gd
20-01-2005, 14:23
Ds: troppi conti non tornano
Massimo D'Alema ha negato, con il consueto cipiglio, che la Quercia sia oggi un partito in sofferenza, anzi il più in sofferenza di tutti. Ma ci sarà pure qualche ragione non occasionale, non tattica, ma più profonda se Nichi Vendola vince l'esperimento delle primarie, se Piero Fassino non riesce a trattenersi da uno sfogo nel Transatlantico di Montecitorio, se esplode il rifiuto della socialdemocrazia e, soprattutto. se i duellanti per la leadership del centrosinistra sono Romano Prodi e Fausto Bertinotti con le aggiunte di` Pecoraro Scanio e Di Pietro, cioè se i diessini si vedono sempre costretti a occupare la seconda fila, nel momento delle scelte che contano. Non sarà solo per spirito di servizio verso la coalizione. Troppi conti non tornano.
Ad esempio, ad ascoltare il professor Giovanni Sartori, che ha passato la vita a studiare e ad insegnare il funzionamento dei sistemi politici, nel voto pugliese si è espressa una «democrazia dei militanti», cioè una partecipazione molto esigua, ma motivata a imprimere un segno. Avrebbe dovuto essere questo il terreno naturale della Quercia ed ecco che, invece, a prevalere è stato un professionista di lungo corso della politica, un uomo-simbolo di Rifondazione. Non un sussulto di girotondismo, non una ribellione della «società civile» ai partiti o ai dirigenti «con i quali non vinceremo mai», come disse Nanni Moretti, ma la sconfitta di un'area, quella che si definisce «riformista» e quindi di chi dice di rappresentarla.
E poi, appunto, i riformisti. In questi giorni, si è parlato molto del loro silenzio e del loro stato di minorità. Una scoperta un po' tardiva. Si è giunti a parlare - lo ha fatto Enrico Letta in modo autocritico - perfino della loro mancanza di fascino, della loro incapacità «di scaldare il cuore degli elettori». Come se dietro al riemergere di un profilo marcatamente di sinistra dell'opposizione - «sinistra-centro», ha scritto ieri Francesco Rutelli - ci sia solo un po' di timidezza o un'incapacità di comunicazione e non, invece, alcuni grandi nodi non sciolti.
Primo fra tutti, è quello che il bipolarismo ha ereditato dal vecchio sistema dei partiti: «la questione diessina», che è il prolungamento in altre forme della vecchia e irrisolta «questione comunista». Se ci chiediamo chi abbia impedito nell'ultimo quindicennio la nascita di una sinistra moderna, capace di misurarsi con le sfide delle società complesse e della globalizzazione, solo un cieco potrebbe pensare a Bertinotti, a Cossutta o a Pecoraro Scanio. Essi rappresentano spinte o resistenze che esistono un po' ovunque, l'uno l'antagonismo del 2000, l'altro la nostalgia del Novecento, l'altro ancora la rendita politica dell'ideologia ambientalista, tutti insieme quel 10-15 per cento di elettorato che esprime un rifiuto dell'esistente e dell'idea di poterlo governare. La loro identità è precisa.
Ma se ci si chiede quale sia l'identità dei Ds, non è davvero facile dare una risposta. Hanno compiuto una scelta socialdemocratica? A parole è così, ma quale socialdemocrazia? Rutelli, che ha provato ad indossare per 24 ore i panni di Blair, ne sa qualcosa. La cornice entro la quale è rimasta ferma la Quercia sembra più quella di un'appartenenza nominalistica che al cantiere aperto a Londra o a Berlino, tanto per citare due casi. Basti pensare al fatto che il cancelliere tedesco ha appena imposto una serie di ticket sanitari, mentre uno degli ultimi atti del centrosinistra al governo (Giuliano Amato presidente del Consiglio) fu quello di eliminarli, inseguendo solo una logica populista. E se riformista - parola magica, quanto generica e ormai abusata - dovrebbe essere colui che propone ed attua delle riforme, non è facile dare una risposta alla domanda su quali reali innovazioni abbia scommesso la Quercia tra il 1996 e il 2001. Ci fu solo l'Euro, ma era una strada obbligata.
Per non parlare poi del dilemma, sempre presente, sull'opzione «democratica» di modello americano che contraddistinse il periodo in cui Walter Veltroni era al «botteghino», il famoso «I care». Se non fosse stata pura immagine, sarebbe stata l'occasione di specchiarsi un po' meglio nelle scelte di Bill Clinton, nelle sue politiche fiscali, sanitarie, sociali, nei giudizi che dette su Reagan o nei suoi tentativi - già lui ci provò - di chiudere i conti con il regime di Saddam Hussein. Ma per i post-comunisti era impossibile, allora come oggi, uscire dall'indeterminatezza.
È sembrata e continua a sembrare la continuazione della storia del Pci, che giunse a raccogliere un terzo del voto degli italiani senza poterlo spendere sul mercato della politica, bloccando la formazione di un'altra sinistra e sbilanciando il sistema. La «questione diessina» sta qui, nella contraddizione tra a forza elettorale della Quercia e l'arretratezza della sua cultura. Una cultura in cui è visibile l'impronta che, dopo la fine della stagione dell'unità nazionale, l'ultimo Berlinguer dette al Pci: era l'impronta dell'«alternativa democratica» costituita da tanti frammenti, come «la questione morale», come il trinceramento sociale nel lavoro dipendente, come il terzaforzismo in politica estera, come l'orizzonte e socialdemocrazie europee, tutti frammenti che hanno poi formato il dna politico del Pds e dei Ds. Ma erano venticinque anni fa.
Il macigno che blocca il cammino della sinistra italiana e che rappresenta la vera anomalia del bipolarismo italiano - impedendo un'alternanza tra schieramenti innovativi - sta in un simbolo, la Quercia, senza un'identità corrispondente ai tempi. Il resto - il non poter presentare un candidato alla presidenza del Consiglio, il dover inseguire via via i girotondi, i pacifisti, il sindacalismo radicale, perfino l'essere battuti da Nichi Vendola - è solo una conseguenza, a cui anche Rutelli sembra rassegnato.
Massimo D'Alema ha negato, con il consueto cipiglio, che la Quercia sia oggi un partito in sofferenza, anzi il più in sofferenza di tutti. Ma ci sarà pure qualche ragione non occasionale, non tattica, ma più profonda se Nichi Vendola vince l'esperimento delle primarie, se Piero Fassino non riesce a trattenersi da uno sfogo nel Transatlantico di Montecitorio, se esplode il rifiuto della socialdemocrazia e, soprattutto. se i duellanti per la leadership del centrosinistra sono Romano Prodi e Fausto Bertinotti con le aggiunte di` Pecoraro Scanio e Di Pietro, cioè se i diessini si vedono sempre costretti a occupare la seconda fila, nel momento delle scelte che contano. Non sarà solo per spirito di servizio verso la coalizione. Troppi conti non tornano.
Ad esempio, ad ascoltare il professor Giovanni Sartori, che ha passato la vita a studiare e ad insegnare il funzionamento dei sistemi politici, nel voto pugliese si è espressa una «democrazia dei militanti», cioè una partecipazione molto esigua, ma motivata a imprimere un segno. Avrebbe dovuto essere questo il terreno naturale della Quercia ed ecco che, invece, a prevalere è stato un professionista di lungo corso della politica, un uomo-simbolo di Rifondazione. Non un sussulto di girotondismo, non una ribellione della «società civile» ai partiti o ai dirigenti «con i quali non vinceremo mai», come disse Nanni Moretti, ma la sconfitta di un'area, quella che si definisce «riformista» e quindi di chi dice di rappresentarla.
E poi, appunto, i riformisti. In questi giorni, si è parlato molto del loro silenzio e del loro stato di minorità. Una scoperta un po' tardiva. Si è giunti a parlare - lo ha fatto Enrico Letta in modo autocritico - perfino della loro mancanza di fascino, della loro incapacità «di scaldare il cuore degli elettori». Come se dietro al riemergere di un profilo marcatamente di sinistra dell'opposizione - «sinistra-centro», ha scritto ieri Francesco Rutelli - ci sia solo un po' di timidezza o un'incapacità di comunicazione e non, invece, alcuni grandi nodi non sciolti.
Primo fra tutti, è quello che il bipolarismo ha ereditato dal vecchio sistema dei partiti: «la questione diessina», che è il prolungamento in altre forme della vecchia e irrisolta «questione comunista». Se ci chiediamo chi abbia impedito nell'ultimo quindicennio la nascita di una sinistra moderna, capace di misurarsi con le sfide delle società complesse e della globalizzazione, solo un cieco potrebbe pensare a Bertinotti, a Cossutta o a Pecoraro Scanio. Essi rappresentano spinte o resistenze che esistono un po' ovunque, l'uno l'antagonismo del 2000, l'altro la nostalgia del Novecento, l'altro ancora la rendita politica dell'ideologia ambientalista, tutti insieme quel 10-15 per cento di elettorato che esprime un rifiuto dell'esistente e dell'idea di poterlo governare. La loro identità è precisa.
Ma se ci si chiede quale sia l'identità dei Ds, non è davvero facile dare una risposta. Hanno compiuto una scelta socialdemocratica? A parole è così, ma quale socialdemocrazia? Rutelli, che ha provato ad indossare per 24 ore i panni di Blair, ne sa qualcosa. La cornice entro la quale è rimasta ferma la Quercia sembra più quella di un'appartenenza nominalistica che al cantiere aperto a Londra o a Berlino, tanto per citare due casi. Basti pensare al fatto che il cancelliere tedesco ha appena imposto una serie di ticket sanitari, mentre uno degli ultimi atti del centrosinistra al governo (Giuliano Amato presidente del Consiglio) fu quello di eliminarli, inseguendo solo una logica populista. E se riformista - parola magica, quanto generica e ormai abusata - dovrebbe essere colui che propone ed attua delle riforme, non è facile dare una risposta alla domanda su quali reali innovazioni abbia scommesso la Quercia tra il 1996 e il 2001. Ci fu solo l'Euro, ma era una strada obbligata.
Per non parlare poi del dilemma, sempre presente, sull'opzione «democratica» di modello americano che contraddistinse il periodo in cui Walter Veltroni era al «botteghino», il famoso «I care». Se non fosse stata pura immagine, sarebbe stata l'occasione di specchiarsi un po' meglio nelle scelte di Bill Clinton, nelle sue politiche fiscali, sanitarie, sociali, nei giudizi che dette su Reagan o nei suoi tentativi - già lui ci provò - di chiudere i conti con il regime di Saddam Hussein. Ma per i post-comunisti era impossibile, allora come oggi, uscire dall'indeterminatezza.
È sembrata e continua a sembrare la continuazione della storia del Pci, che giunse a raccogliere un terzo del voto degli italiani senza poterlo spendere sul mercato della politica, bloccando la formazione di un'altra sinistra e sbilanciando il sistema. La «questione diessina» sta qui, nella contraddizione tra a forza elettorale della Quercia e l'arretratezza della sua cultura. Una cultura in cui è visibile l'impronta che, dopo la fine della stagione dell'unità nazionale, l'ultimo Berlinguer dette al Pci: era l'impronta dell'«alternativa democratica» costituita da tanti frammenti, come «la questione morale», come il trinceramento sociale nel lavoro dipendente, come il terzaforzismo in politica estera, come l'orizzonte e socialdemocrazie europee, tutti frammenti che hanno poi formato il dna politico del Pds e dei Ds. Ma erano venticinque anni fa.
Il macigno che blocca il cammino della sinistra italiana e che rappresenta la vera anomalia del bipolarismo italiano - impedendo un'alternanza tra schieramenti innovativi - sta in un simbolo, la Quercia, senza un'identità corrispondente ai tempi. Il resto - il non poter presentare un candidato alla presidenza del Consiglio, il dover inseguire via via i girotondi, i pacifisti, il sindacalismo radicale, perfino l'essere battuti da Nichi Vendola - è solo una conseguenza, a cui anche Rutelli sembra rassegnato.