sostengono l’auspicio di Brzezinski, di “un’Europa che resti in larga misura un protettorato americano”. Il che significa, in pratica, che il Bilderberg ha preso decisioni precise: mai e poi mai acconsentire ad una forza militare europea distinta dalla Nato ossia sottratta al controllo Usa. Molto allarmati, lorsignori, per il “no” francese che si profila al referendum sulla Costituzione europea (2). Bisogna sapere che l’autore della sullodata costituzione (mandato di cattura e tutto il resto) è un membro di lusso del Bilderberg, Valéry Giscard d’Estaing. E il commissario europeo che presiede all’espansione senza limiti dell’Europa all’est (Turchia domani, Ucraina e Georgia oggi), Gunther Verheugen, è anche lui membro del club. A proposito: gli alti dignitari dell’UE, quando partecipano alle riunioni del privatissimo Bilderberg, hanno le spese pagate dalla Commissione europea (da noi contribuenti). L’Europa, la “loro” Europa burocratica, preoccupa lorsignori. Sondaggi e inchieste a loro esclusiva disposizione dicono che gli europei ne hanno le scatole piene. E soprattutto a causa dell’ “allargamento ad est”, che porta via posti di lavoro ad Ovest. Ciò fa montare sentimenti protezionisti che sono orrore per i signori del Bilderberg, tutti liberisti d’alta scuola e favorevoli alla globalizzazione più totale. Peggio: rinascono certi nazionalismi, da lorsignori ritenuti sgradevoli, di fronte all’apertura delle barriere doganali all’invasione di merci da Cina e India. Lorsignori sono per l’Europa aperta al saccheggio delle merci cinesi, perché ciò giova alle loro multinazionali; che non giovi ai lavoratori (presto disoccupati) europei, non gliene importa un fischio. Ma temono che i lavoratori (disoccupabili) si mettano a chiedere una “fortezza Europa” alla De Gaulle; il capitolo III della Costituzione del Bilderberg-Giscard esplicitamente indica l’apertura alle merci cinesi come mezzo per distruggere l’eccessivo assistenzialismo e la bella previdenza sociale che rende così poco “competitiva” l’Europa; ed ai lavoratori negri e gialli come mezzo per ridurre i salari troppo alti. Guai se un risveglio di “nazionalismo”, come quello che minaccia di bocciare la Costituzione in Francia il 29 maggio prossimo, si estendesse (come dicono i loro sondaggi) a Olanda - già allievo modello di “multiculturalismo”, oggi schifata dall’invasione musulmana – e in Germania, dove l’ulteriore espansione ad Est - verso i nuovi alleati degli Usa, Ucraina e Georgia - è vista malissimo. Così, il club ha deciso: far ingollare agli europei l’ingresso della Turchia, lo vogliano o no. Perché è il passo necessario per consolidare la presenza americana nella hiartland dell’Asia centrale, dove sta penetrando con tanta arroganza. Si è parlato di Putin, che si ostina a contrastare questo piano di penetrazione nella zona di influenza ex-sovietica. Putin “non a capito la sua nuova situazione”, e gli saranno date tutte le lezioni che merita. Tanto più che umiliare la Russia è necessario perché – come ha chiarito Brzezinski – la strategia globale impone il “contenimento della Cina”, ossia impedire che Pechino emerga come rivale degli Usa in Eurasia. E la Cina ha bisogno della Russia. Ovviamente, in questo quadro s’inserirà l’ormai imminente bastonata all’ Iran: non si tratta tanto di impedire all’Iran di diventare nucleare, ma di vietargli di assumere il ruolo di potenza regionale di primo livello in quell’ area eurasiatica che gli Usa vogliono rendere vassalla. Russia, Cina e Iran sono così stati uniti dal Bilderberg nella qualifica di bersaglio da colpire.

sempreio
08-06-2005, 20:40
potenti contro potenti...

attenzione ragazzuoli non sono comunista, ma per fottere il mondo bisogna conoscerlo:Perfido:


Russia, Cina, India : un nuovo “asse” nella politica mondiale?


La guerra infinita e permanente, considerata il perno del nuovo ordine mondiale intorno al quale far ruotare l’intera economia, proposta dall’imperialismo americano in questa fase storica, ha effetti ben più devastanti di quelli meramente militari. L’uso unilaterale della violenza e della forza ha però provocato reazioni e conseguenze politiche impreviste. Sebbene soggetto a fasi di crescita e di riflusso, il movimento della pace, in tutte le sue varie espressioni sociali e politiche e nella sua dimensione planetaria, è diventato e rimane il soggetto centrale della lotta contro la guerra. Quanto sia consistente il suo peso nel determinare i rapporti di forza su scala mondiale è stato confermato dalla mobilitazione senza precedenti che ha preceduto l’aggressione all’Iraq e suggellato la tempestosa fase politica dominata da oltre un decennio dal dilagante tentativo della superpotenza americana di assumere il controllo unipolare dei centri di comando che governano l’economia, la finanza e la politica mondiale.

Forse è arrivato il momento di verificare fino a che punto il progetto annessionista americano, supportato da un soverchiante potenziale militare in continua crescita, sia riuscito nell’intento di formare una nuova gerarchia di poteri che consenta a Washington di imporre la sua volontà in tutte le istituzioni internazionali.
Il movimento della pace è stato senza dubbio il punto culminante di una resistenza popolare di dimensione planetaria che ha creato non poche difficoltà al progetto imperialista. Sarebbe tuttavia riduttivo trascurare tutti gli altri fattori che concorrono a delineare un giudizio che ridimensiona, e non di poco, il delirio di onnipotenza che ha segnato la politica americana dopo l’11 settembre 2001.


Potenza militare e fragilità politica del progetto americano.

Per valutare con buona approssimazione le tendenze in atto nella politica mondiale e quanto i mutamenti geopolitici possano influire con i loro mutevoli equilibri sulle scelte tattiche e strategiche dei comunisti e dei movimenti antimperialisti, conviene partire da un pregnante giudizio espresso dallo storico Emanuel Todd, un liberale illuminato, autore del libro “Dopo l’impero” uscito nel 2003, poche settimane prima dell’aggressione USA contro l’Iraq.

L’autore tende a dimostrare, come ha in seguito spiegato al settimanale elvetico L’Hebdo a guerra iniziata, quello che poi è successo realmente: l’aggressione unilaterale contro l’Iraq è stata l’espressione più teatrale del militarismo della superpotenza che mira ad esibire al mondo la sua forza soverchiante ma che mostra nel contempo anche una delle sue maggiori debolezze. Il sistema economico e sociale della superpotenza, basato sul saccheggio delle risorse altrui, la rende estremamente dipendente dal resto del mondo e molto più vulnerabile di quello che comunemente si pensa. La tesi dell’autore, già anticipata con notevole lungimiranza analitica da altri storici americani, quali Paul Kennedy (Nascita e caduta delle grandi potenze) e Berch Berberoglu (L’eredità dell’impero), è in grossolana sintesi la seguente: pur avendo proclamato che i loro veri antagonisti, nonché probabili nemici di future guerre nucleari, sono i grandi paesi emergenti come la Cina, l’India e la Russia, le cui dimensioni e il cui potenziale economico e militare in progress stanno già lavorando ai fianchi ed erodendo le ambizioni planetarie della superpotenza, gli Stati Uniti si limitano a mostrare i denti a micro-potenze come l’Iran, la Siria, la Corea del Nord o Cuba. Tutto ciò, ricorda Emanuel Todd, mostra che l’America è diventata talmente debole da poter fare la voce grossa unicamente con dei nani militari. Per restare simbolicamente al centro del mondo non ha altra scelta che scegliersi degli avversari insignificanti. L’unica guerra che gli americani sanno fare oggi, è simile a quella che condussero, ai tempi della conquista del West, contro i Sioux, i Cheyennes e le altre tribù indiane.

“Credo che gli Stati Uniti siano soltanto in grado di seppellire l’Iraq sotto le bombe. Ma non sono assolutamente in grado di giungere ad un controllo durevole e stabile delle sue risorse petrolifere, in quanto sarebbe troppo costoso in termini di vite umane. Che ne siano coscienti oppure no gli Stati Uniti hanno già perso la loro guerra in Iraq. Quella guerra non farà altro che accelerare la messa a punto di una coalizione mondiale contro di loro. Il riavvicinamento tra europei e russi procederà senza sosta, i rapporti con i grandi paesi dell’Asia peggioreranno e gli Stati Uniti dovranno fare i conti ed arretrare sul piano diplomatico e politico rendendosi conto di come sia iniziata la fase di declino della loro apparente fase di onnipotenza.”

Una conferma di questa tendenza al declino arriva anche da alcuni studiosi ed esperti americani e sudcoreani, quando maliziosamente si chiedono il perché dello strano atteggiamento assunto dagli Stati Uniti contro la Corea del Nord, cioè un infinito alternarsi di bugie, minacce di guerra, false promesse, finte aperture, fallimenti negoziali e ricatti ai paesi alleati, nei confronti di un paese che nella lista degli “Stati canaglia” emerge come il nemico più odiato dall’America. Sono in molti a chiedersi come faccia a reggere la sfida con la superpotenza un paese stremato – cosi si dice – da una tremenda crisi economica che lo avrebbe ridotto alla fame. Dopo tante minacce di invasione, cosa impedisce agli Stati Uniti di aggredire, senza incontrare particolari difficoltà, anche la Corea del Nord?

La risposta è evidente: alle spalle della Corea del Nord incombe l’ombra di due giganti, la Cina e la Russia, che non hanno nessuna intenzione di assecondare le pressioni politiche e militari di Washington (1). Non solo. Sono sempre più numerosi i segnali che si stia precisando anche una strategia comune, concordata da Russia e Cina, per contrastare il dominio unipolare, costruendo, a partire dall’Asia, un sistema di relazioni economiche, politiche e militari che sia in grado di opporre resistenza al progetto annessionista planetario esplicitato, “in nome di Dio”, dalla leadership imperialista di Washington.

Ciononostante, l’amministrazione di Washington insiste. Nel suo discorso di insediamento al Dipartimento di Stato, Condy Rice, incurante delle disastrose conseguenze dell’avventura irachena, ha espresso i due concetti basilari che ispireranno la sua politica estera nei prossimi anni: ricucire, da un lato, i molti strappi con i paesi alleati e “amici” (più o meno il resto del mondo), ma, nel contempo, aggiungere alla lista degli “stati canaglia” altri paesi, in particolare lo Zimbabwe e la Bielorussia. Sono aggiunte che estendono il concetto di intervento militare unilaterale anche in un continente come l’Africa, finora tenuto sottotraccia dal Dipartimento di Stato, mentre collocano nel mirino del Pentagono un paese come la Bielorussia storicamente legato al suo potente vicino orientale e formalmente garantito da un trattato di unione politica e militare con la Federazione Russa.
Sono scelte, quelle della Rice, imprudenti, oltre che impudenti, che in entrambi i casi potrebbero far aumentare, anziché diminuire, le prese di distanza del resto del mondo dalla politica di Washington.


Chi scende e chi sale: confronti e conflitti economici tra paesi emergenti e dominatori del pianeta.

Per valutare realisticamente quali siano le dinamiche e le dimensioni temporali di questo declino ed evitare illusioni su un inverosimile autocollasso dell’impero americano in tempi ravvicinati, ricadendo negli errori già commessi da storici marxisti negli anni 30 circa gli esiti scontati della crisi generale del capitalismo che si dava per giunto nella sua fase terminale, occorre individuare nel fenomeno il suo carattere processuale, cogliendo, senza trascurare la possibilità di eventuali fasi di recupero temporaneo, l’entità e la continuità storica di questo declino.
Forse è un po’ esagerato valutare in termini di “apocalisse dietro l’angolo” l’allarme lanciato da autorevoli economisti americani come Stephen Roach, capo della Morgan Stanley, quando dichiara sul “Boston Herald” che gli Stati Uniti non hanno più del 10% di probabilità di evitare una “Armageddon” economica (G.Chiesa, Stampa, 15/12/2004). Siccome però il deficit commerciale USA ha dimensioni gigantesche, il dollaro è in caduta libera e le spese militari fuori controllo, le previsioni di Roach su una “spettacolare ondata di bancarotte” ed una verticale contrazione dei consumi interni USA non sembrano essere del tutto infondate.

Guerra, riarmo ed espansione economica sono state per più di trent’anni – dopo la fine della seconda guerra mondiale – categorie complementari del sistema americano che hanno permesso agli Stati Uniti di comandare indisturbati nei due terzi del pianeta. Ma l’età dell’oro è finita e i numeri sono cambiati, e di molto: nel 2001 il PIL degli USA è sceso dal 50% al 21%, quello europeo (ancora ristretto a 15 Stati) al 16% e quello giapponese al 7% con un totale del 44% della produzione mondiale. Non è difficile intuire da chi e dove sia prodotto il rimanente 56% del PIL mondiale.

E’ sorprendente che questa analisi sul declino dell’impero americano sia proposta dieci anni dopo gli sconvolgimenti geopolitici degli anni 90 che hanno radicalmente cambiato i rapporti di forza tra gli Stati e tra le classi, costringendo il movimento operaio e i movimenti di liberazione ad una regressione politica, sociale ed ideologica senza precedenti. Sappiamo tutti come è andata: il bastone del comando è stato confiscato dalla superpotenza imperialista impegnata a costruire una nuova gerarchia di poteri mondiali che, dalla condivisione iniziale con i vassalli europei e giapponesi, è diventata in seguito unipolare, fino a consentire agli Stati Uniti di agire comunque da soli in qualsiasi parte del mondo anche senza l’avvallo dell’ONU e della NATO.

Su queste basi si sono costruiti concetti bizzarri, come quelli scritti, nero su bianco, non più tardi di tre anni fa, nelle tesi congressuali di Rifondazione comunista: fine delle contraddizioni interimperialiste, Stati nazionali in via di estinzione, nascita di una cupola mondiale di potere titolata a gestire in perfetta sintonia guerra, economia, politica e massacro sociale. La tesi, dominante fino ad oggi nel movimento, circa l’esistenza di una cupola mondiale ha fatto si che si sia continuato a combattere una fantomatica monarchia nel momento in cui il mondo diventava una repubblica sovraccarica di contraddizioni dirompenti. Qui c’è uno scarto, una divergenza politica, teorica e strategica che occorre riconoscere e affrontare apertamente tra le varie anime del movimento ma soprattutto nel PRC.


Cina e Russia: si profila una nuova entità geopolitica eurasiatica.

I segni del declino americano e il possibile passaggio da un mondo unipolare ad uno multipolare sono avvertibili in tutti i continenti, ma con particolare evidenza sicuramente in Asia. Cina, Russia e India cominciano a scombinare le pedine della “grande scacchiera” e appaiono sempre più come i nuovi protagonisti della politica mondiale. E qui non stiamo parlando delle pur sempre rispettabili contraddizioni interimperialiste come quelle che hanno opposto la Francia e la Germania, e poi la Spagna di Zapatero, all’avventura irachena di Bush. L’operazione messa in atto dalla
Triade eurasiatica comincia a mostrare proiezioni temporali e dimensioni tattiche e strategiche di ben altro spessore e respiro e comprende collaborazioni, scambi e reciproci sostegni in tutti i campi: politico, economico e militare. In parole povere si tratta di un potenziale che si estende su un quarto delle terre emerse e comprende un terzo abbondante della popolazione planetaria, che considera giunto il momento di costruire un’alternativa diversa al nuovo ordine mondiale che gli Stati Uniti cercano di imporre, offrendo, in alcuni casi (valga per tutti l’esempio di Venezuela e Cuba) una robusta sponda politica ed economica ai paesi che resistono alle pressioni militari e golpiste dell’imperialismo. E non è certo privo di significato che, in occasione della recente visita di Putin in India, per la prima volta in una dichiarazione comune seguita ad un incontro al vertice tra capi di Stato, Russia e India facciano esplicito riferimento ad una stabile cooperazione trilaterale con la Cina. “Rilevando con soddisfazione che gli incontri trilaterali tra i Ministri degli esteri dei tre Paesi si sono svolti regolarmente…al fine di promuovere la cooperazione trilaterale, di cui si auspica un progressivo incremento”. (2)

Pechino, Mosca e Delhi stanno diventando le mete sempre più frequentate dalle leadership statuali di paesi sudamericani, africani ed asiatici che cercano di sottrarsi al dominio soffocante del neocolonialismo americano. E certe sfide antimperialiste che prima apparivano temerarie, come appunto quella del Venezuela di Chavez, diventano ora possibili.
Anche nello spazio ex sovietico le pressioni, separate ma convergenti, del Pentagono e della Nato (diventate sempre più pesanti dopo gli esiti della guerra contro la Jugoslavia) stanno producendo risposte adeguate di segno contrario rispetto a quelle sperate a Washington e a Bruxelles. La Bielorussia che resiste all’avanzata della NATO, la Moldavia governata dai comunisti, il ricchissimo di materie prime Kazakhstan riluttante ad essere inglobato nell’area di influenza americana, ritrovano con la Russia e con la Cina un terreno di intesa e di collaborazione globale, nonché la forza di resistere alle minacce militari e golpiste.
Intese e trattati si susseguono senza sosta. Limitiamoci a individuare solo alcuni dei passaggi più importanti.


Le relazioni tra Russia e Cina. Quale tipo di alleanza?

Le relazioni di partnership strategica tra Russia e Cina, che avevano avuto solenne sanzione con lo storico trattato di amicizia siglato il 16 luglio 2001, hanno ricevuto nuovo impulso con la visita effettuata dal presidente russo Vladimir Putin a Pechino nell’ottobre 2004. I contenuti economici politici e militari dei trattati sottoscritti sono di una rilevanza tale da consentire a molti analisti di affermare che ci troviamo di fronte alla creazione di un vero e proprio “asse” tra Mosca e Pechino.
Cina e Russia appaiono vicine come mai era accaduto negli ultimi anni: sinonimo di un’alleanza che oltrepassa ragioni economiche e che esplora nuove dimensioni che dovranno essere considerate per comprendere maggiormente gli scenari possibili dell’Asia del futuro.

Sul piano politico, la dichiarazione congiunta russo-cinese sancisce il reciproco sostegno alla difesa dell’unità nazionale dei due paesi, insidiata dalla presenza di attività separatiste, notoriamente sostenute dagli Stati Uniti d’America. La parte cinese condanna l’azione destabilizzante dei terroristi ceceni nella regione caucasica, mentre la Russia è pienamente solidale con la Cina sulla questione di Taiwan e del Tibet e riconosce il suo diritto di legittimo rappresentante del popolo cinese. Il richiamo al multilateralismo come perno delle relazioni internazionali ha assunto una particolare enfasi nella dichiarazione congiunta russo-cinese.

Nell’incontro tra Putin e Hu Jintao è stato ribadito l’impegno ad un ulteriore sviluppo dell’ “Organizzazione di Shanghai” che nel mese di giugno 2004 aveva visto un incontro al vertice dei paesi partecipanti alla possente comunità di Stati e l’introduzione di nuovi significativi capitoli di cooperazione economica, politica e militare. India, Pakistan, Iran e Mongolia hanno chiesto di aderire a tale organizzazione. Se la loro richiesta sarà accettata, sorgerà un poderoso organismo comunitario, con competenze anche in ambito militare, che non ha eguali su scala planetaria.
Anche la collaborazione economica tra Russia e Cina viene consolidata da nuovi, giganteschi accordi : la Cina prospetta di investire al di là dei confini una cifra pari a 12 miliardi di dollari entro i prossimi anni e si prevede che, in tempi ravvicinati, il volume degli scambi tra i due paesi possa aumentare di ben quattro volte. E’ stato siglato anche un accordo che prevede svariate forme di collaborazione nel settore della ricerca e della sperimentazione spaziale compresa la creazione di società miste.

Ma è soprattutto sul piano della cooperazione in campo militare che l’ultimo vertice russo-cinese ha segnato notevoli passi in avanti ed una novità molto significativa. Per Pechino la Russia rappresenta sostanzialmente l’unica fonte di armamenti tecnologicamente avanzati e attualmente la Cina assorbe quasi la metà delle esportazioni di armi di fabbricazione russa. La tecnologia russa è servita per il potenziamento della contraerea missilistica, mentre la flotta cinese è stata potenziata con l’acquisto di due portaerei, sistemi radar avanzati e missili di diversa gittata.

Gli analisti sono concordi nel valutare che la politica di armamenti della Cina abbia come obiettivo quello di poter competere con gli Stati Uniti e che, in tale contesto, la sua partnership strategica con la Russia assuma un ruolo decisivo. Tale da far prefigurare ulteriori sviluppi dell’alleanza militare. Sempre in tale contesto la visita di Putin ha avuto come seguito, non certo da sottovalutare per le implicazioni che esso comporta, la decisione assunta dai ministri della difesa dei due paesi di dare corso, nel 2005, ad imponenti manovre militari congiunte. Il che rappresenta un avvenimento di portata storica. E’ infatti la prima volta che succede nella storia dei due paesi ed è ipotizzabile che tale decisione abbia suscitato qualche apprensione al Pentagono, a cui non è certo sfuggita la sua valenza simbolica. Così come senza precedenti è l’annuncio del capo di Stato maggiore dell’esercito indiano, generale N.C. Vij, che - di ritorno da una recente visita in Cina - ha dichiarato che l’India ha proposto alla Cina di tenere esercitazioni militari comuni e che Pechino “ha apprezzato la proposta e ha promesso di prenderla in considerazione” (Corriere della Sera, 7.1.2005).

India-Russia: nuova collaborazione strategica.

La visita di tre giorni in India effettuata da Vladimir Putin nel dicembre 2004, ha rappresentato un salto di qualità nelle relazioni di carattere strategico che i due grandi paesi intrattengono ormai da decenni, e che sembravano aver subito una battuta d’arresto nel periodo in cui al governo del grande paese asiatico c’era la destra nazionalista e ultraliberista del BJP.

Con l’avvento del nuovo governo di centro-sinistra guidato dal Partito del Congresso (che gode del sostegno esterno dei due grandi partiti comunisti indiani, che non hanno mancato di rimarcare l’eccezionale importanza delle intese indo-russe), le priorità di politica estera appaiono sostanzialmente cambiate, mentre la Russia, dopo le dimissioni di Ivanov (che aveva coniato l’espressione di “Russia, alleato naturale dell’occidente”) dal ministero degli esteri e l’arrivo di Lavrov, esprime oggi un maggiore attivismo in materia di sicurezza nella regione del sud-est asiatico (anche attraverso forme di collaborazione militare con il Vietnam socialista). Il che fa ritenere che sia proprio Putin tra i più convinti fautori della leadership russa della necessità di ricostruire una partnership strategica che presenti la stessa solidità (in assenza, ovviamente, dei caratteri ideologici di allora), che esisteva al tempo del confronto tra i due blocchi, quando l’India, per iniziativa dei governi espressi proprio dal Partito del Congresso, socio fondatore del movimento dei paesi non allineati, aveva instaurato un rapporto privilegiato di collaborazione con l’Unione Sovietica.

L’impressione di trovarci di fronte ad una fase decisiva delle relazioni indo-russe si ricava sia dai contenuti della dichiarazione congiunta siglata a Delhi, che dai dieci accordi conclusi, che investono gli ambiti più svariati, dalla ricerca spaziale all’energia, dalla navigazione ai servizi finanziari.
Putin ha affermato che “l’India è il nostro partner privilegiato….dal punto di vista della collocazione geografica….l’India è sicuramente il numero uno (tra gli alleati)”.
L’enfasi posta da Putin va interpretata nel contesto geopolitico e in quello militare. In termini geopolitici significa che la Russia riconosce la supremazia dell’India nel sub-continente indiano, mentre sul piano militare Mosca attribuisce all’India lo status di partner strategico privilegiato.
Riconoscendo il rovesciamento di tendenza rispetto alla scelta filo americana del precedente governo di destra del BJP, alcuni analisti indiani (e tra questi anche specialisti che militano nelle file comuniste) sono concordi nel rilevare che il nuovo governo di centro-sinistra, al contrario, torna a guardare alla Russia come l’alleato più affidabile. Bharat Barnad, studioso del New Delhi’s Center for Policy Research, afferma che “la Russia ha sempre rappresentato il contrappeso dell’America nelle nostre relazioni, e continuerà a rappresentarlo” (Anjana Pasricha, “India, Russia to strenghten partnership with Putin visit, 2 december 2004, Voice of America), dal momento che essa “rappresenta ancora il maggiore fornitore di tecnologie militari”.

Anche Subhash Kapila del South Asia Analysis Group mette in rilievo come, nel determinare i più recenti approcci della politica estera indiana, abbia inciso l’evidente raffreddamento delle relazioni con gli Stati Uniti. “All’inizio del nuovo millennio, l’India si apprestava a stringere una relazione da “alleato naturale” degli Stati Uniti…..Ma nel corso degli ultimi quattro anni, gli Stati Uniti non hanno voluto onorare gli impegni presi con l’India attribuendole la preminenza nella regione…..Gli Stati Uniti sono tornati alle formulazioni della Guerra Fredda circa la priorità strategica del Pakistan nell’Asia Meridionale” (Subhash Kapila, “Russia rekindles strategic partnership with India”, South Asia Analysis Group, Paper no.1180).

Non è quindi privo di significato, che va ben al di là della specifica iniziativa, che la Russia abbia assunto l’impegno a sostenere la candidatura dell’India al seggio, con diritto di veto, nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ottenendone in cambio la garanzia che l’India si pronunci, in tutte le sedi internazionali, a favore del suo ingresso nell’0rganizzazione Mondiale del Commercio.
Ma è sul piano della collaborazione militare che si sono registrate intese particolarmente rilevanti: anche con l’India, come già con la Cina, Mosca ha stabilito di procedere in tempi brevi all’effettuazione di manovre congiunte in grande stile delle forze armate dei due paesi.


Fino a che punto questi elementi dinamici della politica internazionale siano percepiti ed incidano sulle scelte dei partiti comunisti lo si può constatare dall’ampio spazio riservato dai mezzi di informazione della sinistra (in particolare in grandi paesi interessati agli sviluppi di questi processi, come l’India e il Brasile), per i quali una corretta analisi delle contraddizioni esistenti su scala planetaria, la dimensione internazionale dello schieramento antimperialista e la lotta per la pace appaiono la priorità strategica nella fase politica attuale. Le incalzanti iniziative di Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica, Cuba, Venezuela, Vietnam sono pertanto considerate parte integrante dei processi che possono cambiare i rapporti di forza con l’imperialismo su scala mondiale. Tutto ciò che contribuisce al contenimento del potenziale aggressivo della superpotenza, al suo declino ed al passaggio ad un mondo multipolare, favorisce le politiche di sviluppo economico e sociale dei paesi emergenti e del terzo mondo. Lo ricorda Rolando Carmona, dirigente del Partito Comunista del Brasile quando scrive che gli accordi stipulati dal Brasile “con paesi come la Cina, la Russia, l’India e il Sudafrica, attualizzano il concetto di alleanza sud-sud e favoriscono la vittoria delle lotte per i cambiamenti nel nostro paese” (http://www.vermelho.org , 27/11/2004). Lo rileva, su un altro versante, anche Il Sole-24 ore (11.11.2004) quando evidenzia, con preoccupazione, “i due insuccessi strategici, americano ed europeo,…nel negoziato multilaterale in ambito WTO”. Il che delinea “uno scenario completamente nuovo” e “nuovi equilibri”, con “Cina, Russia, India, Brasile e Sudafrica allineati sulle stesse posizioni”. Dove, sempre secondo il giornale di Confindustria, “l’elemento stupefacente è che, a 15 anni dalla caduta del Muro, un Paese comunista (la Cina), che esercita un forte controllo politico e un marcato dirigismo in materia infrastrutturale, sconfigga due giganti come Stati Uniti ed Europa”.


Note

(1) Non meno significativo il sostegno cinese a Cuba, enfatizzato nel corso di due importanti incontri ai massimi livelli svoltisi nei mesi scorsi. Durante una visita a Pechino di José Ramon Machado, vice-presidente del Consiglio di Stato e membro del Burò Politico del Partito comunista di Cuba, nel corso dell’incontro col Presidente cinese Hu Jintao (che è anche Segretario generale del PCC), questi ha dichiarato che “la Cina ribadisce il suo sostegno a Cuba…a prescindere da qualsiasi circostanza sul piano internazionale…e il sostegno cinese alla lotta del popolo cubano contro le aggressioni straniere e in difesa della sovranità e dell’indipendenza dell’Isola”. “Negli ultimi anni – ha proseguito il leader cinese – Cina e Cuba, così come i partiti comunisti dei due paesi, hanno rafforzato i rapporti di fiducia reciproci ed hanno esteso la loro collaborazione in vari campi. Entrambi i partiti aderiscono al socialismo e sperimentano una via di sviluppo coerente alle loro condizioni nazionali”. Per parte sua Machado “ha ribadito la decisione cubana di rafforzare la collaborazione con la Cina in tutti i campi; e ha ricordato che il PC di Cuba e quello cinese si sostengono reciprocamente nella costruzione del socialismo nei rispettivi Paesi e cooperano strettamente nelle questioni internazionali” (Granma, 27.09.2004).
Concetti analoghi sono stati ribaditi durante l’incontro con Fidel Castro in occasione della visita a Cuba del leader cinese Hu Jintao svoltasi nel novembre scorso, durante la quale “il presidente cinese ha concluso importanti accordi commerciali e di cooperazione economica con l’isola” (Repubblica, 26.11.2004). Sono sempre gli osservatori occidentali a rilevare che le varie iniziative cinesi “di sostegno all’isola caraibica, in ginocchio a causa della crisi economica, sono uno schiaffo per gli Stati Uniti, che hanno imposto al Paese un duro embargo” (idem).

(2)Un aspetto importante di tale “cooperazione trilaterale” tra Russia, Cina e India si è potuto verificare in modo stringente in occasione dell’ affare Yukos, ovvero della sostanziale decisione di Putin di rinazionalizzare in Russia i centri fondamentali di controllo delle fonti di energia. Come rileva Il Sole-24 ore (23.01.2005), “la nazionalizzazione di Yukos ha contrariato gli occidentali, così che per finanziare l’acquisto di Yuganskneftegaz, il “pezzo forte” della compagnia, Mosca si è rivolta ai cinesi e agli indiani : entrambi affamati di energia per sostenere la crescita”. Il che ha avuto come conseguenza “l’imminente divisione degli asset della compagnia tra Russia, Cina e India”. Dove l’impresa statale indiana avrà “il 15%…mentre la cinese CNPC (statale) punta ad un accordo globale che oltre all’acquisto del 20-25% di Yuganskneftegaz dovrebbe garantire la fornitura di almeno 200 milioni di barili di greggio russo (annui)”, pari al 20% delle importazioni totali di greggio che la Cina prevede per il 2005.

Adric
12-06-2005, 23:31
www.bilderberg.org/bilder.htm

Comunque l'alleanza Russia-Cina-India rischia di attirarsi l'ostilità di tutto il mondo musulmano, sia quello filo-Usa che anti-Usa, dal Magreb fino all'Indonesia. E non c'è dubbio che l'anello debole dell'alleanza è l'India, con i suoi numerosi conflitti interni etnico-religiosi (specie tra indù e musulmani) e le sue tensioni col Pakistan e il Bangladesh, mentre la Cina è il paese più omogeneo al proprio interno.
Turchia, Israele, Iran, Pakistan e Indonesia non sono certo potenze regionali di serie B; inoltre l'alleanza dei tre giganti rischia di accentuare l'isolamento geografico di Australia, Nuova Zelanda e Giappone.

E chissà che non emerga una contro-Bilderberg asiatica nei prossimi anni, specie se l'espansione economica cinese e indiana continuerà su questi livelli sostenuti.

Ci sono molte potenziali variabili, è un'era in cui le prospettive geopolitiche specie a medio e lungo termine sono incerte e suscettibili di cambiamento; da una parte ciò crea equilibrio ma dall'altra anche instabilità.

sempreio
27-06-2005, 17:07
www.bilderberg.org/bilder.htm

Comunque l'alleanza Russia-Cina-India rischia di attirarsi l'ostilità di tutto il mondo musulmano, sia quello filo-Usa che anti-Usa, dal Magreb fino all'Indonesia. E non c'è dubbio che l'anello debole dell'alleanza è l'India, con i suoi numerosi conflitti interni etnico-religiosi (specie tra indù e musulmani) e le sue tensioni col Pakistan e il Bangladesh, mentre la Cina è il paese più omogeneo al proprio interno.
Turchia, Israele, Iran, Pakistan e Indonesia non sono certo potenze regionali di serie B; inoltre l'alleanza dei tre giganti rischia di accentuare l'isolamento geografico di Australia, Nuova Zelanda e Giappone.

E chissà che non emerga una contro-Bilderberg asiatica nei prossimi anni, specie se l'espansione economica cinese e indiana continuerà su questi livelli sostenuti.

Ci sono molte potenziali variabili, è un'era in cui le prospettive geopolitiche specie a medio e lungo termine sono incerte e suscettibili di cambiamento; da una parte ciò crea equilibrio ma dall'altra anche instabilità.

ma quando si arriverà alla vera democrazia? ( domanda retorica) mi sa che dovrenno esserci ancora guerre su guerre. :muro: