Paracleto
17-08-2004, 20:46
Dieci anni dopo il massacro dei tutsi, la comunità internazionale non ha ancora imparato dai propri genocidi
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Londra. Sarebbero oltre centocinquanta le persone uccise tra venerdì e sabato notte nel campo profughi di Gatumba, in Burundi, e almeno altrettanti i feriti. Quasi tutte le vittime appartenevano all’etnia Banyamulenge, erano cioè congolesi di origine tutsi. Il massacro è stato rivendicato dalle Forces Nationales de Liberation (Fnl), fazione hutu burundese che non ha firmato gli accordi di pace in Burundi e non fa parte del governo di unità nazionale. Sono in molti, tuttavia, a dubitare che l’operazione sia stata condotta soltanto dall’Fnl. Alcuni sopravvissuti hanno riferito che i ribelli comunicavano in diverse lingue, tra cui Kinyaruanda, Kirundi e Lingala, idiomi parlati, rispettivamente, in Ruanda, Burundi e Congo. Inoltre, gli aggressori sarebbero arrivati dal vicino Congo e, una volta terminato il pogrom, vi avrebbero fatto ritorno. Tutto ciò fa pensare a un’operazione congiunta di diversi gruppi estremisti che operano nella regione. In particolare, si sospetta il coinvolgimento dell’Interahamwe, la milizia hutu responsabile del genocidio del 1994 in Ruanda, durante il quale perirono oltre 800 mila persone, in maggioranza tutsi.
Ironia della sorte, è proprio ruandese il primo contingente della forza internazionale inviata dall’Unione africana in Darfur: in Ruanda sono oggi al potere i tutsi, e il presidente Paul Kagame ha voluto mettere in prima le fila le truppe del suo paese nell’emergenza umanitaria che molti paragonano al genocidio ruandese. Le origini del conflitto tra hutu e tutsi vanno ricercate nella politica seguita dall’Amministrazione coloniale belga, che si basava su uno spregiudicato “divide et impera” e sull’applicazione delle teorie del razzismo europeo a identità di gruppo che, in origine, erano probabilmente più simili a caste o classi sociali che a etnie. La razzializzazione di hutu e tutsi ha prodotto conseguenze disastrose, esacerbate dalla mediocrità dei leader politici: Ruanda, Burundi e Congo avrebbero bisogno della leadership visionaria di un Gandhi o di un Mandela, capaci di catalizzare un processo di riconciliazione nazionale; ma purtroppo non è così.
Il pogrom di Gatumba avrà ripercussioni sul precario equilibrio politico in Burundi, dove il presidente Domitien Ndayizeye gestisce un’incerta fase di transizione tuttora dominata dalla violenza interetnica. Ndayizeye è hutu, a capo di una coalizione d’unità nazionale che comprende anche partiti tutsi. Prima di Ndayizeye, i capi di governo hutu in Burundi non sono durati a lungo, deposti o assassinati in colpi di Stato orchestrati dall’esercito, controllato dai tutsi. Il massacro sarà visto da elementi estremisti tutsi come conferma che la collaborazione con gli hutu non è possibile; sfrutterano l’angoscia d’assedio della minoranza tutsi, che certo non ha dimenticato il genocidio del 1994. Fu proprio la paura del genocidio a spingere il governo ruandese a intervenire in Congo nel 1997, sostenendo la ribellione che portò alla caduta del regime di Mobutu Sese Seko: gli estremisti hutu controllavano, infatti, i campi profughi nel Congo orientale, a pochi chilometri dal confine con il Ruanda, e li usavano come base per attacchi contro il territorio ruandese dopo il genocidio.
Che cosa impone il diritto internazionale
Allora l’incapacità della comunità internazionale di disarmare gli estremisti e garantire la frontiera con il Ruanda precipitò la crisi. Oggi l’alto commissariato dell’Onu per i Rifugiati ha ottenuto il consenso delle autorità burundesi per trasferire i sopravvissuti di Gatumba in un campo più sicuro, più distante quindi dal confine con il Congo. Il diritto internazionale impone, infatti, che i profughi non siano sistemati in zone in prossimità del confine con i loro paesi di provenienza: la vicinanza trasforma spesso i campi in basi militari per gruppi di ribelli e rende i civili facili bersagli.
Il Consiglio di sicurezza ha condannato il massacro con la “massima fermezza”, ma le parole altisonanti non servono a mascherare la realtà di quanto è accaduto a Gatumba: a dieci anni dal genocidio ruandese e a pochi mesi dalle commemorazioni in cui leader internazionali e diplomatici dell’Onu hanno fatto a gara a ripetere “mai più”, centocinquanta persone in un campo dell’Onu sono state fatte a pezzi a colpi di machete e granate. Il nome di Gatumba si andrà così ad aggiungere all’elenco dei luoghi resi tristemente famosi dall’incapacità della comunità internazionale di offrire protezione a chi credeva di trovare rifugio sotto la sua tutela: dal Ruanda a Srebenica fino al Darfur dei giorni nostri.
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Londra. Sarebbero oltre centocinquanta le persone uccise tra venerdì e sabato notte nel campo profughi di Gatumba, in Burundi, e almeno altrettanti i feriti. Quasi tutte le vittime appartenevano all’etnia Banyamulenge, erano cioè congolesi di origine tutsi. Il massacro è stato rivendicato dalle Forces Nationales de Liberation (Fnl), fazione hutu burundese che non ha firmato gli accordi di pace in Burundi e non fa parte del governo di unità nazionale. Sono in molti, tuttavia, a dubitare che l’operazione sia stata condotta soltanto dall’Fnl. Alcuni sopravvissuti hanno riferito che i ribelli comunicavano in diverse lingue, tra cui Kinyaruanda, Kirundi e Lingala, idiomi parlati, rispettivamente, in Ruanda, Burundi e Congo. Inoltre, gli aggressori sarebbero arrivati dal vicino Congo e, una volta terminato il pogrom, vi avrebbero fatto ritorno. Tutto ciò fa pensare a un’operazione congiunta di diversi gruppi estremisti che operano nella regione. In particolare, si sospetta il coinvolgimento dell’Interahamwe, la milizia hutu responsabile del genocidio del 1994 in Ruanda, durante il quale perirono oltre 800 mila persone, in maggioranza tutsi.
Ironia della sorte, è proprio ruandese il primo contingente della forza internazionale inviata dall’Unione africana in Darfur: in Ruanda sono oggi al potere i tutsi, e il presidente Paul Kagame ha voluto mettere in prima le fila le truppe del suo paese nell’emergenza umanitaria che molti paragonano al genocidio ruandese. Le origini del conflitto tra hutu e tutsi vanno ricercate nella politica seguita dall’Amministrazione coloniale belga, che si basava su uno spregiudicato “divide et impera” e sull’applicazione delle teorie del razzismo europeo a identità di gruppo che, in origine, erano probabilmente più simili a caste o classi sociali che a etnie. La razzializzazione di hutu e tutsi ha prodotto conseguenze disastrose, esacerbate dalla mediocrità dei leader politici: Ruanda, Burundi e Congo avrebbero bisogno della leadership visionaria di un Gandhi o di un Mandela, capaci di catalizzare un processo di riconciliazione nazionale; ma purtroppo non è così.
Il pogrom di Gatumba avrà ripercussioni sul precario equilibrio politico in Burundi, dove il presidente Domitien Ndayizeye gestisce un’incerta fase di transizione tuttora dominata dalla violenza interetnica. Ndayizeye è hutu, a capo di una coalizione d’unità nazionale che comprende anche partiti tutsi. Prima di Ndayizeye, i capi di governo hutu in Burundi non sono durati a lungo, deposti o assassinati in colpi di Stato orchestrati dall’esercito, controllato dai tutsi. Il massacro sarà visto da elementi estremisti tutsi come conferma che la collaborazione con gli hutu non è possibile; sfrutterano l’angoscia d’assedio della minoranza tutsi, che certo non ha dimenticato il genocidio del 1994. Fu proprio la paura del genocidio a spingere il governo ruandese a intervenire in Congo nel 1997, sostenendo la ribellione che portò alla caduta del regime di Mobutu Sese Seko: gli estremisti hutu controllavano, infatti, i campi profughi nel Congo orientale, a pochi chilometri dal confine con il Ruanda, e li usavano come base per attacchi contro il territorio ruandese dopo il genocidio.
Che cosa impone il diritto internazionale
Allora l’incapacità della comunità internazionale di disarmare gli estremisti e garantire la frontiera con il Ruanda precipitò la crisi. Oggi l’alto commissariato dell’Onu per i Rifugiati ha ottenuto il consenso delle autorità burundesi per trasferire i sopravvissuti di Gatumba in un campo più sicuro, più distante quindi dal confine con il Congo. Il diritto internazionale impone, infatti, che i profughi non siano sistemati in zone in prossimità del confine con i loro paesi di provenienza: la vicinanza trasforma spesso i campi in basi militari per gruppi di ribelli e rende i civili facili bersagli.
Il Consiglio di sicurezza ha condannato il massacro con la “massima fermezza”, ma le parole altisonanti non servono a mascherare la realtà di quanto è accaduto a Gatumba: a dieci anni dal genocidio ruandese e a pochi mesi dalle commemorazioni in cui leader internazionali e diplomatici dell’Onu hanno fatto a gara a ripetere “mai più”, centocinquanta persone in un campo dell’Onu sono state fatte a pezzi a colpi di machete e granate. Il nome di Gatumba si andrà così ad aggiungere all’elenco dei luoghi resi tristemente famosi dall’incapacità della comunità internazionale di offrire protezione a chi credeva di trovare rifugio sotto la sua tutela: dal Ruanda a Srebenica fino al Darfur dei giorni nostri.