View Full Version : Basi per una discussione: terminologie
Io credo che prima di affrontare una discussione, su qualunque argomento e in qualunque campo, bisogni avere ben chiari i punti di partenza.
In caso contrario, io dico A e il mio interlocutore capisce S.
Tuttavia, ultimamente, ho trovato grosse difficoltà ad affrontare qualunque tipo di discussione perchè ho notato che non c'è chiarezza -e mi pare che manchi pure la volontà di fare chiarezza- sulla terminologia utilizzata. Si sta sempre sul vago, sul "non è importante", non è questa la questione...
Ora, è chiaro che ci siano campi in cui si può dare una definizione rigorosa e matematica, mentre altri in cui sia più complesso. Tuttavia, dei punti fermi, dei paletti, si possono secondo me sempre trovare.
Allora, vorrei discutere un attimino (Jumper dove vai? Non nasconderti dietro il mouse che t'ho visto... :D ) sul seguente tema: quali sono le definizioni e i requisiti tecnici e medici per poter parlare di eutanasia, terapia medica, accanimento terapeutico, morte naturale.
Dal punto di vista scientifico, medico e lessicale eh, prima di entrare in qualunque altro piano della discussione bisogna aver ben chiaro questo.
Prego...
Originariamente inviato da gpc
Io credo che prima di affrontare una discussione, su qualunque argomento e in qualunque campo, bisogni avere ben chiari i punti di partenza.
Secondo me è comunque utile mettere bene in chiari i propri punti di partenza e i propri ragionamenti. Spesso le discussioni più lunghe avvengono per piccole differenze di interpretazione o per l'uso diverso di alcuni termini.
Allora, vorrei discutere un attimino (Jumper dove vai? Non nasconderti dietro il mouse che t'ho visto... :D ) sul seguente tema: quali sono le definizioni e i requisiti tecnici e medici per poter parlare di eutanasia, terapia medica, accanimento terapeutico, morte naturale.
Dal punto di vista scientifico, medico e lessicale eh, prima di entrare in qualunque altro piano della discussione bisogna aver ben chiaro questo.
Queste definizioni coinvolgono anche considerazioni etiche e, in ultima analisi, convenzioni. Ad esempio la morte è un processo, e viene stabilita quando alcuni parametri biologici importanti (esempio, encefalogramma) non variano più per un determinato periodo di tempo). Ma questa è una definizione tutt'altro che perfetta, e infatti non mancano casi di "resurrezioni".
Originariamente inviato da Banus
Secondo me è comunque utile mettere bene in chiari i propri punti di partenza e i propri ragionamenti. Spesso le discussioni più lunghe avvengono per piccole differenze di interpretazione o per l'uso diverso di alcuni termini.
Era proprio la chiarezza dei termini che chiedevo :D
Queste definizioni coinvolgono anche considerazioni etiche e, in ultima analisi, convenzioni. Ad esempio la morte è un processo, e viene stabilita quando alcuni parametri biologici importanti (esempio, encefalogramma) non variano più per un determinato periodo di tempo). Ma questa è una definizione tutt'altro che perfetta, e infatti non mancano casi di "resurrezioni".
Sì, ma sono definizioni.
L'accanimento terapeutico ha una sua ben chiara definizione medica, così come una terapia medica, e anche termini come eutanasia hanno un significato ben chiaro. E' questo che chiedo... al di là delle valutazioni etiche, ma solo ed esclusivamente dal freddo punto di vista scientifico.
Originariamente inviato da gpc
L'accanimento terapeutico ha una sua ben chiara definizione medica, così come una terapia medica, e anche termini come eutanasia hanno un significato ben chiaro. E' questo che chiedo... al di là delle valutazioni etiche, ma solo ed esclusivamente dal freddo punto di vista scientifico.
Ho provato a cercare le definizioni mediche, ma ci sono troppe discussioni sull'argomento in rete, mi depistano la ricerca :p
Originariamente inviato da Banus
Ho provato a cercare le definizioni mediche, ma ci sono troppe discussioni sull'argomento in rete, mi depistano la ricerca :p
Pigro... :D
Leggile tutte e riassumi :sofico:
Non è semplice trovare definizioni "esatte" delle parole che citi. Provo a postare quello che ho trovato, ma credo che potrebbe nascere una discussione anche solo parlando di definizioni.
Eutanasia
Morte dolce procurata a chi è afflitto da un male incurabile
Terapia
Branca delle medicina che si occupa delle applicazioni di rimedi e cure nel trattamento delle malattie.
oppure, ma è più o meno la stessa cosa,
Branca della medicina che si occupa della conoscenza degli agenti curativi e del loro impiego razionale per migliorare o curare i malati.
Per quanto riguarda invece l'accanimento terapeutico e la morte le cose si complicano, e non ho trovato vere e proprie definizioni, ma brevi trattatelli che posto, per chi avesse comunque voglia di leggerli:
Accanimento terapeutico
Con "accanimento terapeutico" si deve intendere l’ostinazione “futile” a proseguire terapie, che si sono dimostrate inutili o sproporzionatamente gravose per il malato, per il fatto che non migliorano la sua condizione né impediscono la morte per un tempo ragionevole, ma solo prolungano di qualche tempo la vita, imponendo all’ammalato gravi sofferenze.
Si parla di ostinazione “futile”, perché è inutile e senza senso, in quanto tendente a impedire un evento ineluttabile, qual è la morte; ma bisognerebbe parlare di un’ostinazione dannosa per il paziente che viene inutilmente sottoposto a gravi sofferenze non allo scopo di migliorare la sua situazione o di alleviare le sue sofferenze, ma al solo scopo di prolungare di qualche tempo una vita già irrimediabilmente e irreversibilmente vicina alla morte. In realtà, alla base dell’accanimento terapeutico c’è la non accettazione dell’evento naturale della morte, per cui ci si accanisce a prolungare una vita, destinata a concludersi in breve tempo, a prezzo di gravi sofferenze imposte al malato, che dovrebbe invece essere lasciato morire naturalmente in pace. Perciò, invece che con forme, inutili e crudeli, di accanimento terapeutico, il malato terminale, che non ha speranze di miglioramento e tanto meno di guarigione, va curato con cure palliative.
Osserva il Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) nella Relazione sopra citata, parlando “dell’alto valore bioetico che possiedono le cure palliative: “Queste, infatti, trovano la loro sostanza non nella pretesa illusoria di poter strappare un paziente alla morte, ma nella ferma intenzione di non lasciarlo solo, di aiutarlo quindi a vivere questa sua ultima radicale esperienza nel modo più umano possibile, sia dal punto di vista fisico sia da un punto di vista spirituale. Volte primariamente ad alleviare il dolore in generale, e in particolare quello dei malati terminali, le cure palliative hanno allargato e continuano ad allargare il loro orizzonte e il loro ambito di azione e si presentano nel nostro tempo come uno dei campi in cui la moderna medicina manifesta la sua vocazione profonda di cura, in senso globale, quindi non solo fisico, ma anche psicologico ed esistenziale, dei sofferenti. Il CNB richiama l’attenzione della pubblica opinione su quanto meritevole sia il lavoro svolto dalle numerose associazioni di volontariato che si prodigano nel campo della palliazione ed è convinto che il loro esempio possa e debba ampiamente diffondersi”.
Ricordo che su questo difficile e delicato aspetto del problema ancora una volta la Chiesa ci ha illuminato con chiarezza. Prima Pio XII , poi Paolo VI ed infine Giovanni Paolo II con l' enciclica Evangelium vitae (n. 64-67), ci hanno aiutato a riconoscere i limiti della Scienza ed a rifiutare l' "ostinazione terapeutica" praticata per ragioni che poco o nulla hanno a che fare con l' amore per la vita.
Morte
2. - Definizione di morte
2.1. - I concetti di "morire", di "morte cardiaca", di "morte cerebrale"
La morte non estingue in modo istantaneo e globale l'attività di tutte le cellule. Infatti, il "morire", sul piano biologico, deve riconoscersi come un processo evolutivo che colpisce gradualmente le cellule dei diversi tessuti e le relative strutture subcellulari sulla base della loro differente resistenza alla carenza di ossigeno, sino alla estinzione di ogni attività vitale, con il permanere dei soli fenomeni enzimatici colliquativi-putrefattivi. Ma non è certo opportuno attendere l'instaurarsi della "morte biologica" per dichiarare morto un essere vivente.
E' possibile, invece, definire il momento della cessazione della vita dell'essere come organismo integrato, attraverso criteri scientificamente dimostrati, riferendoci all'organismo umano espresso nella sua integrità morfologica e funzionale.
Se la determinazione della morte è di facile riscontro oggettivo nei casi di "devastazione", cioè nei casi di disintegrazione fisica della persona (condizione che si realizza ad esempio nei disastri aerei, nelle catastrofi naturali e belliche) è assai meno ovvia e assoluta nei casi quotidiani di diagnosi di morte.
Comunemente il momento della morte viene fatto coincidere con l'arresto del battito cardiaco (la cosiddetta "morte cardiaca"). L'assenza del battito cardiaco e dei polsi periferici, la presenza di un elettrocardiogramma piatto per non meno di 20 minuti sono i segni che, anche a termine di legge (art.8 del Regolamento di Polizia Mortuaria, 10 settembre 1990), consentono la diagnosi di morte.
Tale condizione determina la cessazione, in termini perentoriamente irreversibili, della possibilità di recupero della funzione cerebrale e di tutti gli altri organi e apparati.
Le tecniche di rianimazione hanno consentito di vicariare le principali funzioni biologiche (cuore, circolo, respiro) con mezzi strumentali, permettendo di creare un'apparenza di vita del tutto artificiale, anche nei pazienti con lesioni neurologiche globali e irreversibili. t pertanto possibile mantenere in condizioni straordinarie un cuore battente, reni e fegato funzionanti, e così via, in un paziente con strutture cerebrali totalmente e irrimediabilmente lese.
Approvare e servirsi della definizione di "morte cerebrale" non significa però ridefinire il concetto di morte; soltanto indicare una nuova modalità di identificare la morte così da essere preparati ad utilizzare due formulazioni alternative: quella tradizionale di morte cardiaca e quella innovativa della morte cerebrale.
Ambedue identificano comunque l'essenza del concetto di morte nella perdita totale ed irreversibile della capacità dell'organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale.
Invero, questa difficoltà ad accettare la morte cerebrale quale nuovo criterio di morte è presente in tutti i paesi, anche in quelli economicamente e culturalmente più avanzati.
2.2. - Caratteristiche del concetto di "morte cerebrale"
Sembra opportuno, pertanto, fornire qualche ulteriore informazione al riguardo.
Negli USA, già dal 1981, la "President's Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biochemical and Behavioral Research" ha stabilito che la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali, in accordo con standard medici accettati, sia criterio sufficiente per l'accertamento della morte.
Ciò nonostante un sondaggio Gallup del 1985 ha rivelato che, pur se il 75% degli americani ha sentito parlare di morte cerebrale, solo il 55 % di essi è d'accordo ad usare questa definizione come criterio di accertamento di morte della persona.
Nelle altre nazioni non vi è un modello di comportamento univoco alla morte cerebrale. In alcune esistono disposizioni di legge che codificano la morte cerebrale, ne stabiliscono i criteri e la equivalgono alla morte dell'intero organismo; in altre, viene accettata senza alcuna disposizione di legge e la diagnosi è affidata all'esclusivo giudizio del medico, per altre ancora non viene accettata come causa di morte (ad esempio nei paesi islamici).
E' chiaro che non sarà facile modificare una tradizione culturale che affonda le sue radici nell'origine dell'uomo.
La morte cerebrale, descritta per la prima volta nel 1959 da Mollaret e Goulon, definisce l'autolisi, la necrosi asettica degli emisferi cerebrali e del tronco, cioè la distruzione completa ed irreversibile di tutto il contenuto della cavità cranica fino al primo segmento cervicale.
Solo una percentuale inferiore all'1 % delle morti assume le caratteristiche della morte cerebrale: si tratta invariabilmente di quei casi in cui un danno cerebrale organico, irreparabile, sviluppatosi acutamente ha provocato uno stato di coma irreversibile dove il supporto artificiale è avvenuto in tempi utili a prevenire o trattare l'arresto cardiaco anossico.
La non conoscenza dell'esatta definizione di morte cerebrale, nei termini di estensione ed irreversibilità della lesione, la mancanza di univocità nei criteri scientifici ed alcune imprecisioni nella diagnosi differenziale con altri quadri clinici simili hanno insinuato sospetti soprattutto sulla identificazione ed equiparazione della morte cerebrale con la morte dell'uomo.
La grave confusione al riguardo è stata ulteriormente stimolata dall'utilizzazione indifferente di termini assai diversi: "coma irreversibile" e "sindrome apallica" definiscono, ad esempio, uno stato di coscienza più simile al sonno non risvegliabile che alla necrosi del parenchima cerebrale; la definizione stessa di "morte cerebrale" può apparire ambigua perché definisce contemporaneamente la morte di un organo in un corpo altrimenti vivo ove sottoposto a tecniche di sostentamento artificiale e la morte della persona in virtù della morte di un singolo organo.
Un altro elemento di confusione è certamente l'identificazione proposta dagli Autori inglesi della morte cerebrale con la morte del tronco encefalo dal momento che la cessazione irreversibile della funzione di questa struttura rende il resto del cervello per sempre non funzionante ed invariabilmente determina la morte somatica. Questa posizione comporta due equivoci di fondo:
- il primo deriva dal fatto che l'assenza della funzione del resto dell'encefalo non è intrinseca ma semplicemente occasionata dalla mancanza di input dal tronco (il che non significa che le strutture al di sopra del tronco abbiano per definizione perso la possibilità di funzionare se stimolate in altro modo);
- il secondo deriva dal fatto che non è giusto equiparare l'inevitabilità della morte con la morte stessa: la morte del tronco ha quindi requisiti prognostici ma non diagnostici di morte.
Recentemente è stato anche proposto di definire morta la persona nella quale si sia verificata la necrosi della sola area corticale del sistema nervoso centrale, pur rimanendo integre e funzionanti le strutture troncoencefaliche (morte corticale).
In questa condizione, clinicamente definita "stato vegetativo persistente", la dichiarazione di morte viene giustificata dalla presunta impossibilità a recuperare una sufficiente vita di relazione.
Non si può condividere questa opinione perché, rimanendo integri i centri del paleoencefalo, permangono attive le capacità di regolazione (centrale) omeostatiche dell'organismo e la capacità di espletare in modo integrato le vitali funzioni, compresa la respirazione autonoma.
Va rilevato, inoltre, che "stato vegetativo persistente" non vuol dire di per sé irreversibile e si segnalano casi che hanno recuperato, anche se parzialmente ed in tempi lunghi, una vita di relazione.
Infine, vi è una oggettiva difficoltà clinica ad accertare, senza alcuna possibilità di errore, una necrosi completa ed irreversibile della sola corteccia cerebrale.
Questa mancanza di uniformità e di chiarezza ha certamente contribuito a scatenare polemiche sull'attendibilità dei sistemi diagnostici e sullo stesso concetto di identificazione della morte cerebrale con la morte dell'intero organismo.
Ed è proprio per questo motivo che appare opportuna una definizione unica, e non aggettivata, della morte.
Il parlare di morte clinica, morte biologica, morte cardiaca, morte cerebrale, morte troncoencefalica, morte corticale potrebbe generare notevole confusione e disorientamento: e come se esistessero molte morti e modi diversi di morire.
Al contrario, va affermato che il momento della morte è uno solo ed è segnato, come già detto, dalla perdita totale ed irreversibile dell'unitarietà funzionale dell'organismo.
2.3. - Conclusioni in merito alla definizione di morte
In pratica, può dirsi che la morte avviene quando i 'organismo cessa di "essere un tutto", mentre il processo del morire termina quando "tutto l'organismo" è giunto alla completa necrosi.
Questo momento iniziale, che segna il passaggio dalla vita alla non-vita, non è variabile nel tempo: ciò che varia sono i criteri scientifici che consentono di individuare e segnalare il momento in cui la vita cessa e, cioè, la realtà e l'irreversibilità della morte stessa. La definizione di morte si esprime scientificamente solo in termini di realtà e di irrevocabilità.
I progressi della scienza medica, ed in particolare della rianimazione e della trapiantologia, non hanno modificato l'evento della morte, che è sempre di non ritorno; le moderne tecnologie hanno contribuito a migliorare la capacità di riconoscere il momento con certezza.
In pratica, oggi sappiamo che esiste un centro coordinatore e unificante nell'organismo umano: il cervello. La sua totale necrosi segna il passaggio "dall'essere uomo vivente" alla morte; anche se alcuni organi, sostenuti artificialmente, possono conservare la propria funzione.
Suggeriamo, pertanto, di non utilizzare i termini suddetti, anche se ormai di uso comune, sostituendo/i con: criteri cimici, criteri biologici, criteri cardiaci e criteri neurologici per l'accertamento della morte.
È chiaro del resto che quando noi diciamo "morte cardiaca" non ci riferiamo alla morte del cuore, bensì ai criteri cardiocircolatori finalizzati alla diagnosi di morte dell'intero organismo.
Così come, quando parliamo di "morte cerebrale" come anche in questo documento si fa per una prassi invalsa del linguaggio comune - non intendiamo riferirci alla morte di un solo organo, il cervello, bensì ai criteri neurologici per accertare la morte della persona nella sua totalità.
E' bene inoltre precisare che questi criteri potranno subire modifiche in accordo ai progressi delle tecnologie biomediche: modifiche che tutti noi dobbiamo essere pronti a recepire, trattandosi di mezzi strumentali che se mai anticipano, ma non infirmano, la certezza diagnostica.
Distinguendo con estrema chiarezza la definizione della morte dai criteri di accertamento, saremo in grado di evitare futuri, sempre prevedibili equivoci.
Ottimo intervento, grazie! ;)
Voglio far notare ogni singola parola ha il suo ben preciso significato e contribuisce a dare il senso alla cosa che definisce.
Prendiamo, per esempio, "eutanasia":
Morte dolce: indica già qui un'azione attiva per determinare come una persona debba morire;
procurata: l'eutanasia è attiva, quindi, è un'azione messa in atto da qualcuno. Parlare di eutanasia passiva, per esempio, risulta quindi una contraddizione intrinseca;
a chi è afflitto da un male incurabile: stabilisce in occasione di quali situazioni si può parlare di eutanasia.
Jumper ti sto aspettando al varco, dove ti nascondi? :D
Jumper, perchè guardi e non favelli? :D :asd:
jumpermax
06-04-2005, 00:14
Originariamente inviato da gpc
Jumper, perchè guardi e non favelli? :D :asd:
Beh fondalmentalmente perchè sono buono.... :D ma visto che insisti...
Dunque io pensavo un minimo prima di aprire questo thread ti fossi documentato... comunque per riprendere la tua affermazione
Prendiamo, per esempio, "eutanasia":
Morte dolce: indica già qui un'azione attiva per determinare come una persona debba morire;
procurata: l'eutanasia è attiva, quindi, è un'azione messa in atto da qualcuno. Parlare di eutanasia passiva, per esempio, risulta quindi una contraddizione intrinseca;
a chi è afflitto da un male incurabile: stabilisce in occasione di quali situazioni si può parlare di eutanasia.
Vediamo un po' cosa si dice in giro. Iniziamo dall'UAAR unione degli agnostici italiani.
http://www.uaar.it/documenti/laicita/20.html
COSA INTENDIAMO PER «EUTANASIA»?
Eutanasia in greco antico significa, letteralmente, buona morte. Oggi con questo termine si definisce correntemente l’intervento medico volto ad abbreviare l’agonia di un malato terminale.
Si parla di «eutanasia passiva» quando il medico si astiene dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato di «eutanasia attiva» quando il medico causa, direttamente, la morte del malato, di «eutanasia attiva volontaria» quando il medico agisce su richiesta esplicita del malato.
Nella casistica si tende a far rientrare anche il cosiddetto «suicidio assistito», ovvero l’atto autonomo di porre termine alla propria vita compiuto da un malato terminale in presenza e con mezzi forniti da un medico.
Netta la distinzione quindi tra un'azione attiva del medico nel porre fine alla vita del paziente e una passiva identificata nell'interrompere le cure. Ma a questo punto l'accanimento terapeutico dove si inserisce? Ci viene in aiuto l'unione degli evangelici italiani
http://evangelici.altervista.org/eutanasia.html
EUTANASIA
L'eutanasia (dal greco euthanasìa, “buona morte”) può essere definita come qualsiasi atto volto ad accelerare o a causare la morte di una persona per finalità umanitarie.
L'eutanasia si propone di porre fine a una situazione di sofferenza tanto fisica quanto psichica non più tollerabile da parte del malato; ovviamente questo presuppone che non esista trattamento terapeutico che possa, anche temporaneamente, offrire sollievo.
Bisogna anzitutto fare una differenza tra eutanasia attiva e passiva, e suicidio assistito:
- L'eutanasia attiva consiste nel determinare o accelerare la morte mediante il diretto intervento del medico, utilizzando farmaci letali.
- Il suicidio assistito indica invece l'atto mediante il quale un malato si procura una rapida morte grazie all'assistenza del medico: questi prescrive i farmaci necessari al suicidio su esplicita richiesta del paziente, e lo consiglia riguardo alle modalità di assunzione. In tal caso viene a mancare l'atto diretto del medico che somministra in vena i farmaci al malato.
- Il termine eutanasia passiva, infine, viene utilizzato per indicare la morte del malato determinata dalla sospensione dei farmaci, o dall'astensione del medico dal compiere degli interventi che potrebbero prolungare la vita stessa. Un esempio potrebbe essere rappresentato da un neonato gravemente deforme, con breve aspettativa di vita, colpito da polmonite; il medico allora potrebbe non praticare alcuna terapia al neonato aspettando l'evoluzione della patologia. In quest'ultimo caso riteniamo sia più corretto parlare di astensione terapeutica che di eutanasia.
Attualmente in Italia, per il codice penale l'eutanasia attiva è paragonabile all'omicidio volontario o, nel caso in cui sia stato il malato a chiedere la propria morte, all'omicidio consenziente (artt. 575 e 579). In alcuni Paesi (come l'Olanda e il Belgio) è stata recentemente legalizzata.
Come Cristiani, sappiamo che lo stesso Dio che ci ha donato la vita ha stabilito per noi un giorno in cui dovremo lasciare questo mondo (Eccl. 3:2), e che nelle Sue mani c'è la vita e la morte di ciascuno di noi (1 Sam. 2:6).
La morte può arrivare naturalmente o può essere provocata; ci sono uomini che muoiono in modo naturale senza alcuna sofferenza, e altri che purtroppo vengono colpiti da gravi malattie che li consumano giorno per giorno con difficili sofferenze, giorni che diventano difficili non solo per il malato ma anche per chi gli è accanto; è in questi casi che si è tentati di decidere per una soluzione rapida: l'eutanasia.
Non ci sentiamo assolutamente in grado di giudicare quanti hanno deciso di praticarla, perché ci rendiamo conto di quanto difficile e delicata sia la situazione, ma come Cristiani possiamo e dobbiamo interessarci di cosa ne pensa Dio. Di sicuro nella Bibbia non troveremo un solo passo che parla specificamente dell'eutanasia, ma per grazia abbiamo lo Spirito Santo che ci insegna e ci guida in ogni situazione che possiamo incontrare durante la nostra vita.
Un verso che può darci luce su questo argomento è il verso 16 del Salmo 139, dove leggiamo: “I Tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo, e nel Tuo libro erano già scritti tutti i giorni che erano stati fissati per me, anche se nessuno di essi esisteva ancora”. Alla luce di versi come questo ci rendiamo ancora conto che l'eutanasia non rientra nella volontà di Dio; l'uomo che non conosce Dio si ritiene libero di decidere per la sua vita, ma noi abbiamo affidato a Lui la nostra vita e quindi anche la nostra morte. Se Egli permette la sofferenza ci darà anche la forza di sopportarla, e inoltre noi crediamo ancora nei miracoli e sappiamo che anche quando tutto sembra finito Dio è potente da trasformare le cose.
I nostri pensieri si scontreranno con il pensiero della maggior parte delle persone, come da sempre la fede si scontra con la mera razionalità, ma come figli di Dio vogliamo seguire l'unico pensiero per noi indiscutibile, cioè quello di Dio.
Per noi tutti è difficile vedere le sofferenze altrui, ma il nostro compito è quello di pregare perché Dio è in grado di ristabilire una persona che ormai è data per spacciata dagli uomini o da se stessa. Pensiamo a Giobbe, un uomo integro e retto, che venne a trovarsi in condizioni disperate, al punto da maledire il giorno della sua nascita, e da dire a Dio: “L'anima mia preferisce soffocare e morire piuttosto che questa vita” (Giob. 7:15). La sua carne era consumata al punto da staccarsi dalle ossa ed egli pensava di dipartirsi da questa terra, ma Dio intervenne ristabilendolo completamente.
Infine, un discorso a parte vogliamo farlo per quanto riguarda l'eutanasia passiva, o meglio, l'astensione terapeutica, che come abbiamo detto consiste nel rifiutare il cosiddetto “accanimento terapeutico”; questo discorso ovviamente riguarda le patologie irreversibili al 100%. In questi casi crediamo sia giusto anche per un Cristiano poter rifiutare che macchine per la respirazione e sonde gastriche prolunghino i suoi giorni. Anzi, chi ha fatto un incontro con Cristo a maggior ragione può aggrapparsi a Lui nei momenti drammatici della propria esistenza e accrescere così la propria fede sapendo che Dio è più potente di un farmaco o di una macchina.
(Relazione a cura dei giovani della comunità evangelica "La grazia dell'Eterno")
La distinzione qua sembra essere più un'esigenza religiosa del voler distinguere un'azione ritenuta eticamente inaccettabile da non azione che coincide con l'accettazione della volontà di dio. Non può non sappare inosservato il riferimento ai sondini gastrici (caso Terry Schiavo) tra le terapie volte a prolungare i giorni di viene colpito da patologie irreversibili. Ma davvero è il termine in contraddizione? Stando alla valutazione letterale (dolce morte) non mi sembra. Vediamo cosa dicono in Svizzera
http://www.ofj.admin.ch/themen/stgb-sterbehilfe/b2-com-i.htm
Il Consiglio federale si pronuncia in favore di una esplicita regolamentazione di legge sull'eutanasia passiva e sull'eutanasia attiva indiretta. Per contro non intende modificare la disposizione penale sull'eutanasia attiva diretta, ma ribadisce in proposito la necessità di sfruttare al massimo le possibilità offerte dalla medicina e dalle cure palliative. In tal modo il Consiglio federale risponde alla mozione Ruffy, presentata nel 1994, e trasformata successivamente in postulato.
Il diritto vigente (art. 114 del Codice penale) commina una pena per l'omicidio su richiesta, vale a dire l'eutanasia attiva diretta. Per contro, l'eutanasia attiva indiretta non è disciplinata né nel Codice penale, né in un'altra legge. Vi è eutanasia attiva indiretta quando per lenire le sofferenze si somministrano sostanze i cui effetti secondari possono ridurre la durata della sopravvivenza. Il corpo medico ammette questa forma di eutanasia e la pratica in casi eccezionali. Essa è d'altronde trattata nelle pertinenti Direttive dell'Accademia svizzera delle scienze mediche. Anche l'eutanasia passiva, vale a dire la rinuncia a mettere in atto i provvedimenti necessari al mantenimento in vita o l'interruzione di tali provvedimenti, è ammessa secondo le citate Direttive e praticata nel nostro Paese.
Il Consiglio federale segue in tal modo il parere del gruppo di lavoro "Eutanasia" che raccomanda di disciplinare in una legge queste due forme di eutanasia (passiva e attiva indiretta). Secondo il Consiglio federale l'eutanasia concerne la vita e pertanto il bene giuridico supremo. Ne consegue che la definizione dei limiti fra omicidio lecito e omicidio illecito spetta al legislatore democraticamente legittimato e non alle autorità scientifiche mediche. Una chiara legislazione presenterebbe inoltre il vantaggio di garantire l'uguaglianza giuridica e la certezza del diritto.
L'eutanasia attiva diretta rimane vietata
La medicina ha fatto grandi progressi e l'eutanasia in generale è diventato un problema della nostra società, di cui si discute apertamente. Si tratta dunque di adeguare il diritto alla realtà senza tuttavia rimettere in discussione il divieto dell'eutanasia attiva diretta. Il Consiglio federale, dopo approfondita valutazione e tenuto conto dei fondamenti cristiani della nostra società, rinuncia a qualsiasi allegerimento della norma in vigore.
Ovviamente il Consiglio federale ritiene indispensabile poter offrire ai pazienti incurabili che sono in fin di vita e che chiedono l'eutanasia attiva diretta i mezzi e le possibilità per lenire le loro sofferenze. È pertanto d'avviso che sia assolutamente necessario sfruttare tutte le risorse della medicina e delle cure palliative. Infatti i nuovi metodi di cura dei pazienti in fin di vita sono ancora relativamente sconosciuti: devono pertanto essere in ogni caso integrati nel sistema di formazione dei futuri medici.
Qui si introduce un'ulteriore distinzione, l'eutanasia attiva indiretta, ossia la somministrazione di quelle cure contro il dolore che possono avere come effetto secondario la morte del paziente. La definizione di eutanasia passiva coincide anche in questo caso con il rifiuto dell'accanimento terapeutico.
veniamo ora all'Istituto Italiano di Medicina Sociale
http://www.iims.it/doc_novita/99.htm
Definizione di Eutanasia
Eutanasia in greco antico significa, letteralmente, "buona morte". Da tempo però si è abbandonato il legame con l’etimo greco e il termine eutanasia viene usato nell’attuale dibattito con significati molto diversi.
Essa può essere definita in generale come qualsiasi atto compiuto da medici o da altri, finalizzato ad accelerare o causare la morte di una persona per porre termine a una situazione di sofferenza, tanto fisica quanto psichica, non più tollerabile.
Una definizione completa e precisa, accettata anche da autori che non ne condividono le valutazioni etiche concomitanti, è contenuta nella Dichiarazione sull’eutanasia "Iura et bona", pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, al n. 6: "Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati".
Nell’accezione eutanasia rientrano però varie fattispecie.
Eutanasia attiva. Consiste nel determinare o nell’accelerare la morte mediante il diretto intervento del medico, utilizzando farmaci letali. Si parla invece di eutanasia attiva volontaria quando il medico agisce su richiesta esplicita del malato.
Eutanasia passiva. Consiste nell’astensione da parte del medico dal praticare cure volte a tenere ancora in vita il malato. Secondo alcuni in questo caso utilizzare il termine eutanasia è improprio, trattandosi piuttosto di astensione terapeutica. Ancora, si definisce sospensione delle cure la decisione di fermare gli interventi che mantengono artificialmente in vita il paziente, con il risultato della morte di quest’ultimo, peraltro in tempi non sempre rapidi.
Infine, nella casistica si è soliti far rientrare anche il cosiddetto suicidio assistito, l'atto autonomo di porre termine alla propria vita compiuto da un malato terminale in presenza e con mezzi forniti da un medico.
Anche in questo caso il termine più accettato è eutanasia passiva, la valutazione di termine "improprio" sembra più di una minoranza. Ma fate attenzione al trafiletto preso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede: si parla non solo di azione ma anche di omissione che procura la morte. Chiaro che l'astensione terapeutica in questo caso è un'omissione di cura e rientra quindi nella definizione sopracitata. La differenza viene posta sul fine dell'astensione piuttosto che sull'atto in se, ma il punto qua diventa critico. andiamo avanti sempre nella stessa pagina:
Aspetti giuridici
La legislazione italiana in materia
Dal punto di vista giuridico, la legislazione italiana attuale, pur senza disciplinare direttamente la materia, prevede una serie di norme che di fatto vietano l’eutanasia: innanzitutto l’art. 5 del cod. civ., il quale prevede il divieto di porre in essere atti di disposizione del proprio corpo che possano cagionare una diminuzione permanente della integrità fisica o che siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume; in secondo luogo, l’art. 579 del codice penale, che disciplina il cd. omicidio del consenziente, fattispecie che ha forti attinenze con la pratica dell’eutanasia attiva e passiva.
Questa ipotesi di reato punisce, con pena meno severa rispetto all’omicidio doloso di cui all’art. 575 c.p., chi cagiona la morte di un uomo col suo consenso. Il consenso, dunque, funge da attenuante pur non escludendo la punibilità (sono comunque previste pene dai sei ai quindici anni).
Nel caso di eutanasia attiva dunque, non essendovi una normativa ad hoc, il soggetto agente è punito ai sensi dell’art. 579 c.p. se c’è il consenso della vittima. Se invece non c’è il consenso, perché il malato è in coma o comunque in stato di incapacità di intendere e di volere, l’agente è punito per omicidio doloso.
Ad oggi, la giurisprudenza prevalente ritiene che il consenso possa ritenersi presunto quando le particolari condizioni della vittima conducono ad affermare che, se fosse stata cosciente, lo avrebbe prestato. In tal caso il soggetto agente è punito per omicidio del consenziente.
Anche il suicidio assistito è considerato un reato, ai sensi dell'articolo 580.
Per quanto riguarda l’eutanasia passiva, la dottrina prevalente ritiene punibile la sola eutanasia passiva non consensuale. In questo caso infatti, l’art. 32, 2° comma della Costituzione, dispone che nessuno possa essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Da tale principio costituzionale si deduce che la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona, per cui non è possibile praticare una cura contro la volontà espressa del paziente, anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte. Se dunque il malato esercita il suo diritto di non curarsi, il medico ha l’obbligo di sospendere le cure e l’eventuale persistenza dell’attività medica viene condannata come accanimento terapeutico. L’eutanasia passiva consensuale è dunque considerata lecita ed oggi comunemente ammessa.
Bisogna però precisare che la Costituzione non garantisce il diritto di morire, ma il più limitato diritto di non curarsi.
Da quanto detto risulta evidente la necessità di introdurre una normativa specifica a disciplina della fattispecie in oggetto, ora lasciata alle soluzioni interpretative della giurisprudenza.
Di fatto i termini sono sinonimi, la distinzione qua sembra più negli intenti piuttosto che negli atti. Non si sospende la cura per "farti morire" ma si consente di sospendere la cura. Che poi questo abbia come conseguenza la morte del paziente è un altro discorso...
Altro prezioso contributo viene da questo sito che tratta di diritto
http://www.diritto.it/articoli/penale/amati.html
4. Nozione di eutanasia
La fattispecie delittuosa in oggetto pone dei problemi in relazione alla eutanasia. Dal greco éu tànatos(morte dolce), sta oggi ad indicare la interruzione volontaria della vita di una persona malata, con o senza il suo consenso : si tratta della cd. eutanasia pietosa, intesa come "uccisione pietosa e liberatrice, ossia come morte arrecata allo scopo di far cessare una condizione umana angosciante e particolarmente dolorosa".(187) L’eutanasia pietatis causapietosa, in campo medico, viene definita eutanasia terapeutica, in relazione all’impiego o all’omissione di mezzi terapeutici al fine di ottenere la morte del paziente.(198)
Nell’ambito dell’eutanasia terapeutica si distingue tra eutanasia commissiva, o attiva, ed eutanasia omissiva, o passiva. L’eutanasia attiva consiste nel provocare la morte della vittima mediante condotte attive ; l’eutanasia passiva consiste nel "cagionare" la morte mediante la omissione di pratiche terapeutiche che avrebbero potuto tenere in vita il malato.(2019)
Come lucidamente evidenziato dal Giunta, "l’eutanasia pietosa manca nel nostro ordinamento di una normativa specifica : di una normativa cioè che prenda in considerazione espressamente il fenomeno, tenendo conto delle circostanze e dei moventi eutanasici. Di conseguenza, nella sua forma cd. attiva, che è poi quella cui più propriamente si riferisce il termine, l’eutanasia pietosa ricade nella regolamentazione di norme generali ; di fattispecie, cioè, dettate indipendentemente dalle peculiarità del fenomeno in esame e in ragione, piuttosto, di esigenze di tutela ritagliate su fenomenologie criminologiche sensibilmente diverse."(210)
Pertanto, per quanto riguarda la prima ipotesi(eutanasia attiva), se c’è il consenso della vittima, il soggetto agente è punito ai sensi dell’art. 579 c.p.. Se non c’è il consenso, perché il malato è in coma o comunque in stato di incapacità di intendere e di volere, l’agente è punito per omicidio doloso. Tuttavia la giurisprudenza prevalente ritiene che il consenso possa ritenersi presunto ove, per le particolari condizioni della vittima, si possa affermare che, se fosse stata cosciente, lo avrebbe prestato.(22) In tal caso il soggetto agente è punito per omicidio del consenziente. Può ritenersi sussistente l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale(art. 62, n° 1 c.p.) ; tuttavia tale attenuante diviene in pratica inutilizzabile a causa della compresenza dell’aggravante della premeditazione, che impedisce l’applicazione delle diminuzioni di pena previste.(231)
Per quanto riguarda l’eutanasia passiva, il soggetto può essere considerato responsabile della morte ai sensi dell’art. 40 c.p.(che equipara il non impedire l’evento al cagionarlo volontariamente) solo ove sussista a suo carico un esplicito dovere giuridico di impedire l’evento morte. La dottrina prevalente ritiene tuttavia punibile la sola eutanasia passiva non consensuale.(242)
5. Diritto di morire e suo fondamento costituzionale
Per quanto riguarda l’eutanasia passiva consensuale occorre fare riferimento all’art. 32, 2° comma della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Da tale principio costituzionale si deduce che la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona. Per cui non è possibile praticare una cura contro la volontà espressa del paziente, anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte. Se dunque il malato esercita il suo diritto di non curarsi, il medico ha l’obbligo di sospendere le cure e l’eventuale persistenza dell’attività medica viene in tal caso condannata e definita accanimento terapeutico.(253) L’eutanasia passiva consensuale è dunque considerata lecita ed oggi comunemente ammessa. "L’ordinamento non solo non vieta, ma riconosce una libertà di morire, che può essere esercitata in vario modo : ... anche con il rifiuto delle cure. Pur muovendo dall’opposta premessa, secondo cui il suicidio sarebbe contra ius, anche la dottrina maggioritaria perviene, del resto, alla conclusione dell’incoercibilità del vivere, facendo leva sul disposto dell’art. 32, comma 2, Cost.. Anche quando porta alla morte...il consapevole rifiuto delle cure integra il contenuto di un diritto costituzionalmente garantito, che discende dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori ".(264)
Tuttavia va puntualizzato che il diritto di lasciarsi morire non coincide, secondo la dottrina prevalente, con il diritto di morire, ma si tratta del più limitato diritto di non curarsi, garantito dalla Costituzione.(275) Pertanto il diritto di disporre della propria vita è riconosciuto solo nel caso in cui la morte segua ad un processo causale estraneo alla volontà del soggetto e rispetto al quale si ammette il diritto di non resistere. La liceità della eutanasia passiva consensuale trova dunque fondamento nel riconoscimento che, "essendo svolta nell’interesse del paziente, l’attività terapeutica può essere da questi rifiutata(voluntas aegroti suprema lex) ; la malattia farà allora il suo corso e per il diritto la morte sarà opera della natura ".(268)
Tuttavia "non sempre c’è una terapia da rifiutare per poter morire e non sempre il rifiuto della terapia conduce a una morte rapida e indolore".(297) Spesso diventa necessario porre fine ad atroci sofferenze. E’ stato sottolineato come l’attuale formulazione dell’art. 579 c.p. crei una discriminazione tra il malato terminale in grado di porre fine autonomamente alle sue sofferenze ed il malato terminale che, a causa delle sue condizioni psico-fisiche, non è in grado di farlo, necessitando così dell’aiuto di un terzo.(3028) " La vita non può essere tutelata sempre e comunque " e "non si può imporre la sofferenza".(3129) Da taluni è stato perciò individuato, in base ai principi generali della Costituzione, il cd. diritto di morire con dignità.(320)
Insomma a quanto pare la questione terminologica mi sembra chiarita, eutanasia passiva è un termine correntemente usato sia in medicina quanto in giurisprudenza. Se la domanda vuol essere se davvero l'eutanasia passiva è una forma di eutanasia, direi che ci sono pochi dubbi: l'intenzione di porre fine alle sofferenze è inequivocabile in chi sceglie di non sottoporsi ad ulteriori cure. La questione sembra spinosa più che altro per i credenti... ecco un altro testo
http://iltelaio.org/Bioetica/Eutanasia%20III.htm
Chiarificazione dei termini
Molti dei malintesi, che rendono spesso equivoco l’attuale dibattito sul problema dell’eutanasia, sono originati da fraintendimenti linguistici.
Il termine "eutanasia" è infatti spesso usato per designare, accanto alla soppressione della vita del malato terminale, una serie di questioni diverse, quali la rinuncia a forme di prolungamento artificiale della vita o alla rianimazione in certe condizioni, e persino l’uso di terapie del dolore.
È allora anzitutto importante procedere ad una chiarificazione terminologica, che consenta di distinguere l’eutanasia da altre situazioni che, pur presentando problemi non indifferenti sul piano etico, non possono tuttavia essere confuse con essa.
"Per eutanasia si intende infatti – come precisa un’interessante Dichiarazione della Sacra Congregazione per la dottrina della fede del 1980 – un’azione o un’omissione che di sua natura, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, a livello delle intenzioni e dei metodi usati".
Al di là della etimologia originaria che significa "morte dolce", il termine eutanasia designa dunque, oggi, in senso stretto, quell’insieme degli interventi volti intenzionalmente a sopprimere una vita umana, quando essa è vissuta in condizione di grave sofferenza. Si tratta, in altre parole, di una forma di uccisione pietosa attuata nei confronti di un malato terminale per sottrarlo ad una situazione particolarmente penosa per sé e per gli altri.
Facendo riferimento ai metodi usati è possibile distinguere tra eutanasia "attiva" (o positiva), la quale comporta un’azione – come il ricorso a sostanze narcotiche o tossiche – che ha, di sua natura, il potere di dare la morte, ed eutanasia "passiva" (o negativa), la quale consiste invece in una omissione di soccorso, che si realizza mediante la sospensione di terapie proporzionate alla situazione, perciò ritenute complessivamente utili ad un miglioramento, o almeno a bloccare il processo patologico del male. È ovvio che, in ambedue i casi, si esige l’intenzione specifica, di chi la mette in atto, di porre fine alla vita o di accelerare la morte del malato che versa in condizioni disperate. Risultano così escluse dall’area dell’eutanasia le questioni relative all’alleviamento della sofferenza, quando l’accelerazione della morte sopravviene accidentalmente, ed è dunque preterintenzionale, nonché quelle relative all’omissione di trattamenti inutili, o addirittura dannosi, che determinano un prolungamento abusivo della vita.Lo scorporamento di tali questioni consente di tracciare con precisione la linea di demarcazione tra "eutanasia" e "accanimento terapeutico", favorendo il superamento di equivoci, che sono talora alla base dello sviluppo di atteggiamenti indulgenti negli stessi confronti dell’eutanasia.
Qua la distinzione sembra quindi essere incentrata sull'inutilità o la dannosità di un intervento... se si rifiuta un intevento "proporzionato" si tratta di eutanasia passiva altrimenti non lo è. Appare chiaro che questa distinzione netta non solo non esiste ma non è neppure in linea con quanto detto dalla Dichiarazione della Sacra Congregazione per la dottrina della fede che parla di "un’azione o un’omissione che di sua natura, o nelle intenzioni, procura la morte" e difatti il testo più avanti riconosce che una linea di demarcazione non esiste, arrivando a parlare addirittura di un analisi "caso per caso"
Ma le difficoltà maggiori, sul terreno applicativo, nascono dalla complessità di alcune situazioni, nelle quali non appare sempre chiara la linea di demarcazione tra cure che devono essere prestate, se non si vuole incorrere all’eutanasia passiva, e quelle che vanno invece evitate, se si intende astenersi dall’accanimento terapeutico. Se infatti, occorre, da un lato, rifiutare l’eutanasia, è necessario, dall’altro, rifiutare quelle iniziative clinico-assistenziali di carattere eccezionale, che violano il rispetto di una certa "naturalità" del morire, in quanto evento significativo dell’esperienza umana.
[...]
l documento della congregazione per la dottrina della fede già ricordato ci offre in proposito utili indicazioni. Sostituendo la tradizionale distinzione tra mezzi "ordinari" e mezzi "straordinari" con quella tra mezzi "proporzionati" e mezzi "sproporzionati" sembra indicare che il criterio di giudizio deve tener conto tanto dell’entità oggettiva del mezzo quanto della situazione soggettiva del paziente. Si tratta, in altri termini, di valutare, da un lato, l’onerosità dell’intervento e il quoziente di rischio ad esso connesso e, dall’altro, l’effettivo beneficio che ne può derivare al paziente in condizione terminale, sotto il profilo umano complessivo. Il che lascia intendere la necessità di un esame fatto caso per caso, tenendo conto del rispetto dovuto alla persona e superando una visione rigidamente biologica della vita, che conduce al tecnicismo abusivo. Lo stesso intervento che può, in alcune circostanze, diventare doveroso – se non si vuole incorrere all’eutanasia passiva – diventa, in altri casi, moralmente illegittimo, perché conduce all’accanimento terapeutico.
Insomma questa distinzione è evidente che non regge. L'unica distinzione possibile è nell'intenzione di chi sceglie volontariamente di sottoporsi alle cure, scelta che per inciso è tutelata dalla costituzione. Tecnicamente è rifiuto di accanimento terapeutico solo se è un'azione con la quale non si cerca di porre fine alle proprie sofferenze.. insomma la stessa azione nelle medesime condizioni può essere vista come eutanasia passiva o come rifiuto dell'accanimento terapeutico.
http://www.diritto.it/articoli/ipab/medicomalato.html
5. Il rifiuto al trattamento medico-chirurgico. Il problema dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia. La sperimentazione umana
Un problema particolarmente delicato si presenta nei casi di rifiuto del trattamento terapeutico.
In tali fattispecie è necessario procedere di volta in volta ad una valutazione comparata degli interessi in gioco, onde individuare il valore guida atto a dirimere il contrasto; a ben vedere, comunque, dal momento che l’unico valore guida preminente su qualsiasi altro è dato dalla salvaguardia della vita umana, la fattispecie finisce per coincidere con quella dello stato di necessità.
Qualora non ricorra un pericolo grave ed attuale per la vita del paziente, la sua signoria del volere ritorna ad essere assorbente , salvi i casi in cui è la legge a prevedere un trattamento sanitario anche contro la volontà del paziente; aldilà del consenso e della legge, si è già nell’ipotesi della violenza privata ex art. 610 del cod. pen.
Nel casa di. rifiuto responsabile e cosciente di cure atte unicamente a prolungare una vita ormai senza speranza (c.d. ’accanimento terapeutico’), il confine tra liceità ed illiceità della sospensione del trattamento terapeutico si fa sottile. Ad un orientamento che legittima senz’altro, in questi casi, 1’arrestarsi del medico di fronte alla volontà del paziente, titolare di un vero e proprio "diritto alla morte", inteso come legittimo desiderio di "morire con dignità", si oppone una dottrina più prudente, che prendendo come punto di riferimento 1’animus del medico, distingue le ipotesi omissive lecite (quelle in cui il rifiuto dell’accanimento terapeutico abbia lo scopo di assicurare al malato in fase terminale una ’cura umana’) da quelle illecite (quelle in cui il mancato intervento medico sia volto ad accelerare la morte del paziente), configuranti la fattispecie dell’eutanasia passiva.
Quest’ultima distinzione, tuttavia, come in genere quelle fondate sull’elemento soggettivo, non sembra nella pratica agevole; a ciò si aggiunga che, con il progressivo perfezionamento di tecniche sempre più sofisticate di rianimazione, il mantenimento in vita per periodi di tempo anche lunghissimi di un soggetto in condizioni meramente vegetative introduce nuovi problemi: basti pensare all’ingente costo economico che comporta 1’utilizzo delle relative apparecchiature, all’angosciosa scelta che si impone tra il prolungamento di una vita artificiale e il desiderio di morire con dignità; infine, alle diverse finalità che caratterizzano la disciplina dei trapianti.
Sin qui 1’eutanasia passiva. Per quanto riguarda 1’eutanasia attiva, non v’è invece dubbio che incontri il divieto espresso della legge, poiché realizzante le fattispecie penali dell’omicidio volontario (art. 575 del cod. pen., cui peraltro possono essere applicate 1’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale ex art. 62, n. 1 del cod. pen., o quelle generiche ex art. 62 bis del cod. pen.), oppure quella meno grave dell’omicidio del consenziente (art. 579 del cod. pen.).
U
fine prima parte.
Rispondo in velocità, poi eventualmente torno su altri punti.
Prendo questo brano che hai riportato:
"Per quanto riguarda l’eutanasia passiva consensuale occorre fare riferimento all’art. 32, 2° comma della Costituzione, secondo il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge. Da tale principio costituzionale si deduce che la scelta di sottoporsi o meno alle cure è un diritto di libertà della persona. Per cui non è possibile praticare una cura contro la volontà espressa del paziente, anche quando l’omissione della cura o la sua sospensione porti alla morte. Se dunque il malato esercita il suo diritto di non curarsi, il medico ha l’obbligo di sospendere le cure e l’eventuale persistenza dell’attività medica viene in tal caso condannata e definita accanimento terapeutico.(253) L’eutanasia passiva consensuale è dunque considerata lecita ed oggi comunemente ammessa. "L’ordinamento non solo non vieta, ma riconosce una libertà di morire, che può essere esercitata in vario modo : ... anche con il rifiuto delle cure. Pur muovendo dall’opposta premessa, secondo cui il suicidio sarebbe contra ius, anche la dottrina maggioritaria perviene, del resto, alla conclusione dell’incoercibilità del vivere, facendo leva sul disposto dell’art. 32, comma 2, Cost.. Anche quando porta alla morte...il consapevole rifiuto delle cure integra il contenuto di un diritto costituzionalmente garantito, che discende dal divieto di trattamenti sanitari obbligatori ".(264)
Tuttavia va puntualizzato che il diritto di lasciarsi morire non coincide, secondo la dottrina prevalente, con il diritto di morire, ma si tratta del più limitato diritto di non curarsi, garantito dalla Costituzione.(275) Pertanto il diritto di disporre della propria vita è riconosciuto solo nel caso in cui la morte segua ad un processo causale estraneo alla volontà del soggetto e rispetto al quale si ammette il diritto di non resistere. La liceità della eutanasia passiva consensuale trova dunque fondamento nel riconoscimento che, "essendo svolta nell’interesse del paziente, l’attività terapeutica può essere da questi rifiutata(voluntas aegroti suprema lex) ;[/i] la malattia farà allora il suo corso e per il diritto la morte sarà opera della natura ".(268)[/i]
Tuttavia "non sempre c’è una terapia da rifiutare per poter morire e non sempre il rifiuto della terapia conduce a una morte rapida e indolore".(297) Spesso diventa necessario porre fine ad atroci sofferenze. E’ stato sottolineato come l’attuale formulazione dell’art. 579 c.p. crei una discriminazione tra il malato terminale in grado di porre fine autonomamente alle sue sofferenze ed il malato terminale che, a causa delle sue condizioni psico-fisiche, non è in grado di farlo, necessitando così dell’aiuto di un terzo.(3028) " La vita non può essere tutelata sempre e comunque " e "non si può imporre la sofferenza".(3129) Da taluni è stato perciò individuato, in base ai principi generali della Costituzione, il cd. diritto di morire con dignità.(320)"
Prendendo i punti che ho evidenziato, si può facilmente capire che la tua affermazione:
Insomma a quanto pare la questione terminologica mi sembra chiarita, eutanasia passiva è un termine correntemente usato sia in medicina quanto in giurisprudenza. Se la domanda vuol essere se davvero l'eutanasia passiva è una forma di eutanasia, direi che ci sono pochi dubbi: l'intenzione di porre fine alle sofferenze è inequivocabile in chi sceglie di non sottoporsi ad ulteriori cure. La questione sembra spinosa più che altro per i credenti..."
viene immediatamente contraddetta.
Una sospensione delle cure porta solo ed esclusivamente a far sì che " la malattia farà allora il suo corso e per il diritto la morte sarà opera della natura", e non a "porre fine alle sofferenze è inequivocabile in chi sceglie di non sottoporsi ad ulteriori cure.", come tra l'altro è detto esplicitamente dopo: "non sempre c’è una terapia da rifiutare per poter morire e non sempre il rifiuto della terapia conduce a una morte rapida e indolore".
Per cui, se anche ammettiamo che il termine "eutanasia passiva" sia accettabile (cosa non scontata, visto che in ogni documento che hai postato risulta che la definizione non sia accettata univocamente, il fatto che sia una minoranza l'hai estrapolato tu :D ), il modo in cui opera rispetto all'eutanasia propriamente detta è sostanzialmente diverso: nel primo caso, c'è un seguire il decorso naturale della malattia, nel secondo un intervento comunque attivo.
Ora, la questione inoltre non è nemmeno così scontata per i non credenti come dici tu, tant'è che in più passi viene rilevato che legalmente viene riconosciuta una differenza sostanziale tra le due forme, proprio in virtù delle conseguenze mediche che hanno.
Notare che il discorso ha magicamente preso una piega (scontata :asd: ) che non c'entra nulla con il topic: chissà come mai? :D
Cmq consiglio, per chi ama la filosofia del linguaggio, di leggersi Gadamer :)
No, al contrario, è proprio il nocciolo della questione.
Si tratta di capire bene di cosa si sta parlando, e per far questo è necessario andare anche a vedere qual'è il significato concreto -e infatti ci limitiamo ad un discorso scientifico- delle definizioni che si trovano.
Anche perchè, come vedi, non c'è chiarezza nemmeno sui termini da usare, per cui una qualunque discussione è impossibile in partenza con queste basi... perchè io dico una cosa e un altro ne capirebbe un'altra...
Originariamente inviato da gpc
No, al contrario, è proprio il nocciolo della questione.
:confused:
Topic: "Basi per una discussione: terminologie"
Uno si aspetta una (meta-)trattazione dei concetti di "terminologia" e di "discussione", magari con riferimenti di ermeneutica (Gadamer); qui invece si sta parlando di eutanasia.
In questo senso ho detto che la discussione "non c'entra nulla con il topic": ricordo infatti, a proposito di terminologia, che "topic" significa "soggetto", "tema".
Vedo che il problema con i termini è parecchio a monte :D :D :D
jumpermax
08-04-2005, 11:40
Originariamente inviato da lowenz
:confused:
Topic: "Basi per una discussione: terminologie"
Uno si aspetta una (meta-)trattazione dei concetti di "terminologia" e di "discussione", magari con riferimenti di ermeneutica (Gadamer); qui invece si sta parlando di eutanasia.
In questo senso ho detto che la discussione "non c'entra nulla con il topic": ricordo infatti, a proposito di terminologia, che "topic" significa "soggetto", "tema".
Vedo che il problema con i termini è parecchio a monte :D :D :D
diciamo che a monte della discussione ce n'era un altra un po' più combattuta via icq che ha fuorviato... :D
Originariamente inviato da lowenz
:confused:
Topic: "Basi per una discussione: terminologie"
Uno si aspetta una (meta-)trattazione dei concetti di "terminologia" e di "discussione", magari con riferimenti di ermeneutica (Gadamer); qui invece si sta parlando di eutanasia.
LOL :D
Io intitolo un thread "Basi per una discussione: terminologie" e poi spiego che mi interessano alcune definizioni specifiche, bisogna farsi delle discrete pippe mentali per pensare ad una metatrattazione dei concetti di terminologia e discussione :D
In questo senso ho detto che la discussione "non c'entra nulla con il topic": ricordo infatti, a proposito di terminologia, che "topic" significa "soggetto", "tema".
Vedo che il problema con i termini è parecchio a monte :D :D :D
Certo, se non si legge il testo del primo post poi siamo messi ancora peggio :D :D
Originariamente inviato da jumpermax
diciamo che a monte della discussione ce n'era un altra un po' più combattuta via icq che ha fuorviato... :D
Diciamo pure che questo era il primo problema da risolvere prima di entrare nel merito della discussione via icq :D
Originariamente inviato da gpc
Certo, se non si legge il testo del primo post poi siamo messi ancora peggio :D :D
Chissà se si leggesse quello che c'è nella tua mente allora, laddove nascono intenzioni e scelta di parole :asd: :D ;)
Originariamente inviato da gpc
Certo, se non si legge il testo del primo post poi siamo messi ancora peggio :D :D
Veramente l'importante sarebbe leggere i testi dei post tuoi e di jumper sulle definizioni... io ci ho provato ma la memoria non tiene :p
Preferisco di gran lunga la cosmologia :D
Originariamente inviato da gpc
Diciamo pure che questo era il primo problema da risolvere prima di entrare nel merito della discussione via icq :D
Questo mi ricorda un altro thread su una discussione fra te e jumper :D
Secondo me le definizioni più interessanti sono quelle postate da jumper, perchè sono prese da un sito cristiano, e dalle legislazioni di due paesi (Svizzera e Italia).
Per cui, se anche ammettiamo che il termine "eutanasia passiva" sia accettabile (cosa non scontata, visto che in ogni documento che hai postato risulta che la definizione non sia accettata univocamente, il fatto che sia una minoranza l'hai estrapolato tu ), il modo in cui opera rispetto all'eutanasia propriamente detta è sostanzialmente diverso: nel primo caso, c'è un seguire il decorso naturale della malattia, nel secondo un intervento comunque attivo.
La questione è comunque spinosa. La sospensione delle cure implica comunque una decisione deliberata. Questo punto è importante anche nella legislazione, perchè se noti l'eutanasia passiva non consensuale è punibile. Quindi per la legge la differenza non la fa solo l'assenza di azioni dolose, ma anche il consenso del malato, in base a precisi principi giuridici. Togli il primo e hai omicidio consensuale; togli il secondo e il medico può essere punito per mancato intervento.
Le definizioni ora ci sono, mi pare il caso di discutere se si ritengono condivisibili, oppure se sono sufficientemente precise (esempio, in base a cosa si stabilisce la futilità di una cura?), oppure se è ammissibile il diritto a morire (eutanasia attiva consensuale)...
Noi siamo figli del linguaggio, quindi spesso affetti da un'indeterminazione di fondo nell'usarlo.....e nel capirlo.....dato che le nostre idee nascono, crescono e si sviluppano proprio su di lui e NON indipendentemente da lui come direbbe chi lo presenta come un semplice strumento di comunicazione/rappresentazione.
A volte direi quasi che siamo noi la rappresentazione del linguaggio e non viceversa.....
Originariamente inviato da Banus
Veramente l'importante sarebbe leggere i testi dei post tuoi e di jumper sulle definizioni... io ci ho provato ma la memoria non tiene :p
Preferisco di gran lunga la cosmologia :D
Su su, non si può avere tutto dalla vita :D
Questo mi ricorda un altro thread su una discussione fra te e jumper :D
Capita spesso :D
Perchè poi le nostre discussioni su icq finiscono sempre che Jumper è un muro di gomma, quello che gli dici rimbalza indietro ( :D ) (io invece sono sempre estremamente aperto ad avvicinarmi alle posizioni altrui, Jumper può confermare :O :fiufiu: ), quindi io lo minaccio di aprire un thread sul forum e lui inizia a dire "no, ti prego! hai ragione! va bene, non dico più niente!" ma io che sono stronzo e bastardo lo apro lo stesso :D
Secondo me le definizioni più interessanti sono quelle postate da jumper, perchè sono prese da un sito cristiano, e dalle legislazioni di due paesi (Svizzera e Italia).
Dimentichi (giustamente :asd: ) l'associazione laici... :D
La questione è comunque spinosa. La sospensione delle cure implica comunque una decisione deliberata. Questo punto è importante anche nella legislazione, perchè se noti l'eutanasia passiva non consensuale è punibile. Quindi per la legge la differenza non la fa solo l'assenza di azioni dolose, ma anche il consenso del malato, in base a precisi principi giuridici. Togli il primo e hai omicidio consensuale; togli il secondo e il medico può essere punito per mancato intervento.
Esattamente.
Credo comunque che si possa dire che la questione è spinosa dal punto di vista legale ed etico, perchè da quello medico mi sembra abbastanza netta la separazione tra i vari casi.
Fondamentale è l'osservazione che in quella che impropriamente viene chiamata eutanasia passiva, la malattia -o comunque la vita del paziente- segue il suo corso naturale.
Personalmente, credo che sia improprio chiamarla eutanasia, per due motivi: il primo è che non c'è alcun intervento esterno per uccidere il paziente, tanto che si è dovuta introdurre la distinzione "pro forma" tra attiva e passiva, e il secondo è che di "dolce morte" non ha proprio nulla, tant'è che viene esplicitamente detto che il decorso naturale può portare a sofferenze e una lunga attesa prima della morte.
Le definizioni ora ci sono, mi pare il caso di discutere se si ritengono condivisibili, oppure se sono sufficientemente precise (esempio, in base a cosa si stabilisce la futilità di una cura?), oppure se è ammissibile il diritto a morire (eutanasia attiva consensuale)...
La discussione con Jumper era su un'altra faccenda più attuale... :p Che facciamo, Jumper, glielo diciamo da dove è nato tutto?
Comunque credo che bisognerebbe anche approfondire il discorso di terapia e accanimento terapeutico, che poi si ricollega a quello che dici tu della futilità della cura tutto sommato.
Originariamente inviato da gpc
La discussione con Jumper era su un'altra faccenda più attuale... :p Che facciamo, Jumper, glielo diciamo da dove è nato tutto?
Un attimo che attacco i neuroni....allora filo rosso con fil...
ZZZZZZZZZzzzzzzzzzz
Mia ipotesi:
Ormai basta accendere la televisione per veder gente CERCARE di convincermi che "E' ragionevole e possibile credere", che "Gli insegnamenti della Chiesa sono ragionevoli e possibili", in quanto ci sono 1.000.000.000.000.000.000.000 di conferme che il credente SENTE ("vede" sarebbe un termine troppo banale e facilmente aggirabile dalla critica) benissimo e sono di FACILE ("ovvio" sarebbe un termine anch'esso aggirabile dalla critica) interpretazione (forse perchè interpretate con quello che dovrebbero dimostrare, e grazie tante, così sono capaci tutti) e di cui il povero agnostico/ateo/laico non aveva mai neanche notato.....o poverino che idiota che è.....come si fa a non capire quello che anche i bambini (e qui si cita tout-court il Vangelo) vedono....."ma non preoccupatevi, la fede arriva per tutti, il Signore chiama tutti con tempi e modi diversi".....basta aver fede.....:D :D :D :muro: :muro: :muro:
Trasmissioni con 50 cattolici-rinforzati-al-titanio (dagli eventi e delle prediche/omelie costanti degli ultimi giorni) di svariati carismi (così abbiamo ne abbiamo uno per combattere ogni specie di non-credente) contro 1 laico-agnostico zoppicante e poco preparato.
Chi crede si sente rinvigorito tantissimo da questo bagno di spiritualità che è stata la morte del papa.....è ovvio che mentre ci si senta "carichi" si inizino le discussione sui temi cari con ritrovata forza e voglia di lottare.
Ci si sente alla ribalta dopo tanto tempo di "sommersa persecuzione" (vedi parole di Buttiglione).
Sarebbe interessante analizzare scientificamente questo gran fenomeno di massa per cui tutti si riscoprono credenti, teologi, mariologi, cristologi.
E' ormai cambiato il modello di "saggio", non c'è niente da fare. Ormai il messaggio che è passato è che "credere non è ovvio - perchè ormai da parte dei credenti si è diventati esperti a pararsi da critiche fin troppo stupide come quella della non-razionalità della fede - ma è da saggio".
Ops, ho detto qualcosa? :D
Scusate ho attaccato per un attimo il neurone sbagliato, stavamo parlando di eutanasia in un thread sull'ermeneutica o di ermeneutica in un thread sull'eutanasia? :D
Originariamente inviato da gpc
Perchè poi le nostre discussioni su icq finiscono sempre che Jumper è un muro di gomma, quello che gli dici rimbalza indietro ( :D )
Non so, ma ho l'impressione che Jumper direbbe lo stesso :D
Dimentichi (giustamente :asd: ) l'associazione laici... :D
Volutamente tralasciata, dal momento che non diceva molto :p
Personalmente, credo che sia improprio chiamarla eutanasia, per due motivi: il primo è che non c'è alcun intervento esterno per uccidere il paziente, tanto che si è dovuta introdurre la distinzione "pro forma" tra attiva e passiva,
A questo punto il caso di Terri Schiavo (è questa la causa della discussione, vero? :) ) non sarebbe eutanasia? A meno che l'omissione di cure non sia considerato un intervento esterno...
Che facciamo, Jumper, glielo diciamo da dove è nato tutto?
Direi che è il minimo :D
Per le discussioni personali ci sono i pvt o i programmi di istant messaging :p
jumpermax
08-04-2005, 17:09
Originariamente inviato da gpc
La discussione con Jumper era su un'altra faccenda più attuale... :p Che facciamo, Jumper, glielo diciamo da dove è nato tutto?
ma anche no.... :D
Originariamente inviato da Banus
Non so, ma ho l'impressione che Jumper direbbe lo stesso :D
Perchè non è obbiettivo... :O :stordita: :D
A questo punto il caso di Terri Schiavo (è questa la causa della discussione, vero? :) ) non sarebbe eutanasia? A meno che l'omissione di cure non sia considerato un intervento esterno...
Acquina, acquina... ci siamo passati ma non era il nocciolo della questione.
Riguardo a questo caso, per esempio, secondo me non si può parlare di eutanasia quanto di sospensione dell'alimentazione.
Cioè, mi spiego meglio, per valutare adeguatamente questo caso bisognerebbe chiarirsi sul significato dell'accanimento terapeutico, perchè c'è chi sostiene che il sondino di per sè rappresentasse una terapia medica e che il suo distacco abbia avuto il senso di cessazione di un accanimento terapeutico che non avrebbe potuto portare a nulla.
A mio avviso, e per quelle che sono le mie conoscenze, si può parlare di accanimento terapeutico quando gli organi vitali di una persona diventano completamente dipendenti da una macchina per quel che riguarda il loro funzionamento. In questo caso specifico, la persona in questione ha vissuto per più tempo senza sondino di quanto non avrebbe potuto fare una persona sana nelle sue stesse condizioni: non mi pare quindi realistico parlare di accanimento terapeutico.
Ma questo era stato solo un passaggio, la tesi sostenuta da Jumper era molto più abberrante :D
Direi che è il minimo :D
Per le discussioni personali ci sono i pvt o i programmi di istant messaging :p
Originariamente inviato da jumpermax
ma anche no.... :D
Tutto ciò mi fa venire sempre più voglia di dire tutto... :Perfido:
Originariamente inviato da gpc
A mio avviso, e per quelle che sono le mie conoscenze, si può parlare di accanimento terapeutico quando gli organi vitali di una persona diventano completamente dipendenti da una macchina per quel che riguarda il loro funzionamento. In questo caso specifico, la persona in questione ha vissuto per più tempo senza sondino di quanto non avrebbe potuto fare una persona sana nelle sue stesse condizioni: non mi pare quindi realistico parlare di accanimento terapeutico.
E la volontà della persona dove entra?
A me già questa definizione presa alla lettera sembra aberrante. Pensa al polmone d'acciaio. C'è gente che ha passato una vita dentro a quell'oggetto, e i suoi organi vitali sono completamente dipendenti dalla macchina, e senza di essa morirebbero in poco tempo. Si può obiettare sulla qualità di una vita trascorsa in questo modo, ma la decisione eticamente parlando spetta al malato.
L'accanimento terapeutico è sempre legato all'aspettativa di vita. Se una cura è invasiva ma permette di prolungare di molto la vita del malato, non credo si possa definire "accanimento terapeutico". Mentre chemioterapia applicata a un malato in metastasi, ad esempio, è ovviamente accanimento, perchè difficilmente si riuscirà a prolungare (anche di poco) la vita.
Inoltre mi sembra importante il discorso sui malati che non sono in grado di prendere una decisione (fra cui la Schiavo). Chi può permettersi di prendere decisioni al posto loro? Ricordo che i giornali riportavano dichiarazioni dei genitori secondo cui il marito voleva liberarsi del pesante fardello della moglie in stato vegetativo.
Originariamente inviato da Banus
E la volontà della persona dove entra?
Beh, se ci limitiamo ad una definizione, la volontà della persona non entra proprio.
A me già questa definizione presa alla lettera sembra aberrante. Pensa al polmone d'acciaio. C'è gente che ha passato una vita dentro a quell'oggetto, e i suoi organi vitali sono completamente dipendenti dalla macchina, e senza di essa morirebbero in poco tempo. Si può obiettare sulla qualità di una vita trascorsa in questo modo, ma la decisione eticamente parlando spetta al malato.
L'accanimento terapeutico è sempre legato all'aspettativa di vita. Se una cura è invasiva ma permette di prolungare di molto la vita del malato, non credo si possa definire "accanimento terapeutico". Mentre chemioterapia applicata a un malato in metastasi, ad esempio, è ovviamente accanimento, perchè difficilmente si riuscirà a prolungare (anche di poco) la vita.
Inoltre mi sembra importante il discorso sui malati che non sono in grado di prendere una decisione (fra cui la Schiavo). Chi può permettersi di prendere decisioni al posto loro? Ricordo che i giornali riportavano dichiarazioni dei genitori secondo cui il marito voleva liberarsi del pesante fardello della moglie in stato vegetativo.
Il fatto che il marito volesse liberarsene a me è sembrato ovvio fin dal principio, sinceramente. Come avevo detto in altre occasioni, ritengo che molto spesso si maschera il proprio disagio davanti ad una situazione difficile con il desiderio di eliminare le sofferenze altrui.
Comunque, ora per la gioia di Jumper introduco alcune altre cose... Così ora tocca a lui leggere :D
Da questo sito:
http://www.mpv-cav.veneto.it/a_66_IT_626_3.html
di impostazione cattolica, mi limito a riprendere la parte relativa alle definizioni date dal comitato di bioetica, quindi definizioni date dal mondo scientifico.
"[...]
Secondo la definizione data dal Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) nella Relazione al Presidente del Consiglio (14/7/1995), l' eutanasia consiste nell' uccisione "diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta"; in altri termini essa consiste nel mettere in atto, intenzionalmente e volontariamente, azioni o omissioni che causano direttamente la morte di un paziente che si trovi nello stadio terminale della malattia di cui è affetto e che abbia chiesto o chieda di morire. Quindi affinchè si possa parlare di eutanasia, si richiedono, secondo il CNB, le seguenti condizioni:
1. che la persona su cui praticare l' eutanasia sia morente o in stato di malattia terminale e dunque che la sua morte sia certa, vicina o imminente (l' uccisione di una persona che non sia in questo stato è propriamente un omicidio);
2. che la persona affetta da malattia terminale faccia richiesta che si pratichi su di lei l' eutanasia (se manca tale richiesta o se questa non sia stata fatta precedentemente in maniera certa e chiara, toglierle la vita sarebbe non eutanasia, ma omicidio);
3. che alla persona in stato di malattia terminale si procuri la morte o con atto positivo - somministrando, per esempio, un farmaco letale o praticandole un' iniezione che la uccida-, o con atto omissivo, facendole mancare ciò che è necessario per vivere, per esempio facendole mancare il nutrimento;
4. che l' atto positivo o omissivo sia compiuto volontariamente e con l' intenzione di causare la morte della persona in stato di malattia terminale.
Così definita l' eutanasia è una forma di omicidio, tenendo presente però che l' omicidio ha un' accezione piu' larga dell' eutanasia: così, nel caso che si lasci morire per mancanza di nutrimento un bambino nato malformato o con un grave handicap fisico o mentale, non si deve parlare - come alcuni fanno - di eutanasia, ma di omicidio deliberato e intenzionale.
Neppure si deve parlare di eutanasia nel caso di suicidio assistito, il quale consiste nella richiesta, che una persona gravemente malata (ma non in stato di malattia terminale e quindi non prossima alla morte) fa, in piena coscienza e in stato di lucidità mentale al medico o a un parente o a un amico di procurarle un farmaco che, da essa assunto, le dia la morte.
La differenza dall' eutanasia sta nel fatto che è la persona stessa che si procura la morte ingerendo un farmaco mortale che un' altra persona le ha procurato: si tratta cioè di un suicidio, sia pure "assistito", a cui ha contribuito un' altra persona, non di un omicidio, come l' atto positivo o omissivo eutanasico, compiuto da un' altra persona, sia pure su richiesta della persona malata."
Già si vede che questo tema tocca quello già accennato dell'accanimento terapeutico.
Una prima definizione la possiamo prendere da una presentazione in powerpoint (che per definizione è scarna, inutile e inconcludente ma è la prima che ho trovato :D ):
"
DANIELE RODRIGUEZ - UNIVERSITA' POLITECNICA DELLE MARCHE - ANCONA
LA DEFINIZIONE DI ACCANIMENTO TERAPEUTICO
TRATTAMENTO DI DOCUMENTATA INEFFICACIA IN RELAZIONE ALL’OBIETTIVO
[* MEZZI ECCEZIONALI
* RISCHIO ELEVATO
* GRAVOSITÀ DEL TRATTAMENTO CON ULTERIORE SOFFERENZA]"
Un po' meglio, anche se sempre presa da un sito di orientamento cattolico, questa precisazione:
http://www.comune.ferrara.it/mm/amci/orizz02.htm
"[i]L'accanimento terapeutico si configura qualora si ricorra ad un trattamento di constatata inefficacia, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato o di sofferenza ulteriore per il paziente e si intraprenda un trattamento chiaramente sproporzionato nel rapporto rischio/beneficio.
Volendo fare una esemplificazione, facciamo riferimento al caso in cui bisogna prendere delle decisioni per un paziente in coma, ricoverato in rianimazione. Riteniamo che, in questo caso, non si configuri alcun accanimento terapeutico qualora:
a) in presenza di coma ritenuto reversibile, si usino tutti i mezzi a disposizione per il recupero del paziente in quanto una vita umana vale ogni sacrificio;
b. in presenza di coma irreversibile, non si intraprendano interventi particolarmente sfibranti e onerosi per il paziente condannandolo al prolungamento di un'inutile agonia, fermo restando, però, l'obbligo del cure ordinarie;
c. non si prolunghi una vita puramente apparente e totalmente artificiale dopo che l'attività cerebrale e le funzioni del troncoencefalo siano completamente e irreversibilmente cessate, a meno che non sia possibile e utile il prelievo di organi.
Quindi il concetto di accanimento terapeutico che talvolta sembra intenzionalmente drammatizzato per attirare consensi sull'eutanasia, si configura nella fattispecie in questi due casi:
1) se si interviene su chi è stato dichiarato clinicamente morto;
2) se l'intervento medico o chirurgico (ad eccezione dell'assistenza ordinaria) venga fatto nel quadro di un decorso irreversibile e nel caso di comprovata inefficacia o nel caso di evidente sproporzione tra rischi e sofferenze umane da una parte e risultati dall'altra. Questa sproporzione, nel caso del coma, non è sempre facilmente evidente, perché quando si inizia un trattamento rianimatorio non si può mai sapere il più delle volte se il coma è irreversibile. Poiché è difficoltoso definire, anche dopo settimane, la irreversibilità del coma e quindi la irrecuperabilità delle funzioni di coscienza e di relazione, non ci sembra eticamente giustificabile in questo caso sospendere l'assistenza ordinaria anche rianimatoria;[i]"
Insomma, in ogni caso, ci sono dei requisiti ben specifici per parlare di accanimento terapeutico, primo dei quali l'inutilità manifesta della terapia.
Originariamente inviato da gpc
Beh, se ci limitiamo ad una definizione, la volontà della persona non entra proprio.
I malati come persone hanno una propria volontà, e questa direi che conta nelle definizioni. Altrimenti nelle leggi non si parlerebbe di attenuanti nel caso di interventi attivi, ma con il consenso del malato, o non si parlerebbe di diritto a non curarsi (che riguarda appunto la volontà del malato).
A meno che il discorso non sia limitato ai soli casi in cui il malato non è cosciente, o non è in grado di prendere una decisione propria.
Insomma, in ogni caso, ci sono dei requisiti ben specifici per parlare di accanimento terapeutico, primo dei quali l'inutilità manifesta della terapia.
Più che altro si trova una considerazione rischi/benefici. Questo tra l'altro richiede una valutazione da parte del medico che non sempre è facile.
Il caso del coma è il più semplice perchè si può trascurare la reazione del paziente alle cure. Nel caso del cancro penso che sia molto più difficile decidere della futilità di una cura.
Da qui a parlare di eutanasia comunque ne corre... non è un caso infatti che molti medici abbiano evidenziato l'importanza delle cure palliative.
Originariamente inviato da Banus
I malati come persone hanno una propria volontà, e questa direi che conta nelle definizioni. Altrimenti nelle leggi non si parlerebbe di attenuanti nel caso di interventi attivi, ma con il consenso del malato, o non si parlerebbe di diritto a non curarsi (che riguarda appunto la volontà del malato).
A meno che il discorso non sia limitato ai soli casi in cui il malato non è cosciente, o non è in grado di prendere una decisione propria.
Quello che voglio dire è che se si dà la definizione, per esempio, di eutanasia o di accanimento terapeutico, il fatto che il paziente sia d'accordo o meno non conta niente :D
La definizione è quella, punto.
Più che altro si trova una considerazione rischi/benefici. Questo tra l'altro richiede una valutazione da parte del medico che non sempre è facile.
Il caso del coma è il più semplice perchè si può trascurare la reazione del paziente alle cure. Nel caso del cancro penso che sia molto più difficile decidere della futilità di una cura.
Da qui a parlare di eutanasia comunque ne corre... non è un caso infatti che molti medici abbiano evidenziato l'importanza delle cure palliative.
Mah, a me pare proprio di aver capito il contrario, ovvero che il coma è uno dei punti più controversi proprio perchè non c'è certezza del risultato delle cure nè modo di sapere se il coma è reversibile o irreversibile a priori, e di conseguenza basare un criterio sulla presunta inefficacia delle cure è praticamente impossibile.
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