MCA
05-12-2004, 16:22
Tutto è iniziato, vedendo questa foto:
http://www.rapira.ru/docs/series/admislife/16.jpg
Inizialmente pensavo fosse uno scherzo; Una mobo immersa in un liquido?!? Impossibile, pensavo...
Invece, informandomi ho visto che effettivamente esistevano liquidi isolanti elettricamente e che allo stesso tempo dissipavano il calore prodotto dai componenti... Leggette in seguito :
I materiali isolanti liquidi
Si premette che la funzione dei materiali isolanti liquidi (come pure anche quella dell’aria e dei materiali isolanti gassosi) è duplice perché, oltre all’isolamento, essi provvedono alla rimozione del calore che si genera nel nucleo e negli avvolgimenti.
L’isolante liquido maggiormente impiegato per i trasformatori è uno speciale olio minerale, un prodotto della distillazione della nafta. Furono introdotti anche alcuni liquidi isolanti sintetici, del tutto simili all’olio minerale, o da esso diversi in qualche loro particolarità, come nel caso dell’apirolio (pyranol, askarel) che offre il vantaggio di esser incombustibile, ma non è privo di inconvenienti, quali l’alto costo e l’alto peso specifico e, più ancora, il fatto che esso intacca quasi tutte le vernici e richiede perciò degli accorgimenti del tutto speciali. C’è da aggiungere che esso non è biodegradabile, ed è stato fin dal 1983 proibito dalla normativa internazionale, in quanto ritenuto fortemente tossico e inquinante. Vari altri liquidi isolanti sintetici sono ancora in fase di sperimentazione, ma va posto in rilievo che nessuno di essi potrebbe competere con l’olio minerale se il prezzo di quest’ultimo non fosse gravato da tasse assurdamente onerose. All’olio minerale si richiede una grande purezza chimica, l’assenza praticamente completa di molte impurità, ed in modo particolare dello zolfo. Se gli oli minerali oggi impiegati per i trasformatori sono ottimi, ciò è dovuto ad un lungo, graduale e paziente lavoro di progressivo miglioramento. Gli oli primitivi, per natura propria ed anche perché maggiormente esposti all’aria ed all’azione dell’umidità, erano soggetti a fenomeni di ossidazione per cui si formavano, tra bobina e bobina, dei depositi gelatinosi che finivano per ostruire i canali stessi, impedendo la trasmissione del calore. Era perciò necessario lavare, di tanto in tanto, la macchina , per mezzo di getti di petrolio in pressione. Ma se ciò poteva valere per l’avvolgimento esterno, l’efficacia ne era assai dubbia per quello interno. All’inconveniente fu posto rimedio sia con il miglioramento qualitativo dell’olio, sia con la generalizzazione dell’impiego del conservatore.
Il peggiore nemico dell’isolamento dei trasformatori è l’acqua. Questa penetra nella macchina per due vie: per assorbimento dell’umidità atmosferica da parte dell’olio (e successiva formazione di acqua libera al variare del limite di saturazione per effetto delle variazioni della sua temperatura in servizio) e per generazione di molecole d’acqua nel corso del processo di invecchiamento dei materiali isolanti solidi a base di cellulosa.
Di queste due cause, la prima è di gran lunga la più importante. I vecchi trasformatori venivano adeguati, nei limiti del possibile, alla qualità scadente del loro olio ed alla quasi totale mancanza di protezione nei confronti dell’umidità atmosferica; il processo di laccatura dei materiali isolanti solidi, e degli stessi avvolgimenti, li rendeva inoltre meno sensibili all’azione dell’umidità. Le distanze isolanti eccessive, dovute al timore di ostruzioni causate da depositi gelatinosi, inducevano ulteriormente a trascurare i processi di essiccamento. Fino a qual punto fossero sovradimensionati i primi trasformatori può risultare da un fatto curioso: nel 1927 un piccolo committente rinviò in officina un trasformatore guasto, che recava l’anno di costruzione 1902. La potenza era di 150 kVA, ma le dimensioni corrispondevano a quelle di una macchina moderna da 15.000 o 20.000 kVA . Aperto il cassone, non vi si trovò traccia di olio e l’analisi di laboratorio confermò che olio non era mai stato usato. Il committente, interpellato, disse di non aver mai letto il libretto di istruzioni che ne prescriveva l’impiego. La macchina funzionò dunque in ambiente d’aria chiuso, senza danno, per venticinque anni, malgrado la mancanza di olio, o forse proprio per questo!
La costruzione moderna esige, invece, che sia la macchina che il suo olio siano disidratati al più alto grado possibile per mezzo di un trattamento sotto vuoto spinto ai limiti estremi delle possibilità.
Ma l’olio disidratato, come pure i materiali isolanti a base di cellulosa, sono molto avidi di umidità ed occorre perciò impedire che quella espulsa durante il processo di trattamento possa rientrare dall’ambiente esterno. L’introduzione del conservatore d’olio consentì di risolvere sufficientemente bene questo problema, specie quando l’accorgimento fu integrato dall’aggiunta di essiccatori d’aria, un tempo al cloruro di calcio ed oggi al silica-gel (una specie di silice colloidale, estremamente assorbente), sulla conduttura di immissione dell’aria esterna. Ma si è proseguito ulteriormente in questi sistemi di protezione dell’olio (specie per le macchine più impegnative e per le tensioni più alte) con l’adozione del doppio conservatore dapprima, del cuscino di gas secco ed inerte (azoto) poi (di ideazione Westinghouse).
Per le macchine più piccole si è fatto anche ricorso a un cuscino d’aria secca, che viene lasciato nella cassa avente il coperchio saldato a tenuta ermetica. Ciò non sarebbe tuttavia prudente per alte tensioni; anzi, lo stesso sistema , se non è perfettamente regolato nelle pressioni di immissione e di scarico del gas, ha dato luogo a qualche inconveniente. Infatti, quando il gas è in pressione, esso si scioglie nell’olio. Venendo a cadere la pressione per abbassamento della temperatura (riduzione di carico, od abbassamento della temperatura ambiente) il gas si libera in forma di bollicine, anche sulla superficie degli avvolgimenti. Queste bollicine sono fatalmente sede di fenomeni di ionizzazione che possono portare anche alla scarica con distruzione dell’avvolgimento. E’ perciò necessario che le variazioni di pressione in servizio siano le minime possibili, e, a tale riguardo, è particolarmente efficace il sistema a vescica di gas secco, ideato dal francese Josse ed oggi, con qualche perfezionamento, generalmente applicato alle macchine di maggiore importanza.
Testo tratto da qui (http://www.itismarconipadova.it/adp/adp2002/ADP5EBS%2001%2002/default.php-t=site&pgid=13.htm)
Quello che vorrei sapere, è se un simile sistema di dissipazione termica può concorrere con uno ad aria o ad acqua...
Esistono delle prove, dei test...?
Ciao
http://www.rapira.ru/docs/series/admislife/16.jpg
Inizialmente pensavo fosse uno scherzo; Una mobo immersa in un liquido?!? Impossibile, pensavo...
Invece, informandomi ho visto che effettivamente esistevano liquidi isolanti elettricamente e che allo stesso tempo dissipavano il calore prodotto dai componenti... Leggette in seguito :
I materiali isolanti liquidi
Si premette che la funzione dei materiali isolanti liquidi (come pure anche quella dell’aria e dei materiali isolanti gassosi) è duplice perché, oltre all’isolamento, essi provvedono alla rimozione del calore che si genera nel nucleo e negli avvolgimenti.
L’isolante liquido maggiormente impiegato per i trasformatori è uno speciale olio minerale, un prodotto della distillazione della nafta. Furono introdotti anche alcuni liquidi isolanti sintetici, del tutto simili all’olio minerale, o da esso diversi in qualche loro particolarità, come nel caso dell’apirolio (pyranol, askarel) che offre il vantaggio di esser incombustibile, ma non è privo di inconvenienti, quali l’alto costo e l’alto peso specifico e, più ancora, il fatto che esso intacca quasi tutte le vernici e richiede perciò degli accorgimenti del tutto speciali. C’è da aggiungere che esso non è biodegradabile, ed è stato fin dal 1983 proibito dalla normativa internazionale, in quanto ritenuto fortemente tossico e inquinante. Vari altri liquidi isolanti sintetici sono ancora in fase di sperimentazione, ma va posto in rilievo che nessuno di essi potrebbe competere con l’olio minerale se il prezzo di quest’ultimo non fosse gravato da tasse assurdamente onerose. All’olio minerale si richiede una grande purezza chimica, l’assenza praticamente completa di molte impurità, ed in modo particolare dello zolfo. Se gli oli minerali oggi impiegati per i trasformatori sono ottimi, ciò è dovuto ad un lungo, graduale e paziente lavoro di progressivo miglioramento. Gli oli primitivi, per natura propria ed anche perché maggiormente esposti all’aria ed all’azione dell’umidità, erano soggetti a fenomeni di ossidazione per cui si formavano, tra bobina e bobina, dei depositi gelatinosi che finivano per ostruire i canali stessi, impedendo la trasmissione del calore. Era perciò necessario lavare, di tanto in tanto, la macchina , per mezzo di getti di petrolio in pressione. Ma se ciò poteva valere per l’avvolgimento esterno, l’efficacia ne era assai dubbia per quello interno. All’inconveniente fu posto rimedio sia con il miglioramento qualitativo dell’olio, sia con la generalizzazione dell’impiego del conservatore.
Il peggiore nemico dell’isolamento dei trasformatori è l’acqua. Questa penetra nella macchina per due vie: per assorbimento dell’umidità atmosferica da parte dell’olio (e successiva formazione di acqua libera al variare del limite di saturazione per effetto delle variazioni della sua temperatura in servizio) e per generazione di molecole d’acqua nel corso del processo di invecchiamento dei materiali isolanti solidi a base di cellulosa.
Di queste due cause, la prima è di gran lunga la più importante. I vecchi trasformatori venivano adeguati, nei limiti del possibile, alla qualità scadente del loro olio ed alla quasi totale mancanza di protezione nei confronti dell’umidità atmosferica; il processo di laccatura dei materiali isolanti solidi, e degli stessi avvolgimenti, li rendeva inoltre meno sensibili all’azione dell’umidità. Le distanze isolanti eccessive, dovute al timore di ostruzioni causate da depositi gelatinosi, inducevano ulteriormente a trascurare i processi di essiccamento. Fino a qual punto fossero sovradimensionati i primi trasformatori può risultare da un fatto curioso: nel 1927 un piccolo committente rinviò in officina un trasformatore guasto, che recava l’anno di costruzione 1902. La potenza era di 150 kVA, ma le dimensioni corrispondevano a quelle di una macchina moderna da 15.000 o 20.000 kVA . Aperto il cassone, non vi si trovò traccia di olio e l’analisi di laboratorio confermò che olio non era mai stato usato. Il committente, interpellato, disse di non aver mai letto il libretto di istruzioni che ne prescriveva l’impiego. La macchina funzionò dunque in ambiente d’aria chiuso, senza danno, per venticinque anni, malgrado la mancanza di olio, o forse proprio per questo!
La costruzione moderna esige, invece, che sia la macchina che il suo olio siano disidratati al più alto grado possibile per mezzo di un trattamento sotto vuoto spinto ai limiti estremi delle possibilità.
Ma l’olio disidratato, come pure i materiali isolanti a base di cellulosa, sono molto avidi di umidità ed occorre perciò impedire che quella espulsa durante il processo di trattamento possa rientrare dall’ambiente esterno. L’introduzione del conservatore d’olio consentì di risolvere sufficientemente bene questo problema, specie quando l’accorgimento fu integrato dall’aggiunta di essiccatori d’aria, un tempo al cloruro di calcio ed oggi al silica-gel (una specie di silice colloidale, estremamente assorbente), sulla conduttura di immissione dell’aria esterna. Ma si è proseguito ulteriormente in questi sistemi di protezione dell’olio (specie per le macchine più impegnative e per le tensioni più alte) con l’adozione del doppio conservatore dapprima, del cuscino di gas secco ed inerte (azoto) poi (di ideazione Westinghouse).
Per le macchine più piccole si è fatto anche ricorso a un cuscino d’aria secca, che viene lasciato nella cassa avente il coperchio saldato a tenuta ermetica. Ciò non sarebbe tuttavia prudente per alte tensioni; anzi, lo stesso sistema , se non è perfettamente regolato nelle pressioni di immissione e di scarico del gas, ha dato luogo a qualche inconveniente. Infatti, quando il gas è in pressione, esso si scioglie nell’olio. Venendo a cadere la pressione per abbassamento della temperatura (riduzione di carico, od abbassamento della temperatura ambiente) il gas si libera in forma di bollicine, anche sulla superficie degli avvolgimenti. Queste bollicine sono fatalmente sede di fenomeni di ionizzazione che possono portare anche alla scarica con distruzione dell’avvolgimento. E’ perciò necessario che le variazioni di pressione in servizio siano le minime possibili, e, a tale riguardo, è particolarmente efficace il sistema a vescica di gas secco, ideato dal francese Josse ed oggi, con qualche perfezionamento, generalmente applicato alle macchine di maggiore importanza.
Testo tratto da qui (http://www.itismarconipadova.it/adp/adp2002/ADP5EBS%2001%2002/default.php-t=site&pgid=13.htm)
Quello che vorrei sapere, è se un simile sistema di dissipazione termica può concorrere con uno ad aria o ad acqua...
Esistono delle prove, dei test...?
Ciao