Anakin
02-02-2005, 23:29
questa è la dichiarazione spontanea di Andreotti fatta alla Corte di Appello di Palermo nel 2002.
ci vuole un 10 minuti a leggere,ma ne vale la pena...
io penso che non si possa parlare sull'argomento senza conoscere queste cose.
purtroppo bisogna seguire il discorso e i pezzi piu' interessanti sono oltre la meta.
"Continuo ad aver fiducia nella giustizia"
di Giulio Andreotti
In un momento personale di doloroso stupore per quanto abbattutosi su di me il 17 novembre, ho ritenuto mio dovere chiedere a lei, signor presidente, e alla Corte di poter esprimere qualche considerazione, a corredo della documentata memoria presentata dai miei difensori.
La mia vita, che ben al di là dei miei meriti era stata contrassegnata da una serie di eccezionali momenti positivi anche internazionali, mutò improvvisamente quando nel marzo 1993 arrivò in Senato (il presidente Spadolini me lo comunicò emozionatissimo) la richiesta della Procura di Palermo di autorizzazione a procedere nei miei confronti. Con una procedura insolita, a questa richiesta, datata 27 marzo, si aggiunse, man mano che altri collaboranti facevano dichiarazioni, una prima integrazione il 14 ed una seconda il 20 aprile.
Poche settimane dopo, questa volta dalla Procura di Roma, arrivava un’altra richiesta per indagare se e come io fossi coinvolto nell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli, avvenuto nel marzo 1979.
La nuova richiesta, come ho detto, proveniva dalla Procura di Roma ma agli atti del mio processo palermitano risulta, datata 5 aprile 1993, una lettera del presidente della Commissione antimafia indirizzata al dottor Scarpinato nella quale si comunicava che da una telefonata anonima ricevuta sarebbe risultato che "un tale Patrizio, braccio destro del Pecorelli, possederebbe la copertina del numero di O.P. che non fu mai stampata a causa dell’omicidio. Nella copertina stessa sarebbero indicati sei nomi leggendo i quali si comprenderebbe chi possiede oggi i documenti di Pecorelli".
Singolare consecutio temporum: il 5 aprile la comunicazione sulla telefonata anonima, il 6 aprile Tommaso Buscetta fa le sue dichiarazioni (con quel "su richiesta" che in seguito smentirà regolarmente), l’8 aprile Palermo trasmette a Roma il verbale Buscetta; e il 14 aprile io vengo iscritto tra gli indagati. Il 9 giugno la Procura di Roma chiedeva al Senato l’autorizzazione a procedere per l’omicidio Pecorelli.
Agli inizi dell’anno 1993 il senatore Gerardo Chiaromonte mi aveva messo sull’avviso che qualcosa si stava muovendo quaggiù in Sicilia, suggerendomi di chiedere un giurì d’onore nei confronti dell’onorevole Leoluca Orlando che, definendomi garante della mafia, aveva dichiarato che io avrei fatto la fine di Lima o sarei finito in galera. La richiesta del giurì non poté essere accolta dal presidente della Camera onorevole Napolitano perché l’onorevole Orlando ed io appartenevamo a due rami diversi del Parlamento. Nel prendere atto scrissi al presidente Napolitano: "Fino a ora dinanzi alle assurdità dell’onorevole Orlando (ultima quella di attribuirmi la comproprietà di una banca in Romania) non ho ritenuto di adire la magistratura. Ma se le smentite pubbliche non bastassero, dovrò pensarci. Non ti nascondo che faccio fatica a ritrovarmi con un certo tipo di lotta politica, abituato come sono a polemiche anche dure ma non scorrette, petulanti e sleali".
Molto preso dal mio lavoro politico-parlamentare, anche con impegni all’estero, non avevo più pensato a questa situazione siciliana. La richiesta di autorizzazione a procedere mi colpì come un fulmine.
Secondo la Procura io avrei così, sia pure per gli ultimi quattordici anni della mia ben più lunga vita politica, contribuito attivamente e consapevolmente alla realizzazione dell’attività e degli scopi dell’associazione mafiosa. Il "complessivo sistema di relazioni" che doveva essere indagato si fondava "su una logica di scambio e di alleanze, comportanti reciproci vantaggi per Cosa nostra e il referente romano dell’onorevole Salvo Lima e della sua corrente politica. Per tale ragione, questo sistema comprende in sé quell’amplissimo ventaglio di interessi, che, con linguaggio espressivo e sintetico, i collaboranti hanno definito le necessità della mafia siciliana (Messina), ovvero tutte le esigenze di Cosa nostra che comportano decisioni da adottare a Roma (Mutolo)".
La Procura concludeva: "Si tratta dunque, intuitivamente, di interessi multiformi — di tipo amministrativo, economico, finanziario e perfino legislativo — il cui segno unificante era quello di richiedere comunque e necessariamente un intervento politico-istituzionale di vertice".
Successivamente tale enfasi accusatoria veniva ridimensionata e nell’udienza del 26 settembre 1995 il procuratore, dottore Lo Forte, ha detto che l’"organizzazione mafiosa Cosa nostra che si addebita all’imputato, è un contributo che non è e non può essere né poteva mai essere in nessun modo ricollegabile all’esercizio delle funzioni di governo".
Orbene, essendo io stato al governo quaranta anni su cinquanta e in Parlamento dal 1946 ininterrottamente, non mi riesce, nonostante tutti gli sforzi possibili, di comprendere dove e come avrei potuto aiutare, come capocorrente, la mafia.
E credo che sarebbe stato un dovere anche logico, una volta asserito uno scambio di favori tra me e la mafia, indicare almeno un favore sia pur minimo che io avrei fatto a questa gente, mentre da parte loro i favori sarebbero stati di appoggi elettorali o (qui si è toccato il ridicolo) del dono di un quadro per il quale sarei impazzito. A procurarmelo sarebbe stato quel Calò, che io ho conosciuto soltanto in occasione del processo di Perugia dove ha avuto un trattamento migliore del mio.
Ho ricordato prima Chiaromonte. Come presidente della Commissione antimafia era rimasto amareggiato perché i suoi compagni di partito avevano impedito alla Commissione stessa di votare un documento di sostegno al decreto legge che allungava i termini di carcerazione preventiva per i processati del maxi processo di cui si stavano faticosamente svolgendo le udienze in Appello. L’opposizione in aula dell’estrema sinistra (salvo l’onorevole Aldo Rizzo che, in dissenso con i suoi, ci appoggiò) non credo fosse ispirata da sostegno ai mafiosi, ma temevano che si creasse il precedente di modifica per decreto di diritti fondamentali dei cittadini. Lo stesso presidente della Repubblica Cossiga — che lo ha ripetuto anche qui a Palermo deponendo in Tribunale — era perplesso, ma a me, a Vassalli e agli altri ministri sembrò necessario impedire lo scandalo di vedere svuotate le gabbie dei processati, dove già pesava l’assenza di molti latitanti.
Non pretendo davvero certificati di benemerenza per questo e per altri momenti di coraggioso intervento governativo. Tra questi ancora più provocatorio per i grossi criminali fu il decreto legge con il quale, riunendoci nella notte, riparammo alla scarcerazione di alcuni pesanti personaggi mafiosi — disposta inopinatamente la sera prima con una sentenza che io definii pubblicamente scandalosa.
Non sto ad annoiarvi con l’elenco di tutti i provvedimenti che sono stati adottati durante l’ultimo mio triennio di presidenza del Consiglio con un rafforzato vigore da quando avemmo in Roma la collaborazione del dottor Giovanni Falcone. Allego qui un elenco. Non potendoli contestare, i procuratori hanno cercato di attribuirli all’impulso personale dei ministri, ma è uno strano concetto riduttivo del ruolo di chi dirige un governo sul quale non occorre che mi indugi. Sostenere poi che io avrei adottato questa linea per compensare e far dimenticare condiscendenze e favori, non solo non è basato su un fatto concessivo o permissivo magari minimo, ma è mostruoso. Io sapevo e so bene il rischio di una posizione attiva di contrasto ai mafiosi. Ma non mi ha mai fatto mutare comportamento né allora né dopo. Circa un mese fa — seduta del Senato, 17 ottobre 2002 — sono intervenuto nella discussione sulla trasformazione in permanente del 41 bis. Ecco lo stenografico della mia dichiarazione: "Ho chiesto la parola non solo per esprimere il voto favorevole del piccolo Gruppo al quale appartengo sul disegno di legge in esame, ma per constatare con soddisfazione l’approccio, diverso rispetto al passato, del Parlamento su questi problemi. Citerò soltanto uno dei momenti più crudi della mia esperienza governativa, quando nel 1989 con decreto legge evitammo che uscisse, per superamento dei termini di detenzione preventiva, la metà degli imputati del maxi processo, essendo l’altra metà già uscita per conto suo perché latitante. È stato uno dei pochissimi casi — o forse l’unico — in cui un decreto legge venne esaminato in Commissione ed uscì battuto, con la relatrice di minoranza che divenne relatrice di maggioranza e si recò in aula per far bocciare il decreto legge. Per fortuna non c’era ancora — per il resto è bene che sia intervenuta — la pronuncia della Corte costituzionale sulla non possibilità di reiterare dopo 60 giorni i decreti legge. Quel decreto legge fu quindi da noi rinnovato ed infine approvato. Io ho sentito spesso molti fare, nei discorsi e nelle marce, dell’antimafia un appassionato motivo della propria vita; però credo che ciò che conti siano i provvedimenti. Il disegno di legge al nostro esame lo reputo giusto e se anche servisse come elemento di dissuasione per non far aderire una sola persona a questa terribile consorteria, credo che ne dovremmo essere soddisfatti".
Fin qui lo stenografico del Senato.
Per il resto anche tutti i provvedimenti contro il crimine organizzato datati prima del 1989-92 furono da me condivisi come partecipe del Consiglio dei ministri; e alcuni adottati come ministro; ad esempio, la procedura speciale per consentire al dottor Falcone di andare ad interrogare Buscetta in Brasile, senza attendere il lungo iter della estradizione. Senza dire del mio personale impegno nella posizione internazionale di avanguardia nel campo della lotta internazionale al narcotraffico, settore in cui la mafia è largamente intricata.
L’ampia documentazione che la difesa ha presentato oggi alla vostra attenzione si apre con un documento eloquente.
Nell’aprile 1992 ricevetti un rapporto del prefetto Angelo Finocchiaro, alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, con i dati sulle attività del Gruppo di lavoro permanente interforze per la ricerca dei latitanti istituito nel 1990 proprio su mia direttiva. Nel rapporto, il prefetto Finocchiaro dava notizie circa la cattura di alcuni latitanti.
In data 1 maggio gli risposi con questa lettera manoscritta: "La lettura del rapporto 8 aprile sul Gruppo ricerca latitanti mi evoca quanto ho ascoltato più volte in Sicilia e da siciliani. Fino a che non si assicurano alla giustizia i numeri uno (Riina, Provenzano e uno o due altri) la mafia resterà vincente. Sono sicuro che voi già fate il possibile, ma è ipotizzabile la concentrazione degli sforzi per riuscirvi? Parisi mi disse che loro e i CC sono in azione. Scusi… l’interferenza…".
Non potevo davvero immaginare che pochi mesi dopo sarei stato accusato io del reato di mafia.
In un momento di contestazione verso tutto o quasi il mondo politico, la mia incriminazione contribuì ad appesantire ulteriormente il clima generale con un amaro intrecciarsi di azioni politiche e azioni giudiziarie.Venivano fornite alla stampa — anche a quella estera — informazioni volte a creare verso di me un clima negativo o almeno di sospetto. Anche i rotocalchi entravano nel giro, raccogliendo e amplificando ad esempio la voce di una mia presenza su una imbarcazione dei signori Salvo. Soltanto molti mesi dopo vennero interrogati capitano e marinai che dichiararono di non avermi mai visto. E che dire dell’intento mafioso che mi avrebbe portato una sera a Mazara del Vallo dove invece io avevo fatto sosta — in viaggio verso il Convegno scientifico di Erice — per rasserenare gli animi dei cittadini sconvolti per l’affondamento qualche giorno prima di un peschereccio nelle acque tunisine? Non parlo poi del presunto incontro con il Riina in casa del signor Salvo e in compagnia dell’onorevole Lima. Dopo che la storiella del bacio ha fatto il giro del mondo ispirando anche spunti di varietà, è troppo comodo dire, come il dottor Caselli nel libro di irrituale commento alla mia sentenza di assoluzione, che è un errore concentrare su questo episodio tutta l’attenzione.
La saggezza del presidente Ingargiola impedì che fossero fatte entrare nel processo alcune vignette di Forattini ispirate alla mia nuova identità di mafioso (forse questi accaniti accusatori criticheranno Forattini per l’ultima vignetta di questi giorni dopo la condanna di Perugia nella rubrica delle Mascalzonate).
Nel quadro della campagna del 1993 i collaboranti venivano esaltati come penitenti che volevano soltanto redimersi e che si mettevano al servizio esclusivo della giustizia. Che per alcuni, forse anche per molti, sia così, non vi è dubbio (ed io stesso ho appoggiato la legislazione ad hoc), a cominciare da Buscetta, al quale del resto per tutta la vicenda Pecorelli si è stranamente attribuita una tantum in un verbale la dizione "su richiesta" mentre in seguito avrà sempre negato che fossero state così le confidenze del Badalamenti. Nel libro di memorie di Saverio Lodato lo ripete ancora una volta esplicitamente.
Tra i pentiti che riguardano il mio caso emerge il Baldassarre Di Maggio. Io non mi opposi ovviamente ad un confronto anche se mortificante in sede istruttoria, potendone così valutare direttamente il tipo umano. Ma ancor più viva fu l’allucinante udienza del 28 gennaio 1998 alla quale ero presente. Alla domanda del professor Coppi su cosa volesse dire quando affermava che se avessero arrestato il figlio si sarebbe portato dietro i procuratori, si voltò lentamente, come in una sequenza cinematografica, verso il banco della Procura e scandì i nomi: Lo Forte, Scarpinato e Natoli. La Procura restò silente ed io sentii un brivido di sconcerto per lo spettacolo cui stavo assistendo.
Si badi. Io ho condiviso e condivido la legislazione sui pentiti, ma a nessuno è lecito considerarli oracoli verso le dichiarazioni dei quali non vi sia necessità di prove.
Non so se sia abituale ascoltare in un processo tanti testimoni come è avvenuto nel caso mio qui a Palermo. Una revisione della lunga sequenza offre lo spunto ad alcuni interrogativi non effimeri. Mi limito a due casi limite.
Perché la Procura convoca un bizzarro falso agente della Nato che in aula si sveste — richiamato dal presidente — per mostrare un vistoso tatuaggio a soggetto americano? E perché mai una distinta signora viene a criticare me, attribuendomi filìe massoniche, per la nomina dell’ammiraglio Pecori Giraldi a capo di Stato maggiore della Marina, nomina che era stata fatta due anni prima del mio arrivo al Ministero della Difesa? Ma c’è di più. Al nonno della signora, ammiraglio Bigliardi, non solo non feci torti, ma quando andò nella riserva lo nominammo presidente dell’industria pubblica Oto Melara per mantenerlo — era bravissimo — al servizio dello Stato.
Senza mancare di riguardo ad alcuno, posso dire che diversa fu la qualità dei testimoni indicati dalla difesa: dal presidente Cossiga al professore Vassalli e ad una serie di ministri che avevano lavorato per anni con me anche nella lotta alla mafia; dal procuratore generale della Corte di cassazione agli ambasciatori americani Max Rabb, Vernon Walters e Peter Secchia.
Attenzione. Tutte le volte che nello svolgersi del processo mi si è addebitato un fatto concreto io ho potuto documentarne l’inesistenza.
Un apposito gruppo di lavoro era stato messo in piedi dalla Procura per scovare buchi neri o comunque buchi nella cronaca della mia vita. Quasi trionfalmente si contestarono così dal 1985 al 1992 centootto date nelle quali non si sapeva dove fossi stato.
Il 17 novembre 1998 fummo in grado di presentare al Tribunale documentata risposta a tutti questi presunti giorni "nascosti". All’ultimo momento aggiunsero tre date, ma nel corso della stessa udienza previa una telefonata a Roma si smontò il perfido castello dei dubbi. Si era chiesto perché mai fossi a Palermo il 15 novembre 1975: ebbene ero qui come ministro per un convegno di presidenti delle Regioni meridionali indetto dalla Regione siciliana. Per un’altra data del 1975 (12 febbraio) si asseriva una mia presenza misteriosa a Villa Igiea, laddove ero all’Aia per una riunione di parlamentari europei. Il terzo dubbio a sorpresa riguardava il 13 novembre 1973: risultavo a Palermo, ma si ignorava dove avessi pernottato. Gli è che ero arrivato nel primo pomeriggio per una conferenza all’Istituto di Scienze sociali, ripartendo la sera stessa per Roma.
Tra le date non documentate nell’elenco della Commissione alcune rasentavano il ridicolo, data la facilità di colmarle: settembre 1976, in Friuli per visita ai paesi terremotati e a Bari per inaugurare la Fiera; dicembre 1976, in Toscana per la visita del presidente Giscard d’Estaing; dicembre 1976, visita ufficiale negli Stati Uniti; gennaio 1977, visita ufficiale in Germania; maggio 1977, a Londra per il Consiglio Nato e a Bucarest, ospite di quel governo; luglio 1977, viaggio ufficiale a Washington; aprile 1978, Consiglio Nato a Copenaghen; marzo 1979, a Parigi per il Consiglio europeo; maggio 1979, inaugurazione del traforo del Fréjus e inoltre accoglienza al Papa a Montecassino e viaggio a Atene per l’ingresso della Spagna nella Comunità europea; settembre 1979, a Palermo con il presidente Cossiga per il Congresso dell’Istituto di studi ciceroniani (di cui sono tuttora presidente); agosto 1980, al Meeting di Rimini; settembre 1980, a Berlino per l’Unione interparlamentare; ottobre 1981, a Budapest e a Praga con la Commissione esteri della Camera; novembre 1981, in Brasile per l’Unione interparlamentare; agosto 1982, al Meeting di Rimini (visita del Papa e dibattito con Sergio Zavoli); novembre 1983, visita ufficiale in Siria, riunione interministeriale ad Atene; aprile 1984, visita ufficiale in Ungheria; luglio 1985, Premio Bancarella a Pontremoli; gennaio 1986, con Craxi a Taormina per incontro italo-spagnolo; febbraio 1987, a Mosca con Gorbaciov; settembre 1987 (dopo la famosa festa dell’Amicizia a Palermo), a New York per l’Onu e poi a Bonn; novembre 1988, ottobre 1989 e gennaio 1990, visita a Tunisi e Algeri ai due presidenti della Repubblica; dicembre 1991, a L’Aia per la riunione dei capi di governo europei democristiani; agosto 1992, a Barcellona per le Olimpiadi.
L’ultima data "dubbia" della Commissione Pulizzotto è il 13 novembre 1992: ero ad Atene per il congresso del Partito popolare europeo.
Mi scuso per questa petulante lista, ma vuole dimostrare come, attraverso le mie carte, i documenti ministeriali e parlamentari e la stampa, io sia stato sempre in grado di dimostrare come si fosse svolta la mia vita.
Quando, ad esempio, Francesco Marino Mannoia, Angelo Siino e Vito Di Maggio mi hanno accusato di due presunti incontri con boss di Cosa nostra a Catania nel giugno-luglio 1979 ho sgretolato senza difficoltà le accuse rivoltemi.
Come ho potuto smentire quelle accuse?
Dimostrando con documenti ufficiali che nel lasso di tempo in cui avrei dovuto incontrare Stefano Bontate in una tenuta di caccia e Benedetto Santapaola in una hall di un albergo, mi trovavo a Strasburgo, a Tokyo e a Mosca.
Nell’atto di appello l’accusa ha sostenuto che Siino si è confuso e che Vito Di Maggio (teste prediletto dall’accusa in quanto privo di interesse a mentire non essendo un collaboratore di giustizia) aveva indicato un periodo di tempo più ampio.
Certo è strano che anziché insistere sulle vecchie accuse o abbandonarle in sede di appello si scelga la strada di cambiare in corsa le accuse stesse, etichettando le dichiarazioni dei collaboranti come generiche, confuse o imprecise.
In questo strano scambio di ruoli oggi cosa dovrei fare io? Dimostrare che Siino non si è confuso e che Vito Di Maggio è stato molto preciso nel collocare nel tempo il mio incontro?
La verità è che hanno mentito ma hanno mentito in modo imprudente: hanno mentito indicando elementi che io ho potuto contrastare.
Siino ha richiamato in modo specifico la data in cui sarebbe avvenuto l’incontro nella tenuta di caccia precisando che sarebbe avvenuto prima della gara automobilistica denominata "12 ore di Campobello".
Addirittura nell’udienza del 17 dicembre 1997 il Tribunale ha acquisito l’Albo d’oro dal quale risulta che nel 1979 la gara è stata disputata nei giorni 15 e 16 luglio.
Il barman Di Maggio ancora più incautamente nell’udienza del 29 gennaio 1997 ha così risposto ai miei difensori che chiedevano di precisare la data in cui mi sarei incontrato con Benedetto Santapaola: "Dal 10 al 26, signora perché io il 15 faccio l’onomastico ed era dopo la mia festa". L’avvocato Bongiorno insistette: "Dal 20 al 26?". Di Maggio: "Dal 20 al 26 o 30". Avvocato Bongiorno: "Dunque gli ultimi 10 giorni di giugno?". Di Maggio: "Sì, signore". Tutti i giorni in cui io ero in missione all’estero.
Vi prego di considerare che queste dichiarazioni non lasciano spazio alla scappatoia della confusione con cui si cerca di perdonare Siino e Di Maggio.
Quando parlo di falsità mi viene sempre in mente la fantasiosa invenzione di tal Federico Corniglia che di me sapeva soltanto che andavo a Roma da un barbiere di nome Torquato.
Corniglia ha inventato che avrei avuto un fugace incontro di una trentina di secondi davanti il negozio del mio barbiere "Torquato" con Frank Coppola nel 1970-71.
Nella sentenza di primo grado su Corniglia è stato scritto che la sua accusa nei miei confronti è una "maldestra" invenzione.
Ovviamente questo dato mi rende sereno ma quel che mi preoccupa è che anche in questo caso abbiamo dimostrato la falsità di Corniglia soltanto perché il collaboratore, probabilmente al fine di rendere più attendibile il suo racconto, ha voluto aggiungere alla sua narrazione una serie di particolari che poi si sono rivelati clamorosamente falsi. Ad esempio, ha voluto sostenere che egli nel 1971 aveva conosciuto personalmente Torquato e gli aveva parlato: senonché Torquato è deceduto il 28 giugno 1964.
Ma se Corniglia non fosse stato così imprudente da arricchire la sua narrazione con particolari palesemente falsi, come avrei potuto dimostrare di non averlo incrociato per pochi secondi in un periodo di tempo imprecisato del 1970-71?
È questo il nodo del problema.
Mi scuso, signor presidente e signori giudici, per queste esemplificazioni quasi petulanti. Ma sono stati per me questi ed altri episodi che mi hanno turbato intimamente e fatto chiedere come possa costruirsi sul vuoto una terribile accusa.
Per quel che concerne il Buscetta, l’accusa ha sostenuto che la mia insistente richiesta di comprendere quale sarebbe stato l’oggetto del patto di scambio tra me e Cosa nostra troverebbe una risposta nell’accusa specifica rivoltami appunto da Buscetta a proposito del condizionamento del processo Rimi.
Io avrei ricevuto aiuto elettorale da Cosa nostra in cambio dell’aggiustamento dei processi; alcuni attraverso il presidente Carnevale, altri da solo.
Il 6 aprile 1993 Buscetta ha dichiarato che io mi sarei incontrato a Roma nel mio studio con uno dei Rimi, uno dei Salvo e Gaetano Badalamenti in vista dell’imminente processo in Cassazione a carico dei Rimi che si celebrò nel dicembre del 1971.
Secondo l’accusa io avrei "aggiustato" questo processo. In occasione di questo incontro io avrei inoltre detto a Badalamenti: "Di uomini come lei ce ne vorrebbero uno per ogni strada di ogni città di Italia".
Questa era una accusa di fondamentale rilievo per la Procura della Repubblica perché dimostrativa, finalmente, di un mio favore a Cosa nostra.
Mi è sembrato piuttosto strano che in questo caso nessuna indagine sia stata fatta sui giudici che avrebbero acconsentito alla realizzazione del condizionamento.
Comunque, dopo l’accusa formulata il 6 aprile 1993 i miei avvocati hanno atteso con ansia che questa accusa venisse ripetuta in dibattimento. Attendevano con ansia in quanto avevano scoperto che proprio nel 1971, anno del processo e della mia presunta riunione con i Rimi e Badalamenti, sia i Rimi che Badalamenti erano detenuti.
Ebbene, in udienza abbiamo assistito ad un cambiamento di versione da parte di Buscetta. Anziché ribadire che la riunione si riferiva al processo in Cassazione (1971) ha sostenuto che solo a causa di una sua erronea deduzione aveva parlato di Cassazione mentre ripensandoci arrivava alla diversa conclusione che la riunione risaliva ad epoca successiva.
Sennonché non è affatto vero che Buscetta ha cambiato versione a seguito di un autonomo ripensamento.
Nel processo per l’omicidio di Salvo Lima, di cui è stata acquisita la trascrizione del 24 aprile 1995, Buscetta ha infatti rivelato che egli aveva sempre fatto riferimento ad una riunione relativa all’aggiustamento del processo in Cassazione aggiungendo infine che era stato costretto a correggere questa sua indicazione.
Ci siamo chiesti più volte cosa intendeva dire Buscetta.
Buscetta ha sostenuto di aver corretto la sua versione avendo appreso di essere stato smentito da Badalamenti.
Già questo fatto lascia perplessi: perché è stato informato Buscetta della smentita di Badalamenti?
Ma soprattutto non si è trovato il verbale in cui a Buscetta vengono lette le dichiarazioni di Badalamenti. Esiste?
C’è invece un altro verbale che risale al 19 gennaio 1995 e cioè ad epoca immediatamente precedente alla mia udienza preliminare.
Da tale verbale risulta che mentre Buscetta ancora ribadiva la solita versione dell’aggiustamento in Cassazione, la Procura della Repubblica riteneva di fornire al collaboratore le seguenti notizie: "L’ufficio fa notare che la Cassazione si pronunciò sul processo riguardante i due Rimi in data 3 dicembre 1971 annullando con rinvio ad altra Corte di assise di appello la condanna all’ergastolo inflitta ai due Rimi: fa rilevare poi che solo con sentenza della Corte di assise di appello di Roma del 13 febbraio 1979 i predetti Rimi furono assolti".
Io mi chiedo se in un sistema in cui si deve accertare quale sia il bagaglio di conoscenza di un collaboratore sia ammissibile fornire a chi ha fornito una versione palesemente falsa di alcuni fatti notizie che gli consentano di correggere gli errori.
Badate, sono agli atti successivi verbali di Buscetta.
Dopo il gennaio 1995 non commetterà più errori sulle date perché utilizzerà le informazioni ricevute dalla Procura. Anzi ripeterà quelle informazioni come se fossero proprie.
Vi segnalo un fatto che elimina ogni dubbio in ordine al fatto che Buscetta abbia ripetuto pedissequamente le notizie acquisite dalla Procura: uno dei due soggetti di cui stiamo discutendo, e cioè Vincenzo Rimi, è morto nel 1975. Quindi la sentenza riguardava solo il figlio Filippo.
Tuttavia Buscetta continuerà a parlare di assoluzione che riguarda entrambi i Rimi. Sapete perché? Perché nel gennaio 1995, quando gli erano state fornite notizie dettagliate sul processo Rimi, la Procura incorrendo in una svista aveva detto che la Corte d’appello aveva assolto i predetti Rimi.
Come vedete, studiando le carte si possono rintracciare le falsità: ma ciò è possibile solo se le accuse siano agganciate in qualche modo ai fatti.
Quando le accuse si basano su deduzioni cioè ragionamenti e non su fatti, come è possibile dimostrare il contrario? Buscetta ha dichiarato di dedurre, badate di dedurre, che esisteva un mio interesse alla eliminazione di Pecorelli. Anche la sentenza di primo grado di Palermo ha sottolineato che Buscetta si è limitato a proporre una sua deduzione.
Questo interesse Buscetta lo ricollega alle carte di Moro. Secondo l’accusa, Pecorelli sarebbe entrato in possesso del memoriale manoscritto di Moro estremamente compromettente per la mia carriera politica. Da qui il mio interesse a eliminare Pecorelli.
Ebbene, dalla comparazione del testo riassuntivo fatto dai brigatisti e le copie del manoscritto di Moro potete ben comprendere che in realtà io sarei stato interessato alla immediata pubblicazione delle carte inedite di Moro rinvenute nel 1990: infatti solo attraverso la lettura degli originali manoscritti di Moro si evince che le Br hanno alterato in senso antidemocristiano il pensiero di Moro. Questo potevamo dimostrarlo e l’abbiamo fatto.
Mi chiedo come si possa pretendere che io dimostri che Buscetta non abbia mai fatto deduzioni o congetture sull’omicidio Pecorelli. Perché su queste deduzioni e solo su queste sono stato condannato a Perugia.
Profonda amarezza mi hanno arrecato anche altri risvolti processuali. Mi riferisco ai dubbi avanzati sul generale Dalla Chiesa attraverso l’ascolto di un incredibile testimone come il maresciallo Incandela. Fare apparire come complice di malefatte governative l’uomo che aveva servito sempre e soltanto lo Stato, accettando anche nel 1977 il mio invito a comandare la formazione di una unità speciale antiterroristica che lo esponeva ancora di più in prima linea, è più che assurdo. Ma tutta l’impostazione sulle carte Moro è contrassegnata da una malafede grossolana.
Il confronto tra il riassunto dattiloscritto fatto circolare dagli assassini di Moro e il testo manoscritto rinvenuto in seguito attesta in modo inconfutabile che si erano volutamente messe in circolo frasi e concetti che nell’originale non ci sono.
Si badi. Non è escluso che Moro avesse pensato di indurre i suoi carcerieri a desistere dall’assassinio attraverso l’annunciato impegno di rompere i ponti con la Democrazia cristiana. Era un tentativo disperato di sottrarsi al sacrificio. Così vanno letti anche giudizi negativi su alcuni di noi (compreso il suo amico carissimo Zaccagnini).
In quanto a me, Aldo Moro mi aveva aperto la strada ad uno sviluppo straordinario di vita quando mi chiamò a dirigere il giornale della Federazione universitaria cattolica. E quando nel 1976 si era realizzato — in circostanze di estrema difficoltà — l’accordo per il governo cosiddetto di solidarietà nazionale, fu lui a volere che io lo presiedessi e, due anni dopo, che rimanessi al mio posto mentre io sostenevo che dovesse tornare lui a Palazzo Chigi. Queste sono cronache inconfutabili della nostra vita nazionale ed è doloroso vederle manipolate per strumentalizzazioni tutt’altro che chiare.
Signor presidente, signori giudici, quando nel maggio 1993 il Senato dette alla Procura l’autorizzazione a procedere, il presidente Giovanni Pellegrino espresse nella sua relazione scritta il pieno apprezzamento della Giunta per la lettera con cui io mi ero associato alla richiesta onde favorire — avevo scritto — il massimo approfondimento in tempi rapidi. I tempi non sono stati rapidi.
Da allora io sto vivendo gli effetti di due incredibili implicazioni giudiziarie delle quali prego Iddio di farmi restare in vita fino alla giusta conclusione.
Per tante cose dovrò lassù fare affidamento sulla misericordia. Quaggiù io chiedo soltanto giustizia e mi rifiuto di credere che i nostri ordinamenti non rendano sicura questa oggettività.
Palermo, 28 novembre 2002
Sen. Giulio Andreotti
ci vuole un 10 minuti a leggere,ma ne vale la pena...
io penso che non si possa parlare sull'argomento senza conoscere queste cose.
purtroppo bisogna seguire il discorso e i pezzi piu' interessanti sono oltre la meta.
"Continuo ad aver fiducia nella giustizia"
di Giulio Andreotti
In un momento personale di doloroso stupore per quanto abbattutosi su di me il 17 novembre, ho ritenuto mio dovere chiedere a lei, signor presidente, e alla Corte di poter esprimere qualche considerazione, a corredo della documentata memoria presentata dai miei difensori.
La mia vita, che ben al di là dei miei meriti era stata contrassegnata da una serie di eccezionali momenti positivi anche internazionali, mutò improvvisamente quando nel marzo 1993 arrivò in Senato (il presidente Spadolini me lo comunicò emozionatissimo) la richiesta della Procura di Palermo di autorizzazione a procedere nei miei confronti. Con una procedura insolita, a questa richiesta, datata 27 marzo, si aggiunse, man mano che altri collaboranti facevano dichiarazioni, una prima integrazione il 14 ed una seconda il 20 aprile.
Poche settimane dopo, questa volta dalla Procura di Roma, arrivava un’altra richiesta per indagare se e come io fossi coinvolto nell’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli, avvenuto nel marzo 1979.
La nuova richiesta, come ho detto, proveniva dalla Procura di Roma ma agli atti del mio processo palermitano risulta, datata 5 aprile 1993, una lettera del presidente della Commissione antimafia indirizzata al dottor Scarpinato nella quale si comunicava che da una telefonata anonima ricevuta sarebbe risultato che "un tale Patrizio, braccio destro del Pecorelli, possederebbe la copertina del numero di O.P. che non fu mai stampata a causa dell’omicidio. Nella copertina stessa sarebbero indicati sei nomi leggendo i quali si comprenderebbe chi possiede oggi i documenti di Pecorelli".
Singolare consecutio temporum: il 5 aprile la comunicazione sulla telefonata anonima, il 6 aprile Tommaso Buscetta fa le sue dichiarazioni (con quel "su richiesta" che in seguito smentirà regolarmente), l’8 aprile Palermo trasmette a Roma il verbale Buscetta; e il 14 aprile io vengo iscritto tra gli indagati. Il 9 giugno la Procura di Roma chiedeva al Senato l’autorizzazione a procedere per l’omicidio Pecorelli.
Agli inizi dell’anno 1993 il senatore Gerardo Chiaromonte mi aveva messo sull’avviso che qualcosa si stava muovendo quaggiù in Sicilia, suggerendomi di chiedere un giurì d’onore nei confronti dell’onorevole Leoluca Orlando che, definendomi garante della mafia, aveva dichiarato che io avrei fatto la fine di Lima o sarei finito in galera. La richiesta del giurì non poté essere accolta dal presidente della Camera onorevole Napolitano perché l’onorevole Orlando ed io appartenevamo a due rami diversi del Parlamento. Nel prendere atto scrissi al presidente Napolitano: "Fino a ora dinanzi alle assurdità dell’onorevole Orlando (ultima quella di attribuirmi la comproprietà di una banca in Romania) non ho ritenuto di adire la magistratura. Ma se le smentite pubbliche non bastassero, dovrò pensarci. Non ti nascondo che faccio fatica a ritrovarmi con un certo tipo di lotta politica, abituato come sono a polemiche anche dure ma non scorrette, petulanti e sleali".
Molto preso dal mio lavoro politico-parlamentare, anche con impegni all’estero, non avevo più pensato a questa situazione siciliana. La richiesta di autorizzazione a procedere mi colpì come un fulmine.
Secondo la Procura io avrei così, sia pure per gli ultimi quattordici anni della mia ben più lunga vita politica, contribuito attivamente e consapevolmente alla realizzazione dell’attività e degli scopi dell’associazione mafiosa. Il "complessivo sistema di relazioni" che doveva essere indagato si fondava "su una logica di scambio e di alleanze, comportanti reciproci vantaggi per Cosa nostra e il referente romano dell’onorevole Salvo Lima e della sua corrente politica. Per tale ragione, questo sistema comprende in sé quell’amplissimo ventaglio di interessi, che, con linguaggio espressivo e sintetico, i collaboranti hanno definito le necessità della mafia siciliana (Messina), ovvero tutte le esigenze di Cosa nostra che comportano decisioni da adottare a Roma (Mutolo)".
La Procura concludeva: "Si tratta dunque, intuitivamente, di interessi multiformi — di tipo amministrativo, economico, finanziario e perfino legislativo — il cui segno unificante era quello di richiedere comunque e necessariamente un intervento politico-istituzionale di vertice".
Successivamente tale enfasi accusatoria veniva ridimensionata e nell’udienza del 26 settembre 1995 il procuratore, dottore Lo Forte, ha detto che l’"organizzazione mafiosa Cosa nostra che si addebita all’imputato, è un contributo che non è e non può essere né poteva mai essere in nessun modo ricollegabile all’esercizio delle funzioni di governo".
Orbene, essendo io stato al governo quaranta anni su cinquanta e in Parlamento dal 1946 ininterrottamente, non mi riesce, nonostante tutti gli sforzi possibili, di comprendere dove e come avrei potuto aiutare, come capocorrente, la mafia.
E credo che sarebbe stato un dovere anche logico, una volta asserito uno scambio di favori tra me e la mafia, indicare almeno un favore sia pur minimo che io avrei fatto a questa gente, mentre da parte loro i favori sarebbero stati di appoggi elettorali o (qui si è toccato il ridicolo) del dono di un quadro per il quale sarei impazzito. A procurarmelo sarebbe stato quel Calò, che io ho conosciuto soltanto in occasione del processo di Perugia dove ha avuto un trattamento migliore del mio.
Ho ricordato prima Chiaromonte. Come presidente della Commissione antimafia era rimasto amareggiato perché i suoi compagni di partito avevano impedito alla Commissione stessa di votare un documento di sostegno al decreto legge che allungava i termini di carcerazione preventiva per i processati del maxi processo di cui si stavano faticosamente svolgendo le udienze in Appello. L’opposizione in aula dell’estrema sinistra (salvo l’onorevole Aldo Rizzo che, in dissenso con i suoi, ci appoggiò) non credo fosse ispirata da sostegno ai mafiosi, ma temevano che si creasse il precedente di modifica per decreto di diritti fondamentali dei cittadini. Lo stesso presidente della Repubblica Cossiga — che lo ha ripetuto anche qui a Palermo deponendo in Tribunale — era perplesso, ma a me, a Vassalli e agli altri ministri sembrò necessario impedire lo scandalo di vedere svuotate le gabbie dei processati, dove già pesava l’assenza di molti latitanti.
Non pretendo davvero certificati di benemerenza per questo e per altri momenti di coraggioso intervento governativo. Tra questi ancora più provocatorio per i grossi criminali fu il decreto legge con il quale, riunendoci nella notte, riparammo alla scarcerazione di alcuni pesanti personaggi mafiosi — disposta inopinatamente la sera prima con una sentenza che io definii pubblicamente scandalosa.
Non sto ad annoiarvi con l’elenco di tutti i provvedimenti che sono stati adottati durante l’ultimo mio triennio di presidenza del Consiglio con un rafforzato vigore da quando avemmo in Roma la collaborazione del dottor Giovanni Falcone. Allego qui un elenco. Non potendoli contestare, i procuratori hanno cercato di attribuirli all’impulso personale dei ministri, ma è uno strano concetto riduttivo del ruolo di chi dirige un governo sul quale non occorre che mi indugi. Sostenere poi che io avrei adottato questa linea per compensare e far dimenticare condiscendenze e favori, non solo non è basato su un fatto concessivo o permissivo magari minimo, ma è mostruoso. Io sapevo e so bene il rischio di una posizione attiva di contrasto ai mafiosi. Ma non mi ha mai fatto mutare comportamento né allora né dopo. Circa un mese fa — seduta del Senato, 17 ottobre 2002 — sono intervenuto nella discussione sulla trasformazione in permanente del 41 bis. Ecco lo stenografico della mia dichiarazione: "Ho chiesto la parola non solo per esprimere il voto favorevole del piccolo Gruppo al quale appartengo sul disegno di legge in esame, ma per constatare con soddisfazione l’approccio, diverso rispetto al passato, del Parlamento su questi problemi. Citerò soltanto uno dei momenti più crudi della mia esperienza governativa, quando nel 1989 con decreto legge evitammo che uscisse, per superamento dei termini di detenzione preventiva, la metà degli imputati del maxi processo, essendo l’altra metà già uscita per conto suo perché latitante. È stato uno dei pochissimi casi — o forse l’unico — in cui un decreto legge venne esaminato in Commissione ed uscì battuto, con la relatrice di minoranza che divenne relatrice di maggioranza e si recò in aula per far bocciare il decreto legge. Per fortuna non c’era ancora — per il resto è bene che sia intervenuta — la pronuncia della Corte costituzionale sulla non possibilità di reiterare dopo 60 giorni i decreti legge. Quel decreto legge fu quindi da noi rinnovato ed infine approvato. Io ho sentito spesso molti fare, nei discorsi e nelle marce, dell’antimafia un appassionato motivo della propria vita; però credo che ciò che conti siano i provvedimenti. Il disegno di legge al nostro esame lo reputo giusto e se anche servisse come elemento di dissuasione per non far aderire una sola persona a questa terribile consorteria, credo che ne dovremmo essere soddisfatti".
Fin qui lo stenografico del Senato.
Per il resto anche tutti i provvedimenti contro il crimine organizzato datati prima del 1989-92 furono da me condivisi come partecipe del Consiglio dei ministri; e alcuni adottati come ministro; ad esempio, la procedura speciale per consentire al dottor Falcone di andare ad interrogare Buscetta in Brasile, senza attendere il lungo iter della estradizione. Senza dire del mio personale impegno nella posizione internazionale di avanguardia nel campo della lotta internazionale al narcotraffico, settore in cui la mafia è largamente intricata.
L’ampia documentazione che la difesa ha presentato oggi alla vostra attenzione si apre con un documento eloquente.
Nell’aprile 1992 ricevetti un rapporto del prefetto Angelo Finocchiaro, alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa, con i dati sulle attività del Gruppo di lavoro permanente interforze per la ricerca dei latitanti istituito nel 1990 proprio su mia direttiva. Nel rapporto, il prefetto Finocchiaro dava notizie circa la cattura di alcuni latitanti.
In data 1 maggio gli risposi con questa lettera manoscritta: "La lettura del rapporto 8 aprile sul Gruppo ricerca latitanti mi evoca quanto ho ascoltato più volte in Sicilia e da siciliani. Fino a che non si assicurano alla giustizia i numeri uno (Riina, Provenzano e uno o due altri) la mafia resterà vincente. Sono sicuro che voi già fate il possibile, ma è ipotizzabile la concentrazione degli sforzi per riuscirvi? Parisi mi disse che loro e i CC sono in azione. Scusi… l’interferenza…".
Non potevo davvero immaginare che pochi mesi dopo sarei stato accusato io del reato di mafia.
In un momento di contestazione verso tutto o quasi il mondo politico, la mia incriminazione contribuì ad appesantire ulteriormente il clima generale con un amaro intrecciarsi di azioni politiche e azioni giudiziarie.Venivano fornite alla stampa — anche a quella estera — informazioni volte a creare verso di me un clima negativo o almeno di sospetto. Anche i rotocalchi entravano nel giro, raccogliendo e amplificando ad esempio la voce di una mia presenza su una imbarcazione dei signori Salvo. Soltanto molti mesi dopo vennero interrogati capitano e marinai che dichiararono di non avermi mai visto. E che dire dell’intento mafioso che mi avrebbe portato una sera a Mazara del Vallo dove invece io avevo fatto sosta — in viaggio verso il Convegno scientifico di Erice — per rasserenare gli animi dei cittadini sconvolti per l’affondamento qualche giorno prima di un peschereccio nelle acque tunisine? Non parlo poi del presunto incontro con il Riina in casa del signor Salvo e in compagnia dell’onorevole Lima. Dopo che la storiella del bacio ha fatto il giro del mondo ispirando anche spunti di varietà, è troppo comodo dire, come il dottor Caselli nel libro di irrituale commento alla mia sentenza di assoluzione, che è un errore concentrare su questo episodio tutta l’attenzione.
La saggezza del presidente Ingargiola impedì che fossero fatte entrare nel processo alcune vignette di Forattini ispirate alla mia nuova identità di mafioso (forse questi accaniti accusatori criticheranno Forattini per l’ultima vignetta di questi giorni dopo la condanna di Perugia nella rubrica delle Mascalzonate).
Nel quadro della campagna del 1993 i collaboranti venivano esaltati come penitenti che volevano soltanto redimersi e che si mettevano al servizio esclusivo della giustizia. Che per alcuni, forse anche per molti, sia così, non vi è dubbio (ed io stesso ho appoggiato la legislazione ad hoc), a cominciare da Buscetta, al quale del resto per tutta la vicenda Pecorelli si è stranamente attribuita una tantum in un verbale la dizione "su richiesta" mentre in seguito avrà sempre negato che fossero state così le confidenze del Badalamenti. Nel libro di memorie di Saverio Lodato lo ripete ancora una volta esplicitamente.
Tra i pentiti che riguardano il mio caso emerge il Baldassarre Di Maggio. Io non mi opposi ovviamente ad un confronto anche se mortificante in sede istruttoria, potendone così valutare direttamente il tipo umano. Ma ancor più viva fu l’allucinante udienza del 28 gennaio 1998 alla quale ero presente. Alla domanda del professor Coppi su cosa volesse dire quando affermava che se avessero arrestato il figlio si sarebbe portato dietro i procuratori, si voltò lentamente, come in una sequenza cinematografica, verso il banco della Procura e scandì i nomi: Lo Forte, Scarpinato e Natoli. La Procura restò silente ed io sentii un brivido di sconcerto per lo spettacolo cui stavo assistendo.
Si badi. Io ho condiviso e condivido la legislazione sui pentiti, ma a nessuno è lecito considerarli oracoli verso le dichiarazioni dei quali non vi sia necessità di prove.
Non so se sia abituale ascoltare in un processo tanti testimoni come è avvenuto nel caso mio qui a Palermo. Una revisione della lunga sequenza offre lo spunto ad alcuni interrogativi non effimeri. Mi limito a due casi limite.
Perché la Procura convoca un bizzarro falso agente della Nato che in aula si sveste — richiamato dal presidente — per mostrare un vistoso tatuaggio a soggetto americano? E perché mai una distinta signora viene a criticare me, attribuendomi filìe massoniche, per la nomina dell’ammiraglio Pecori Giraldi a capo di Stato maggiore della Marina, nomina che era stata fatta due anni prima del mio arrivo al Ministero della Difesa? Ma c’è di più. Al nonno della signora, ammiraglio Bigliardi, non solo non feci torti, ma quando andò nella riserva lo nominammo presidente dell’industria pubblica Oto Melara per mantenerlo — era bravissimo — al servizio dello Stato.
Senza mancare di riguardo ad alcuno, posso dire che diversa fu la qualità dei testimoni indicati dalla difesa: dal presidente Cossiga al professore Vassalli e ad una serie di ministri che avevano lavorato per anni con me anche nella lotta alla mafia; dal procuratore generale della Corte di cassazione agli ambasciatori americani Max Rabb, Vernon Walters e Peter Secchia.
Attenzione. Tutte le volte che nello svolgersi del processo mi si è addebitato un fatto concreto io ho potuto documentarne l’inesistenza.
Un apposito gruppo di lavoro era stato messo in piedi dalla Procura per scovare buchi neri o comunque buchi nella cronaca della mia vita. Quasi trionfalmente si contestarono così dal 1985 al 1992 centootto date nelle quali non si sapeva dove fossi stato.
Il 17 novembre 1998 fummo in grado di presentare al Tribunale documentata risposta a tutti questi presunti giorni "nascosti". All’ultimo momento aggiunsero tre date, ma nel corso della stessa udienza previa una telefonata a Roma si smontò il perfido castello dei dubbi. Si era chiesto perché mai fossi a Palermo il 15 novembre 1975: ebbene ero qui come ministro per un convegno di presidenti delle Regioni meridionali indetto dalla Regione siciliana. Per un’altra data del 1975 (12 febbraio) si asseriva una mia presenza misteriosa a Villa Igiea, laddove ero all’Aia per una riunione di parlamentari europei. Il terzo dubbio a sorpresa riguardava il 13 novembre 1973: risultavo a Palermo, ma si ignorava dove avessi pernottato. Gli è che ero arrivato nel primo pomeriggio per una conferenza all’Istituto di Scienze sociali, ripartendo la sera stessa per Roma.
Tra le date non documentate nell’elenco della Commissione alcune rasentavano il ridicolo, data la facilità di colmarle: settembre 1976, in Friuli per visita ai paesi terremotati e a Bari per inaugurare la Fiera; dicembre 1976, in Toscana per la visita del presidente Giscard d’Estaing; dicembre 1976, visita ufficiale negli Stati Uniti; gennaio 1977, visita ufficiale in Germania; maggio 1977, a Londra per il Consiglio Nato e a Bucarest, ospite di quel governo; luglio 1977, viaggio ufficiale a Washington; aprile 1978, Consiglio Nato a Copenaghen; marzo 1979, a Parigi per il Consiglio europeo; maggio 1979, inaugurazione del traforo del Fréjus e inoltre accoglienza al Papa a Montecassino e viaggio a Atene per l’ingresso della Spagna nella Comunità europea; settembre 1979, a Palermo con il presidente Cossiga per il Congresso dell’Istituto di studi ciceroniani (di cui sono tuttora presidente); agosto 1980, al Meeting di Rimini; settembre 1980, a Berlino per l’Unione interparlamentare; ottobre 1981, a Budapest e a Praga con la Commissione esteri della Camera; novembre 1981, in Brasile per l’Unione interparlamentare; agosto 1982, al Meeting di Rimini (visita del Papa e dibattito con Sergio Zavoli); novembre 1983, visita ufficiale in Siria, riunione interministeriale ad Atene; aprile 1984, visita ufficiale in Ungheria; luglio 1985, Premio Bancarella a Pontremoli; gennaio 1986, con Craxi a Taormina per incontro italo-spagnolo; febbraio 1987, a Mosca con Gorbaciov; settembre 1987 (dopo la famosa festa dell’Amicizia a Palermo), a New York per l’Onu e poi a Bonn; novembre 1988, ottobre 1989 e gennaio 1990, visita a Tunisi e Algeri ai due presidenti della Repubblica; dicembre 1991, a L’Aia per la riunione dei capi di governo europei democristiani; agosto 1992, a Barcellona per le Olimpiadi.
L’ultima data "dubbia" della Commissione Pulizzotto è il 13 novembre 1992: ero ad Atene per il congresso del Partito popolare europeo.
Mi scuso per questa petulante lista, ma vuole dimostrare come, attraverso le mie carte, i documenti ministeriali e parlamentari e la stampa, io sia stato sempre in grado di dimostrare come si fosse svolta la mia vita.
Quando, ad esempio, Francesco Marino Mannoia, Angelo Siino e Vito Di Maggio mi hanno accusato di due presunti incontri con boss di Cosa nostra a Catania nel giugno-luglio 1979 ho sgretolato senza difficoltà le accuse rivoltemi.
Come ho potuto smentire quelle accuse?
Dimostrando con documenti ufficiali che nel lasso di tempo in cui avrei dovuto incontrare Stefano Bontate in una tenuta di caccia e Benedetto Santapaola in una hall di un albergo, mi trovavo a Strasburgo, a Tokyo e a Mosca.
Nell’atto di appello l’accusa ha sostenuto che Siino si è confuso e che Vito Di Maggio (teste prediletto dall’accusa in quanto privo di interesse a mentire non essendo un collaboratore di giustizia) aveva indicato un periodo di tempo più ampio.
Certo è strano che anziché insistere sulle vecchie accuse o abbandonarle in sede di appello si scelga la strada di cambiare in corsa le accuse stesse, etichettando le dichiarazioni dei collaboranti come generiche, confuse o imprecise.
In questo strano scambio di ruoli oggi cosa dovrei fare io? Dimostrare che Siino non si è confuso e che Vito Di Maggio è stato molto preciso nel collocare nel tempo il mio incontro?
La verità è che hanno mentito ma hanno mentito in modo imprudente: hanno mentito indicando elementi che io ho potuto contrastare.
Siino ha richiamato in modo specifico la data in cui sarebbe avvenuto l’incontro nella tenuta di caccia precisando che sarebbe avvenuto prima della gara automobilistica denominata "12 ore di Campobello".
Addirittura nell’udienza del 17 dicembre 1997 il Tribunale ha acquisito l’Albo d’oro dal quale risulta che nel 1979 la gara è stata disputata nei giorni 15 e 16 luglio.
Il barman Di Maggio ancora più incautamente nell’udienza del 29 gennaio 1997 ha così risposto ai miei difensori che chiedevano di precisare la data in cui mi sarei incontrato con Benedetto Santapaola: "Dal 10 al 26, signora perché io il 15 faccio l’onomastico ed era dopo la mia festa". L’avvocato Bongiorno insistette: "Dal 20 al 26?". Di Maggio: "Dal 20 al 26 o 30". Avvocato Bongiorno: "Dunque gli ultimi 10 giorni di giugno?". Di Maggio: "Sì, signore". Tutti i giorni in cui io ero in missione all’estero.
Vi prego di considerare che queste dichiarazioni non lasciano spazio alla scappatoia della confusione con cui si cerca di perdonare Siino e Di Maggio.
Quando parlo di falsità mi viene sempre in mente la fantasiosa invenzione di tal Federico Corniglia che di me sapeva soltanto che andavo a Roma da un barbiere di nome Torquato.
Corniglia ha inventato che avrei avuto un fugace incontro di una trentina di secondi davanti il negozio del mio barbiere "Torquato" con Frank Coppola nel 1970-71.
Nella sentenza di primo grado su Corniglia è stato scritto che la sua accusa nei miei confronti è una "maldestra" invenzione.
Ovviamente questo dato mi rende sereno ma quel che mi preoccupa è che anche in questo caso abbiamo dimostrato la falsità di Corniglia soltanto perché il collaboratore, probabilmente al fine di rendere più attendibile il suo racconto, ha voluto aggiungere alla sua narrazione una serie di particolari che poi si sono rivelati clamorosamente falsi. Ad esempio, ha voluto sostenere che egli nel 1971 aveva conosciuto personalmente Torquato e gli aveva parlato: senonché Torquato è deceduto il 28 giugno 1964.
Ma se Corniglia non fosse stato così imprudente da arricchire la sua narrazione con particolari palesemente falsi, come avrei potuto dimostrare di non averlo incrociato per pochi secondi in un periodo di tempo imprecisato del 1970-71?
È questo il nodo del problema.
Mi scuso, signor presidente e signori giudici, per queste esemplificazioni quasi petulanti. Ma sono stati per me questi ed altri episodi che mi hanno turbato intimamente e fatto chiedere come possa costruirsi sul vuoto una terribile accusa.
Per quel che concerne il Buscetta, l’accusa ha sostenuto che la mia insistente richiesta di comprendere quale sarebbe stato l’oggetto del patto di scambio tra me e Cosa nostra troverebbe una risposta nell’accusa specifica rivoltami appunto da Buscetta a proposito del condizionamento del processo Rimi.
Io avrei ricevuto aiuto elettorale da Cosa nostra in cambio dell’aggiustamento dei processi; alcuni attraverso il presidente Carnevale, altri da solo.
Il 6 aprile 1993 Buscetta ha dichiarato che io mi sarei incontrato a Roma nel mio studio con uno dei Rimi, uno dei Salvo e Gaetano Badalamenti in vista dell’imminente processo in Cassazione a carico dei Rimi che si celebrò nel dicembre del 1971.
Secondo l’accusa io avrei "aggiustato" questo processo. In occasione di questo incontro io avrei inoltre detto a Badalamenti: "Di uomini come lei ce ne vorrebbero uno per ogni strada di ogni città di Italia".
Questa era una accusa di fondamentale rilievo per la Procura della Repubblica perché dimostrativa, finalmente, di un mio favore a Cosa nostra.
Mi è sembrato piuttosto strano che in questo caso nessuna indagine sia stata fatta sui giudici che avrebbero acconsentito alla realizzazione del condizionamento.
Comunque, dopo l’accusa formulata il 6 aprile 1993 i miei avvocati hanno atteso con ansia che questa accusa venisse ripetuta in dibattimento. Attendevano con ansia in quanto avevano scoperto che proprio nel 1971, anno del processo e della mia presunta riunione con i Rimi e Badalamenti, sia i Rimi che Badalamenti erano detenuti.
Ebbene, in udienza abbiamo assistito ad un cambiamento di versione da parte di Buscetta. Anziché ribadire che la riunione si riferiva al processo in Cassazione (1971) ha sostenuto che solo a causa di una sua erronea deduzione aveva parlato di Cassazione mentre ripensandoci arrivava alla diversa conclusione che la riunione risaliva ad epoca successiva.
Sennonché non è affatto vero che Buscetta ha cambiato versione a seguito di un autonomo ripensamento.
Nel processo per l’omicidio di Salvo Lima, di cui è stata acquisita la trascrizione del 24 aprile 1995, Buscetta ha infatti rivelato che egli aveva sempre fatto riferimento ad una riunione relativa all’aggiustamento del processo in Cassazione aggiungendo infine che era stato costretto a correggere questa sua indicazione.
Ci siamo chiesti più volte cosa intendeva dire Buscetta.
Buscetta ha sostenuto di aver corretto la sua versione avendo appreso di essere stato smentito da Badalamenti.
Già questo fatto lascia perplessi: perché è stato informato Buscetta della smentita di Badalamenti?
Ma soprattutto non si è trovato il verbale in cui a Buscetta vengono lette le dichiarazioni di Badalamenti. Esiste?
C’è invece un altro verbale che risale al 19 gennaio 1995 e cioè ad epoca immediatamente precedente alla mia udienza preliminare.
Da tale verbale risulta che mentre Buscetta ancora ribadiva la solita versione dell’aggiustamento in Cassazione, la Procura della Repubblica riteneva di fornire al collaboratore le seguenti notizie: "L’ufficio fa notare che la Cassazione si pronunciò sul processo riguardante i due Rimi in data 3 dicembre 1971 annullando con rinvio ad altra Corte di assise di appello la condanna all’ergastolo inflitta ai due Rimi: fa rilevare poi che solo con sentenza della Corte di assise di appello di Roma del 13 febbraio 1979 i predetti Rimi furono assolti".
Io mi chiedo se in un sistema in cui si deve accertare quale sia il bagaglio di conoscenza di un collaboratore sia ammissibile fornire a chi ha fornito una versione palesemente falsa di alcuni fatti notizie che gli consentano di correggere gli errori.
Badate, sono agli atti successivi verbali di Buscetta.
Dopo il gennaio 1995 non commetterà più errori sulle date perché utilizzerà le informazioni ricevute dalla Procura. Anzi ripeterà quelle informazioni come se fossero proprie.
Vi segnalo un fatto che elimina ogni dubbio in ordine al fatto che Buscetta abbia ripetuto pedissequamente le notizie acquisite dalla Procura: uno dei due soggetti di cui stiamo discutendo, e cioè Vincenzo Rimi, è morto nel 1975. Quindi la sentenza riguardava solo il figlio Filippo.
Tuttavia Buscetta continuerà a parlare di assoluzione che riguarda entrambi i Rimi. Sapete perché? Perché nel gennaio 1995, quando gli erano state fornite notizie dettagliate sul processo Rimi, la Procura incorrendo in una svista aveva detto che la Corte d’appello aveva assolto i predetti Rimi.
Come vedete, studiando le carte si possono rintracciare le falsità: ma ciò è possibile solo se le accuse siano agganciate in qualche modo ai fatti.
Quando le accuse si basano su deduzioni cioè ragionamenti e non su fatti, come è possibile dimostrare il contrario? Buscetta ha dichiarato di dedurre, badate di dedurre, che esisteva un mio interesse alla eliminazione di Pecorelli. Anche la sentenza di primo grado di Palermo ha sottolineato che Buscetta si è limitato a proporre una sua deduzione.
Questo interesse Buscetta lo ricollega alle carte di Moro. Secondo l’accusa, Pecorelli sarebbe entrato in possesso del memoriale manoscritto di Moro estremamente compromettente per la mia carriera politica. Da qui il mio interesse a eliminare Pecorelli.
Ebbene, dalla comparazione del testo riassuntivo fatto dai brigatisti e le copie del manoscritto di Moro potete ben comprendere che in realtà io sarei stato interessato alla immediata pubblicazione delle carte inedite di Moro rinvenute nel 1990: infatti solo attraverso la lettura degli originali manoscritti di Moro si evince che le Br hanno alterato in senso antidemocristiano il pensiero di Moro. Questo potevamo dimostrarlo e l’abbiamo fatto.
Mi chiedo come si possa pretendere che io dimostri che Buscetta non abbia mai fatto deduzioni o congetture sull’omicidio Pecorelli. Perché su queste deduzioni e solo su queste sono stato condannato a Perugia.
Profonda amarezza mi hanno arrecato anche altri risvolti processuali. Mi riferisco ai dubbi avanzati sul generale Dalla Chiesa attraverso l’ascolto di un incredibile testimone come il maresciallo Incandela. Fare apparire come complice di malefatte governative l’uomo che aveva servito sempre e soltanto lo Stato, accettando anche nel 1977 il mio invito a comandare la formazione di una unità speciale antiterroristica che lo esponeva ancora di più in prima linea, è più che assurdo. Ma tutta l’impostazione sulle carte Moro è contrassegnata da una malafede grossolana.
Il confronto tra il riassunto dattiloscritto fatto circolare dagli assassini di Moro e il testo manoscritto rinvenuto in seguito attesta in modo inconfutabile che si erano volutamente messe in circolo frasi e concetti che nell’originale non ci sono.
Si badi. Non è escluso che Moro avesse pensato di indurre i suoi carcerieri a desistere dall’assassinio attraverso l’annunciato impegno di rompere i ponti con la Democrazia cristiana. Era un tentativo disperato di sottrarsi al sacrificio. Così vanno letti anche giudizi negativi su alcuni di noi (compreso il suo amico carissimo Zaccagnini).
In quanto a me, Aldo Moro mi aveva aperto la strada ad uno sviluppo straordinario di vita quando mi chiamò a dirigere il giornale della Federazione universitaria cattolica. E quando nel 1976 si era realizzato — in circostanze di estrema difficoltà — l’accordo per il governo cosiddetto di solidarietà nazionale, fu lui a volere che io lo presiedessi e, due anni dopo, che rimanessi al mio posto mentre io sostenevo che dovesse tornare lui a Palazzo Chigi. Queste sono cronache inconfutabili della nostra vita nazionale ed è doloroso vederle manipolate per strumentalizzazioni tutt’altro che chiare.
Signor presidente, signori giudici, quando nel maggio 1993 il Senato dette alla Procura l’autorizzazione a procedere, il presidente Giovanni Pellegrino espresse nella sua relazione scritta il pieno apprezzamento della Giunta per la lettera con cui io mi ero associato alla richiesta onde favorire — avevo scritto — il massimo approfondimento in tempi rapidi. I tempi non sono stati rapidi.
Da allora io sto vivendo gli effetti di due incredibili implicazioni giudiziarie delle quali prego Iddio di farmi restare in vita fino alla giusta conclusione.
Per tante cose dovrò lassù fare affidamento sulla misericordia. Quaggiù io chiedo soltanto giustizia e mi rifiuto di credere che i nostri ordinamenti non rendano sicura questa oggettività.
Palermo, 28 novembre 2002
Sen. Giulio Andreotti