SaMu
13-02-2005, 08:35
La mattina di buon'ora vai in edicola a comprare il Corriere, lo leggi sorseggiando il caffè a colazione, e rifletti su quanto sia candidamente inopportuna la sinistra italiana, o forse sarebbe dire i gruppi dirigenti che la rappresentano.
Tre storie di ordinaria sinistra, storie diverse, un'unico denominatore.
La sinistra radicale boccia anche Annan: ritiro subito
D’Alema: l’appello? Basta pensare al cortile di casa. Riformisti divisi tra il no e il non voto
ROMA - La domanda sorprende il presidente dei Ds a Parigi, a margine di un seminario sulle relazioni transatlantiche: l’appello di Kofi Annan a unire le forze per l’Iraq può cambiare la posizione del centrosinistra? La risposta è una risata divertita, «finiamo sempre per occuparci del cortile di casa...». Massimo D’Alema non lo dice, ma la lettera del segretario generale dell’Onu al Washington Post non pare aver influito sulle scelte dell’opposizione, eppure Annan ha detto cose che molti a sinistra sembravano attendere. Il voto ha determinato «un’emozionante opportunità» e ora le Nazioni Unite faranno la loro parte per aiutare il popolo iracheno, promette Annan. Ma l’Onu ha bisogno dell’impegno dell’Europa. «La comunità internazionale, che sull’Iraq si è duramente divisa, ora ammetta di condividere la stessa agenda: condurre l’Iraq dal punto di partenza, le elezioni svolte con successo, verso un futuro di pace e democrazia».
Il «ricominciamo insieme» rivolto in particolare a Francia e Germania invita alla riflessione anche l’Unione di Prodi che si appresta a bocciare la proroga della missione italiana. Ognuno, a sinistra, ha il suo Kofi Annan. Il fronte pacifista vi legge la conferma che il dramma iracheno finirà solo con il ritiro degli occupanti. E i riformisti apprezzano il «segnale positivo», ma si dividono tra chi una lettera così vorrebbe riceverla da Berlusconi e chi (da Beppe Fioroni e Enzo Carra della Margherita al ds Umberto Ranieri ) vi trova una ragione in più per astenersi sul voto al Senato. «Il centrosinistra non può non condividere l’appello» spera Ranieri, vicepresidente della commissione Esteri della Camera.
Lettera di Annan alla mano, il verde Paolo Cento arriva a conclusioni opposte e cioè che «a maggior ragione l’Italia deve ritirare le truppe». Passi avanti non ce ne sono, o almeno non ne vede Armando Cossutta del Pdci. «Per mutare lo status di potenze occupanti in presenza multinazionale non basta una lettera - concorda Pietro Folena del correntone ds - Servono i caschi blu». Franco Giordano del Prc fa notare che Annan non ha chiesto «esplicitamente» agli occupanti di restare e ammette che se pure lo dicesse nulla cambierebbe: non si legittima ex post una guerra sbagliata.
Per i riformisti, che attorno all’Onu hanno trovato un difficile equilibrio unitario, liquidare l’appello di Annan non è altrettanto semplice. «È proprio quello che abbiamo detto noi» concorda Marina Sereni , ma per la responsabile Esteri dei Ds il problema non è se restare o no, ma «per fare cosa e con chi». E se non sarà Berlusconi a parlare con la voce di Annan, la Quercia voterà no. I parlamentari dell’Ulivo sceglieranno a maggioranza martedì e nulla pare scontato, né il «no» annunciato da Prodi né l’ordine del giorno con cui i fautori dell’astensione (come Francesco Rutelli e Franco Marini ) vorrebbero stemperarlo. Piero Fassino teme le contromosse di Rifondazione e infatti la Sereni e Gavino Angius propongono sì di presentare una mozione che impegni il governo a discutere la situazione irachena, ma solo dopo il voto. Anche la sinistra radicale si riunirà e la scelta è se il documento dei riformisti meriti una contro-mozione per il ritiro. Oliviero Diliberto e Alfonso Pecoraro Scanio sono pronti, ma Fausto Bertinotti non vuole disintegrare l’Unione. Come dice Giordano, «l’ordine del giorno ha un significato relativo...».
«Lollo, un poveraccio che cerca vendetta»
Parlato: le sue dichiarazioni non cambiano la verità storica, servono solo a far attaccare la sinistra
ROMA - Nella redazione del manifesto aspettano che arrivi una notizia buona da Bagdad, è un sabato pomeriggio di speranza, attesa e però il giornale bisogna continuare a confezionarlo e così ci sono anche altre discussioni: su una di queste, Valentino Parlato s’accende una sigaretta. «Va bene, parliamo del caso di Primavalle e di quel Lollo...». Valentino Parlato non è solo: nella sua stanza ci sono pure due colleghi, Andrea Colombo e Ida Dominijanni. «Vi prego, compagni, restate qui a sentire...».
Ecco, Parlato... Dopo 32 anni, quelle rivelazioni di Achille Lollo, da Rio de Janeiro: la notte del 16 aprile 1973, il rogo a casa di Mario Mattei, il segretario della sezione missina di Primavalle, un rogo nel quale morirono bruciati vivi due suoi figli, Virgilio di 22 anni e Stefano di 8, fu organizzato da sei persone e non soltanto da tre. Ecco, quelle rivelazioni, che effetto le hanno fatto?
«Io credo che la storia vada sempre rivista. Nel caso specifico, però, credo che quella di Achille Lollo sia un’uscita moralmente poco nobile. La vendetta di un poveraccio».
La vendetta?
«Ma sì, certo, la vendetta. Questa è pura vendetta».
Contro chi?
«Lo dice, lo ammette lui stesso... Contro tre compagni di banco che, all’epoca dei fatti, erano più signori...».
Signori, in che senso?
«Proprio nel senso borghese che intende Lollo...».
Lei parla di vendetta, Parlato. Ma scusi: la verità, una volta, non era rivoluzionaria?
«Certo... Ma questa di Lollo, che nuova verità storica sarebbe? Cosa aggiunge e cosa toglie a ciò che già conoscevamo?».
Meglio una verità completa di una parziale, o no?
«Mi chiedo: sapere se quei tre che Lollo, dopo 32 anni di silenzio, ha avuto la premura di coinvolgere raccontando tutto al Corriere , e cioè Paolo Gaeta, Diana Perrone ed Elisabetta Lecco, quella sera erano in macchina o piuttosto a casa... Ecco, saperlo adesso: cosa ci cambia? Quale piccolissima verità processuale sposta?».
Lei crede o no a quanto raccontato a Lollo?
«Io, quel Lollo, lo giudicai male all’epoca dell’attentato, un gesto folle e inutile, e lo giudico male oggi... Ma...».
Ma?
«Beh, riconosco che c’è una storia privata, per la quale Lollo avrà taciuto per ovvie convenienze... E poi c’è una storia, come dire? Politica».
Parliamo di questa.
«Sì, parliamone e diciamo con chiarezza che queste dichiarazioni di Lollo hanno di fatto dato il via ad una dura campagna di demonizzazione della sinistra. Ma l’avete sentito cosa si sente autorizzato a dire uno come Storace?».
Che diedero fuoco anche a casa sua e che...
«E i suoi amici? Ma su, forza, era tutta una stagione... Le parole di Lollo sono solo un eccellente assist a Berlusconi... E a questo proposito vorrei dire che io mi aspettavo...».
Cosa?
«Io mi aspettavo che un giornale serio come il Corriere contestualizzasse meglio ciò che accadde in occasione del rogo di Primavalle e che non preferisse invece leggere il tutto con le lenti del 2005».
Però, Parlato, è provato storicamente, e ci sono i titoli dei giornali dell’epoca che lo testimoniano: la sinistra, nelle settimane successive al rogo, preferì parlare di montature, di trame nere...
«La sinistra, in quell’occasione, sbagliò. E sbagliammo anche noi del manifesto , così come pure quelli dell’ Unità e di Paese Sera . Non capimmo, o forse non volemmo capire. Ma, appunto, sarebbe opportuno contestualizzare...».
C’erano le stragi nere, c’erano l’eversione di destra...
«E il nostro non voler indagare, capire e accettare... fu non giustificabile, ma comprensibile».
Però, Parlato: lei non trova che la sinistra, in qualche misura, faccia sempre un po’ troppa fatica a parlare dei suoi errori, dei suoi compagni che sbagliarono? Questo vale per Primavalle, ma anche per altre vicende...
«La sinistra italiana è stata brava a correggersi su certe grandi tematiche, come l’Unione Sovietica, su certi simboli... e però, sulle piccole cose di casa, stenta. È vero. Di noi, e dei nostri errori, parliamo sempre con una certa difficoltà».
Non sarà che vi portate dietro il senso di colpa profondo di non aver saputo intercettare, e bloccare, le derive di certi movimenti estremisti? Non credeste che il rogo di Primavalle fosse opera di militanti di Potere Operaio e poi, però, leader di quello stesso movimento, come Valerio Morucci, finirono nelle Brigate Rosse...
«C’è, in molti di noi, una sorta di rimozione».
Rimozione?
«Esatto. Perché, ripeto, sbagliammo. Ma non sbagliammo banalmente. Un’organizzazione come Potere Operaio, per esempio, non era solo una banda di delinquenti. Io, che non ero nato politicamente nel Sessantotto, quando leggevo certe loro cose, da vecchio comunista, d’istinto pensavo: sono matti... Poi, però... ecco, ci trovavo qualcosa di interessante, di condivisibile».
È passato tanto tempo: Parlato, quanti ha?
«Settantaquattro».
Lei è un punto di riferimento della sinistra radicale. Oggi cos’è che l’appassiona veramente?
«Capire come va, dove va la società italiana».
Voto a rischio? Tutto a monte. Per le «primarie» ...
Voto a rischio? Tutto a monte. Per le «primarie» di Viterbo, a sinistra, si erano mobilitati in tantissimi: un ventisettesimo dell’intera popolazione provinciale. Come se a livello nazionale fossero andati a chiedere di votare due milioni di persone. Un trionfo. Che avrebbe dovuto celebrare oggi, domenica 13 febbraio, la rinascita di una provincia storicamente «rossa» conquistata anni fa dalla destra. Macché: tutto saltato. Come in certe partite all’oratorio dove il padrone del pallone, se buttava male, si metteva la sfera sottobraccio: «Non gioco più». Fine della partita. E perché? Fifa blu, dicono i maliziosi. Fifa blu, dentro la spaccatissima Unione, che si ripetesse il ribaltone pugliese dove Nichi Vendola aveva fatto secco il candidato ufficiale dell’Ulivo. Con un’aggravante tutta interna ai Democratici di sinistra: a Viterbo il candidato della gauche alternativa non era un bertinottiano ma un diessino della minoranza del Correntone. Un rivale intestino.
Ma è meglio partire dall’inizio. E cioè da quando, sulle colline della Tuscia, versante di sinistra, cominciò a soffiare quel vento fresco e impetuoso invocato da Romano Prodi: primarie, primarie, primarie! Una cotta. E tutti a dirsi, dandosi di gomito: cosa c’è di più bello che affrontarsi all’americana tra amici e alleati che si vogliono bene e dar vita a una bella battaglia ideale sui contenuti e poi affrontare insieme, chiunque la spunti, il vero nemico e cioè la destra? Vinca il migliore! Detto fatto, dovendo decidere il nome del candidato alla presidenza della Provincia alle elezioni del prossimo 3 aprile, i volonterosi primaristi viterbesi hanno stilato un bel regolamento approvato all’unanimità da tutti i partiti della Gad e dai movimenti in base al quale per presentarsi alla disfida occorreva raccogliere 600 firme in almeno 10 comuni della Provincia. Firme che dovevano essere apposte da elettori disposti a sottoscrivere il programma e il progetto politico della Grande Alleanza. Data stabilita per il ballottaggio tra i vari aspiranti: il 13 febbraio, giorno in cui avrebbero dovuto essere pronti gli appositi seggi.
Il giorno fissato per la presentazione delle candidature, 27 gennaio, è arrivata la sorpresa. Non solo i candidati che avevano preso sul serio la gara erano tre, cioè il diessino fassiniano Enrico Panunzi, il diessino «correntonista» Antonio Filippi, ex segretario provinciale della Cgil, e il prodiano Antonio Zezza, che non accettando di dover scegliere tra le due anime della Quercia si era dato da fare raccogliendo in proprio, a dispetto della Margherita cui è iscritto, circa 1.500 firme. Ma nonostante l’appoggio della maggioranza del suo partito, di larga parte di quello di Rutelli, dei socialisti dello Sdi, dell’Udeur, dei cossuttiani e di tutte le minutaglie della coalizione, il cavallo ufficiale ulivista aveva raccolto 4.500 firme. Mentre quello «mussiano», sostenuto dalla minoranza diessina, da Rifondazione, dai Verdi, da un pezzo della Margherita legata alle associazioni del volontariato e dai movimenti raggruppati nel comitato «Un’altra provincia di può!», di firme ne aveva 4.700.
Indice che la partita era tutta aperta. Peggio: grazie alla maggiore capacità di mobilitazione della sinistra più radicale era possibile il replay di quanto era accaduto in Puglia.
Tema: cosa fare? La discussione, condotta un po’ in pubblico e un po’ nelle segrete stanze, è andata avanti per pochi giorni. Finché il 31 gennaio Enrico Panunzi, l’ormai azzoppato purosangue ulivista, non ha rotto gli indugi. E ha rinunciato alla candidatura. «Motivi personali». Cioè? «Motivi personali». Ma di che tipo? «Motivi personali». A quel punto, dicono, gli inviti a Zezza perché lasciasse perdere, hanno cominciato a essere un assedio. Finché il margheritino dissidente ha deciso anche lui di mollare: stando così le cose... Da allora, se gli chiedi cosa sia successo risponde: «Stendiamo un velo pietoso, non ne voglio più parlare».
Rimasto in ballo da solo, Antonio Filippi ha tenuto duro qualche giorno. Poi, l’altro ieri, ha fatto buon viso a cattivo gioco: «Non potevo mica correre da solo... Ormai le primarie le avevano annullate».
Alessandro Mazzoli, il segretario ds, gli ha mandato una pubblica lettera di imbarazzato plauso, che si richiama un po’ alle epistole con cui venivano ringraziati i funzionari scomodi eliminati ai tempi di Togliatti e Secchia: «Il tuo è un gesto nobile degno di un dirigente politico al servizio degli interessi generali. Ora, tutti insieme, possiamo voltare pagina.... Oddio: delle altre primarie? Per carità, spiega il responsabile diessino: «Decideremo serenamente, tutti insieme. Ma basta primarie: troppe rotture».
E così, mentre la destra viterbese si spacca e pare andare al voto con tre liste (quella ufficiale guidata dal forzista Enrico Battistoni più una dell’azzurro ribelle Ugo Gigli e una del senatore Michele Bonatesta che ha sbattuto la porta ad An mentre Storace tuonava: Chiedetegli scusa!»), a sinistra sospirano: e pensar che sarebbe l'occasione buona... Il candidato comune, giurano, lo troveranno in pochi giorni. Mah... Per risolvere l’ultimo conclave, da queste parti, ci misero tre anni e i viterbesi dovettero murare i cardinali nel palazzo e poiché non bastava ancora smontarono il tetto per lasciarli esposti a pane e acqua, al freddo e alla pioggia. Auguri.
Tre storie di ordinaria sinistra, storie diverse, un'unico denominatore.
La sinistra radicale boccia anche Annan: ritiro subito
D’Alema: l’appello? Basta pensare al cortile di casa. Riformisti divisi tra il no e il non voto
ROMA - La domanda sorprende il presidente dei Ds a Parigi, a margine di un seminario sulle relazioni transatlantiche: l’appello di Kofi Annan a unire le forze per l’Iraq può cambiare la posizione del centrosinistra? La risposta è una risata divertita, «finiamo sempre per occuparci del cortile di casa...». Massimo D’Alema non lo dice, ma la lettera del segretario generale dell’Onu al Washington Post non pare aver influito sulle scelte dell’opposizione, eppure Annan ha detto cose che molti a sinistra sembravano attendere. Il voto ha determinato «un’emozionante opportunità» e ora le Nazioni Unite faranno la loro parte per aiutare il popolo iracheno, promette Annan. Ma l’Onu ha bisogno dell’impegno dell’Europa. «La comunità internazionale, che sull’Iraq si è duramente divisa, ora ammetta di condividere la stessa agenda: condurre l’Iraq dal punto di partenza, le elezioni svolte con successo, verso un futuro di pace e democrazia».
Il «ricominciamo insieme» rivolto in particolare a Francia e Germania invita alla riflessione anche l’Unione di Prodi che si appresta a bocciare la proroga della missione italiana. Ognuno, a sinistra, ha il suo Kofi Annan. Il fronte pacifista vi legge la conferma che il dramma iracheno finirà solo con il ritiro degli occupanti. E i riformisti apprezzano il «segnale positivo», ma si dividono tra chi una lettera così vorrebbe riceverla da Berlusconi e chi (da Beppe Fioroni e Enzo Carra della Margherita al ds Umberto Ranieri ) vi trova una ragione in più per astenersi sul voto al Senato. «Il centrosinistra non può non condividere l’appello» spera Ranieri, vicepresidente della commissione Esteri della Camera.
Lettera di Annan alla mano, il verde Paolo Cento arriva a conclusioni opposte e cioè che «a maggior ragione l’Italia deve ritirare le truppe». Passi avanti non ce ne sono, o almeno non ne vede Armando Cossutta del Pdci. «Per mutare lo status di potenze occupanti in presenza multinazionale non basta una lettera - concorda Pietro Folena del correntone ds - Servono i caschi blu». Franco Giordano del Prc fa notare che Annan non ha chiesto «esplicitamente» agli occupanti di restare e ammette che se pure lo dicesse nulla cambierebbe: non si legittima ex post una guerra sbagliata.
Per i riformisti, che attorno all’Onu hanno trovato un difficile equilibrio unitario, liquidare l’appello di Annan non è altrettanto semplice. «È proprio quello che abbiamo detto noi» concorda Marina Sereni , ma per la responsabile Esteri dei Ds il problema non è se restare o no, ma «per fare cosa e con chi». E se non sarà Berlusconi a parlare con la voce di Annan, la Quercia voterà no. I parlamentari dell’Ulivo sceglieranno a maggioranza martedì e nulla pare scontato, né il «no» annunciato da Prodi né l’ordine del giorno con cui i fautori dell’astensione (come Francesco Rutelli e Franco Marini ) vorrebbero stemperarlo. Piero Fassino teme le contromosse di Rifondazione e infatti la Sereni e Gavino Angius propongono sì di presentare una mozione che impegni il governo a discutere la situazione irachena, ma solo dopo il voto. Anche la sinistra radicale si riunirà e la scelta è se il documento dei riformisti meriti una contro-mozione per il ritiro. Oliviero Diliberto e Alfonso Pecoraro Scanio sono pronti, ma Fausto Bertinotti non vuole disintegrare l’Unione. Come dice Giordano, «l’ordine del giorno ha un significato relativo...».
«Lollo, un poveraccio che cerca vendetta»
Parlato: le sue dichiarazioni non cambiano la verità storica, servono solo a far attaccare la sinistra
ROMA - Nella redazione del manifesto aspettano che arrivi una notizia buona da Bagdad, è un sabato pomeriggio di speranza, attesa e però il giornale bisogna continuare a confezionarlo e così ci sono anche altre discussioni: su una di queste, Valentino Parlato s’accende una sigaretta. «Va bene, parliamo del caso di Primavalle e di quel Lollo...». Valentino Parlato non è solo: nella sua stanza ci sono pure due colleghi, Andrea Colombo e Ida Dominijanni. «Vi prego, compagni, restate qui a sentire...».
Ecco, Parlato... Dopo 32 anni, quelle rivelazioni di Achille Lollo, da Rio de Janeiro: la notte del 16 aprile 1973, il rogo a casa di Mario Mattei, il segretario della sezione missina di Primavalle, un rogo nel quale morirono bruciati vivi due suoi figli, Virgilio di 22 anni e Stefano di 8, fu organizzato da sei persone e non soltanto da tre. Ecco, quelle rivelazioni, che effetto le hanno fatto?
«Io credo che la storia vada sempre rivista. Nel caso specifico, però, credo che quella di Achille Lollo sia un’uscita moralmente poco nobile. La vendetta di un poveraccio».
La vendetta?
«Ma sì, certo, la vendetta. Questa è pura vendetta».
Contro chi?
«Lo dice, lo ammette lui stesso... Contro tre compagni di banco che, all’epoca dei fatti, erano più signori...».
Signori, in che senso?
«Proprio nel senso borghese che intende Lollo...».
Lei parla di vendetta, Parlato. Ma scusi: la verità, una volta, non era rivoluzionaria?
«Certo... Ma questa di Lollo, che nuova verità storica sarebbe? Cosa aggiunge e cosa toglie a ciò che già conoscevamo?».
Meglio una verità completa di una parziale, o no?
«Mi chiedo: sapere se quei tre che Lollo, dopo 32 anni di silenzio, ha avuto la premura di coinvolgere raccontando tutto al Corriere , e cioè Paolo Gaeta, Diana Perrone ed Elisabetta Lecco, quella sera erano in macchina o piuttosto a casa... Ecco, saperlo adesso: cosa ci cambia? Quale piccolissima verità processuale sposta?».
Lei crede o no a quanto raccontato a Lollo?
«Io, quel Lollo, lo giudicai male all’epoca dell’attentato, un gesto folle e inutile, e lo giudico male oggi... Ma...».
Ma?
«Beh, riconosco che c’è una storia privata, per la quale Lollo avrà taciuto per ovvie convenienze... E poi c’è una storia, come dire? Politica».
Parliamo di questa.
«Sì, parliamone e diciamo con chiarezza che queste dichiarazioni di Lollo hanno di fatto dato il via ad una dura campagna di demonizzazione della sinistra. Ma l’avete sentito cosa si sente autorizzato a dire uno come Storace?».
Che diedero fuoco anche a casa sua e che...
«E i suoi amici? Ma su, forza, era tutta una stagione... Le parole di Lollo sono solo un eccellente assist a Berlusconi... E a questo proposito vorrei dire che io mi aspettavo...».
Cosa?
«Io mi aspettavo che un giornale serio come il Corriere contestualizzasse meglio ciò che accadde in occasione del rogo di Primavalle e che non preferisse invece leggere il tutto con le lenti del 2005».
Però, Parlato, è provato storicamente, e ci sono i titoli dei giornali dell’epoca che lo testimoniano: la sinistra, nelle settimane successive al rogo, preferì parlare di montature, di trame nere...
«La sinistra, in quell’occasione, sbagliò. E sbagliammo anche noi del manifesto , così come pure quelli dell’ Unità e di Paese Sera . Non capimmo, o forse non volemmo capire. Ma, appunto, sarebbe opportuno contestualizzare...».
C’erano le stragi nere, c’erano l’eversione di destra...
«E il nostro non voler indagare, capire e accettare... fu non giustificabile, ma comprensibile».
Però, Parlato: lei non trova che la sinistra, in qualche misura, faccia sempre un po’ troppa fatica a parlare dei suoi errori, dei suoi compagni che sbagliarono? Questo vale per Primavalle, ma anche per altre vicende...
«La sinistra italiana è stata brava a correggersi su certe grandi tematiche, come l’Unione Sovietica, su certi simboli... e però, sulle piccole cose di casa, stenta. È vero. Di noi, e dei nostri errori, parliamo sempre con una certa difficoltà».
Non sarà che vi portate dietro il senso di colpa profondo di non aver saputo intercettare, e bloccare, le derive di certi movimenti estremisti? Non credeste che il rogo di Primavalle fosse opera di militanti di Potere Operaio e poi, però, leader di quello stesso movimento, come Valerio Morucci, finirono nelle Brigate Rosse...
«C’è, in molti di noi, una sorta di rimozione».
Rimozione?
«Esatto. Perché, ripeto, sbagliammo. Ma non sbagliammo banalmente. Un’organizzazione come Potere Operaio, per esempio, non era solo una banda di delinquenti. Io, che non ero nato politicamente nel Sessantotto, quando leggevo certe loro cose, da vecchio comunista, d’istinto pensavo: sono matti... Poi, però... ecco, ci trovavo qualcosa di interessante, di condivisibile».
È passato tanto tempo: Parlato, quanti ha?
«Settantaquattro».
Lei è un punto di riferimento della sinistra radicale. Oggi cos’è che l’appassiona veramente?
«Capire come va, dove va la società italiana».
Voto a rischio? Tutto a monte. Per le «primarie» ...
Voto a rischio? Tutto a monte. Per le «primarie» di Viterbo, a sinistra, si erano mobilitati in tantissimi: un ventisettesimo dell’intera popolazione provinciale. Come se a livello nazionale fossero andati a chiedere di votare due milioni di persone. Un trionfo. Che avrebbe dovuto celebrare oggi, domenica 13 febbraio, la rinascita di una provincia storicamente «rossa» conquistata anni fa dalla destra. Macché: tutto saltato. Come in certe partite all’oratorio dove il padrone del pallone, se buttava male, si metteva la sfera sottobraccio: «Non gioco più». Fine della partita. E perché? Fifa blu, dicono i maliziosi. Fifa blu, dentro la spaccatissima Unione, che si ripetesse il ribaltone pugliese dove Nichi Vendola aveva fatto secco il candidato ufficiale dell’Ulivo. Con un’aggravante tutta interna ai Democratici di sinistra: a Viterbo il candidato della gauche alternativa non era un bertinottiano ma un diessino della minoranza del Correntone. Un rivale intestino.
Ma è meglio partire dall’inizio. E cioè da quando, sulle colline della Tuscia, versante di sinistra, cominciò a soffiare quel vento fresco e impetuoso invocato da Romano Prodi: primarie, primarie, primarie! Una cotta. E tutti a dirsi, dandosi di gomito: cosa c’è di più bello che affrontarsi all’americana tra amici e alleati che si vogliono bene e dar vita a una bella battaglia ideale sui contenuti e poi affrontare insieme, chiunque la spunti, il vero nemico e cioè la destra? Vinca il migliore! Detto fatto, dovendo decidere il nome del candidato alla presidenza della Provincia alle elezioni del prossimo 3 aprile, i volonterosi primaristi viterbesi hanno stilato un bel regolamento approvato all’unanimità da tutti i partiti della Gad e dai movimenti in base al quale per presentarsi alla disfida occorreva raccogliere 600 firme in almeno 10 comuni della Provincia. Firme che dovevano essere apposte da elettori disposti a sottoscrivere il programma e il progetto politico della Grande Alleanza. Data stabilita per il ballottaggio tra i vari aspiranti: il 13 febbraio, giorno in cui avrebbero dovuto essere pronti gli appositi seggi.
Il giorno fissato per la presentazione delle candidature, 27 gennaio, è arrivata la sorpresa. Non solo i candidati che avevano preso sul serio la gara erano tre, cioè il diessino fassiniano Enrico Panunzi, il diessino «correntonista» Antonio Filippi, ex segretario provinciale della Cgil, e il prodiano Antonio Zezza, che non accettando di dover scegliere tra le due anime della Quercia si era dato da fare raccogliendo in proprio, a dispetto della Margherita cui è iscritto, circa 1.500 firme. Ma nonostante l’appoggio della maggioranza del suo partito, di larga parte di quello di Rutelli, dei socialisti dello Sdi, dell’Udeur, dei cossuttiani e di tutte le minutaglie della coalizione, il cavallo ufficiale ulivista aveva raccolto 4.500 firme. Mentre quello «mussiano», sostenuto dalla minoranza diessina, da Rifondazione, dai Verdi, da un pezzo della Margherita legata alle associazioni del volontariato e dai movimenti raggruppati nel comitato «Un’altra provincia di può!», di firme ne aveva 4.700.
Indice che la partita era tutta aperta. Peggio: grazie alla maggiore capacità di mobilitazione della sinistra più radicale era possibile il replay di quanto era accaduto in Puglia.
Tema: cosa fare? La discussione, condotta un po’ in pubblico e un po’ nelle segrete stanze, è andata avanti per pochi giorni. Finché il 31 gennaio Enrico Panunzi, l’ormai azzoppato purosangue ulivista, non ha rotto gli indugi. E ha rinunciato alla candidatura. «Motivi personali». Cioè? «Motivi personali». Ma di che tipo? «Motivi personali». A quel punto, dicono, gli inviti a Zezza perché lasciasse perdere, hanno cominciato a essere un assedio. Finché il margheritino dissidente ha deciso anche lui di mollare: stando così le cose... Da allora, se gli chiedi cosa sia successo risponde: «Stendiamo un velo pietoso, non ne voglio più parlare».
Rimasto in ballo da solo, Antonio Filippi ha tenuto duro qualche giorno. Poi, l’altro ieri, ha fatto buon viso a cattivo gioco: «Non potevo mica correre da solo... Ormai le primarie le avevano annullate».
Alessandro Mazzoli, il segretario ds, gli ha mandato una pubblica lettera di imbarazzato plauso, che si richiama un po’ alle epistole con cui venivano ringraziati i funzionari scomodi eliminati ai tempi di Togliatti e Secchia: «Il tuo è un gesto nobile degno di un dirigente politico al servizio degli interessi generali. Ora, tutti insieme, possiamo voltare pagina.... Oddio: delle altre primarie? Per carità, spiega il responsabile diessino: «Decideremo serenamente, tutti insieme. Ma basta primarie: troppe rotture».
E così, mentre la destra viterbese si spacca e pare andare al voto con tre liste (quella ufficiale guidata dal forzista Enrico Battistoni più una dell’azzurro ribelle Ugo Gigli e una del senatore Michele Bonatesta che ha sbattuto la porta ad An mentre Storace tuonava: Chiedetegli scusa!»), a sinistra sospirano: e pensar che sarebbe l'occasione buona... Il candidato comune, giurano, lo troveranno in pochi giorni. Mah... Per risolvere l’ultimo conclave, da queste parti, ci misero tre anni e i viterbesi dovettero murare i cardinali nel palazzo e poiché non bastava ancora smontarono il tetto per lasciarli esposti a pane e acqua, al freddo e alla pioggia. Auguri.