mrmic
19-03-2004, 23:22
Molto interessante quest'articolo di Panorama, che riporta, seppur in ritardo, la situazione di uno dei paesi più ricchi dell'America Latina, messo alla corda da un Presidente che ama atteggiarsi e parlare da nuovo libertador del XXI secolo:
http://www.panorama.it/mondo/americhe/articolo/ix1-A020001023488
di Pino Buongiorno
<<Nel paese latinoamericano la situazione è sempre più tesa: ogni giorno grandi manifestazioni (spesso represse nel sangue) chiedono le dimissioni del presidente Hugo Chavez. Che però, appoggiato da Fidel Castro, è pronto a tutto. E intanto il petrolio va alle stelle.
Che weekend memorabile doveva essere quello della prima settimana di marzo, al teatro Teresa Carreno di Caracas. I cartelloni annunciavano un concerto dell'Orquesta sinfónica Venezuela, che avrebbe suonato l'Ottava sinfonia di Antonin Dvorak. A dirigerla era stato chiamato per l'occasione il giovanissimo violoncellista Carlos Eduardo Izcaray, il figlio di Felipe, uno dei grandi nomi dalla musica venezuelana. L'appuntamento è stato cancellato all'ultimo momento. La causa? La rivela, via email, lo stesso maestro don Felipe Izcaray: «Qualche giorno prima del concerto, mio figlio Carlos è stato sequestrato nella piazza centrale di Altamira dalla Guardia nacional mentre assisteva agli scontri fra un gruppo di dimostranti e i soldati. È stato portato in una sede della polizia militare, picchiato e torturato selvaggiamente, anche con scariche elettriche in tutte le parti del corpo. Ora è in una clinica privata, dove viene curato per le ferite e per lo shock».
Assai meno fortunato è stato l'italo-venezuelano Cosimo Biella, uno dei 2 milioni di nostri connazionali che vivono nel paese. È rimasto ucciso in una delle numerose manifestazioni di protesta contro il regime del presidente Hugo Chavez, 50 anni, da 6 al potere, in corso dalla fine di febbraio non solo nella capitale, ma anche in altri quattro stati. Da quel momento, un morto al giorno, centinaia di feriti gravi, fra cui 14 giornalisti, e oltre 400 detenuti. Fra loro anche il vicepresidente della borsa, Santiago Monteverde.
Disgustato dalle scene di violenza gratuita che vedeva in tv e dai racconti concitati che gli facevano al telefono da Caracas gli amici, l'ambasciatore venezuelano alle Nazioni Unite, Milos Alcalay, decano del corpo diplomatico, si è dimesso urlando tutta la sua rabbia per «la sistematica violazione dei diritti umani». Un comportamento, ha denunciato, che «ricorda da vicino quei regimi totalitari o autoritari rigettati dai popoli dell'America Latina negli anni 80».
Dopo l'effimero golpe antichavista di 35 ore dell'aprile 2002, e dopo il lungo sciopero (dicembre 2002-gennaio 2003) che ha messo in ginocchio la compagnia petrolifera di stato, il Venezuela (quinto produttore al mondo di greggio) sta per entrare in una fase ancora più pericolosa. Il timore di tutti gli osservatori internazionali è che la situazione possa sfuggire di mano fino a sfociare nella guerra civile.
Detonatore dell'ennesima crisi è stata la ventilata bocciatura del referendum, previsto dalla costituzione, che avrebbe dovuto revocare il mandato di Chavez due anni prima della scadenza naturale. Su oltre 3 milioni di firme raccolte, solo 1 milione 800 mila sono state riconosciute valide dal Consiglio nazionale elettorale, organo dominato dai seguaci del presidente in camicia e basco rosso fuoco. Per indire il referendum ne occorrevano 2 milioni 400 mila.
Il coordinamento democratico d'opposizione ha protestato duramente per quello che considera un «golpe costituzionale» e ha indetto marce in tutte le città chiedendo l'appoggio dell'Organizzazione degli stati americani (Osa), del centro Jimmy Carter e dell'Unione Europea. Le frange più estremiste hanno appiccato fuochi nelle avenidas intensificando gli incidenti con la polizia militare in coincidenza con la fuga di Jean-Bertrand Aristide da Port-au-Prince. «Bye bye presidente» è stato il coro ritmato nelle piazze principali.
Ma il Venezuela non è Haiti. L'esercito e soprattutto la Guardia nacional obbediscono a Chavez così come tutte le istituzioni, occupate scientificamente dai seguaci dell'ex parà che si autoproclama l'erede di Simon Bolivar e l'allievo prediletto di Fidel Castro. Né la variegata opposizione politica può aspettarsi l'invasione dei marines spediti da George W. Bush a restaurare la democrazia. È vero che ogni giorno 1,6 milioni di barili di petrolio partono dai porti venezuelani diretti verso il Texas, ma in un anno elettorale la Casa Bianca non ha alcuna voglia di intraprendere un'altra avventura militare sul modello Iraq.
«Siamo sull'orlo di una crisi violenta» dichiara a Panorama Eduardo Fernandez, presidente del partito socialcristiano Copei. E se lo dice anche un uomo politico di solito assai prudente come Fernandez c'è veramente da avere paura. I mercati hanno reagito prontamente. Da una settimana i prezzi del petrolio sono in aumento vertiginoso e puntano a raggiungere il picco dei 40 dollari al barile sulla spinta delle preoccupazioni generate proprio dalle forniture venezuelane. In Italia la ricaduta sugli automobilisti è stata già sensibile. Le grandi banche di affari americane hanno denunciato nei loro più recenti report «la mina Venezuela» e hanno invitato gli investitori alla massima cautela.
Da «mago de las emociones», come lo ha definito in un brillantissimo pamphlet lo psichiatra e antropologo Luis José Uzcategui, il comandante Chavez ne ha approfittato subito. Ha occupato di domenica la tv di stato per ore e ha puntato il dito contro Bush, «il farabutto», e contro il consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, «l'analfabeta», accusandoli di fomentare un nuovo colpo di stato e, in extremis, di ordire l'invasione «yanqui» del Venezuela. Da istrionico demagogo, Chavez è ormai abituato a trovare il capro espiatorio all'estero per non rendere conto della gravissima situazione sociale, economica, politica e culturale di questo paese che ha sempre creduto di poter essere l'Eldorado dell'America Latina.
«L'economia venezuelana segna il passo da 25 anni, ma mai come nell'ultimo biennio il crollo ha toccato un punto più critico, con un segno negativo del 18 per cento del prodotto interno lordo» ricorda Enrique Berrizbeitia, vicepresidente della Corporacion andina de fomento (Caf), una delle principali istituzioni finanziarie del Sud America.
Ancora più drammatico è il quadro dipinto da Manuel Cova, segretario generale del sindacato venezuelano, uno dei più influenti leader d'opposizione: «Con Chavez gli omicidi sono triplicati. Nel 2003 abbiamo registrato 11 mila vittime, di cui l'80 per cento nei barrios, i quartieri più poveri. La disoccupazione è raddoppiata. La svalutazione costante della moneta locale rispetto al dollaro e all'euro punisce soprattutto i lavoratori. Il governo incassa molti soldi dal petrolio eppure il popolo non ne beneficia. Infine, la progressiva occupazione del potere genera solo fame e violenza».
Eletto a furor di popolo, dopo due decenni di governi imbelli e corrotti, Chavez è riuscito nell'impresa di inimicarsi in poco tempo quasi due terzi degli elettori. Oggi sono schierati contro di lui gli industriali e i sindacati, la Chiesa cattolica e tutti i media indipendenti. Gli rimane legato «el pueblo», come si vanta da populista cresciuto nelle caserme. «Sono le classi marginali» spiega Gerbe Torres, uno dei sociologi più noti, autore di una piattaforma politica (Un sueño para Venezuela), che ha riscosso enorme successo. «Con i desperados Chavez ha stretto un rapporto fideistico e affettivo: questi strati sociali poverissimi credono che il presidente sia uno di loro e che sia il loro legittimo rappresentante».
Oltre ad aver dato visibilità politica al popolo dei barrios, Chavez è diventato l'alfiere di una nuova rivoluzione, di stampo bolivariano e castrista, in tutta l'America Latina e nei Caraibi. A Cuba regala ogni giorno enormi quantitativi di petrolio in cambio di guardie del corpo, medici e tecnici: quasi 25 mila, secondo i calcoli dell'opposizione. Ai paesi caraibici fa sconti impressionanti sulle forniture di greggio ottenendone per contro i voti in seno all'Organizzazione degli stati americani. Ai movimenti insurrezionali indigeni, guerriglieri e terroristici degli stati limitrofi (Colombia, Bolivia, Ecuador), ma anche a quelli un po' più lontani (Salvador, Nicaragua e Santo Domingo), offre soldi e armi per destabilizzare i governi filoamericani.
«Sono venuti a lamentarsi con noi tutti gli ambasciatori di questi paesi sottoposti alla cura Chavez. E ci hanno raccontato quello che il governo di Caracas sta facendo per bolivarizzare il continente» rivela Leopoldo Lopez, il giovane sindaco del municipio di Chacao, quartiere bene della capitale, tra i fondatori dell'ultimo nato fra i partiti di opposizione, Primero justicia.
Ovviamente gli uomini più vicini a Chavez smentiscono e accusano gli avversari politici di essere «sabotatori» e gli industriali «parassiti». Presentandosi come vittima di golpisti e guastatori, il nuovo libertador di Caracas convoca il popolo dei barrios a difesa di Miraflores, il palazzo presidenziale, distribuisce tonnellate di cibo gratuito al mercato centrale, infiamma i miliziani armati che si infiltrano incappucciati nei cortei e sparano. Dietro le quinte gli arrivano i suggerimenti di Fidel Castro: guai a mollare, a convocare le urne, faresti la fine di Daniel Ortega in Nicaragua.
La Coordinadora democratica dei partiti di opposizione ha un compito praticamente impossibile. Intanto è una galassia informe: si va dall'estrema destra all'ultrasinistra. Non ha un leader, anzi ha molti galli che si fanno la guerra. Due sono gli esponenti più in vista, che potrebbero vincere le annunciate, ma mai finora celebrate, primarie. Il primo è il governatore dello stato di Miranda, Enrique Mendoza. Favorito dai sondaggi interni al coordinamento, non ha interesse ad alzare il livello dello scontro con il governo e si dichiara favorevole a un compromesso sulle procedure di certificazione delle firme per il referendum. Il suo più diretto concorrente, Enrique Salas Romer, propugna invece la linea oltranzista, presentandosi come l'ultimo baluardo di una democrazia alla deriva. L'inviato di Panorama ha potuto assistere in diretta alle riunioni delle varie correnti.
Chi voleva un nuovo sciopero generale e chi puntava a trattare; chi sosteneva che bisognasse buttare giù con ogni mezzo Chavez perché sta trasformando il paese in una dittatura e chi non vuole ritirarsi sull'Aventino e si dice disposto ad aspettare altri due anni per sconfiggere con le urne l'usurpatore. Nel frattempo tutti fanno appello alle forze armate e agli organismi internazionali, affinché vigilino e intervengano a difesa della maggioranza del paese.
In questo guazzabuglio, fra il crepitio delle pistole e il fumo dei gas lacrimogeni, Chavez le tenta tutte pur di rimanere aggrappato alla sedia presidenziale, come gli ha consigliato Castro. Sa benissimo che l'opposizione o sta al gioco pseudodemocratico e perde o va contro il gioco e muore. L'unica soluzione è convivere per sopravvivere. Eppure, la resa dei conti non è molto lontana>>.
LE CIFRE DEL DISASTRO ECONOMICO
Popolazione: 24.697.745 abitanti
PIL: -9.4% (2003 rispetto al 2002)
Inflazione: 26,1%
Disoccupazione: 18,3%
Moneta: a febbraio il bolivar è stato svalutato del 20%
Importazioni: -50%
Debito estero: 22 miliardi di dollari
Analfabetismo: 9%
PER 12 ANNI A CACCIA DEL POTERE
Febbraio 1992: Hugo Chavez, tenente colonnello, cerca con un colpo di stato di mettere fine a trent'anni di potere del partito Azione democratica. Viene arrestato e imprigionato.
Dicembre 1998: liberato, è eletto presidente con il 57 per cento dei voti.
30 Luglio 2000: dopo aver fatto redigere una nuova costituzione, approvata con il referendum del dicembre 1999, viene rieletto con il 60 per cento dei voti.
13 novembre 2001: Chavez radicalizza la sua rivoluzione, firmando le leggi sulle terre, sulla pesca e sugli idrocarburi.
10 dicembre 2001: per protestare contro queste minacce al libero mercato, l'organizzazione imprenditoriale Fedecámaras organizza uno sciopero generale sostenuto dai media e dalla Confederazione dei lavoratori del Venezuela (Ctv).
Marzo 2002: Fedecámaras, Ctv, Chiesa cattolica e rappresentanti delle classi medie firmano un patto nazionale di governabilità che ha l'obiettivo di ottenere «l'allontanamento democratico e costituzionale» del presidente. L'amministrazione di George W. Bush moltiplica le pressioni su Chavez.
11 aprile 2002: Chavez è costretto a dimettersi.
13 aprile 2002: i suoi sostenitori occupano le strade del paese. Chavez torna al governo.
Dicembre 2002: sciopero generale: dura 60 giorni e costa al paese 8 miliardi di dollari.
24 febbraio 2004: Il Consiglio nazionale elettorale (Cne) annuncia alla nazione che milioni di firme depositate dai cittadini per sollecitare il referendum di revoca del presidente Hugo Chavez sono sospese, in attesa di ulteriori verifiche.
27 febbraio-marzo: dopo la decisione del Cne, si moltiplicano le manifestazioni di protesta e i morti.
http://www.panorama.it/mondo/americhe/articolo/ix1-A020001023488
di Pino Buongiorno
<<Nel paese latinoamericano la situazione è sempre più tesa: ogni giorno grandi manifestazioni (spesso represse nel sangue) chiedono le dimissioni del presidente Hugo Chavez. Che però, appoggiato da Fidel Castro, è pronto a tutto. E intanto il petrolio va alle stelle.
Che weekend memorabile doveva essere quello della prima settimana di marzo, al teatro Teresa Carreno di Caracas. I cartelloni annunciavano un concerto dell'Orquesta sinfónica Venezuela, che avrebbe suonato l'Ottava sinfonia di Antonin Dvorak. A dirigerla era stato chiamato per l'occasione il giovanissimo violoncellista Carlos Eduardo Izcaray, il figlio di Felipe, uno dei grandi nomi dalla musica venezuelana. L'appuntamento è stato cancellato all'ultimo momento. La causa? La rivela, via email, lo stesso maestro don Felipe Izcaray: «Qualche giorno prima del concerto, mio figlio Carlos è stato sequestrato nella piazza centrale di Altamira dalla Guardia nacional mentre assisteva agli scontri fra un gruppo di dimostranti e i soldati. È stato portato in una sede della polizia militare, picchiato e torturato selvaggiamente, anche con scariche elettriche in tutte le parti del corpo. Ora è in una clinica privata, dove viene curato per le ferite e per lo shock».
Assai meno fortunato è stato l'italo-venezuelano Cosimo Biella, uno dei 2 milioni di nostri connazionali che vivono nel paese. È rimasto ucciso in una delle numerose manifestazioni di protesta contro il regime del presidente Hugo Chavez, 50 anni, da 6 al potere, in corso dalla fine di febbraio non solo nella capitale, ma anche in altri quattro stati. Da quel momento, un morto al giorno, centinaia di feriti gravi, fra cui 14 giornalisti, e oltre 400 detenuti. Fra loro anche il vicepresidente della borsa, Santiago Monteverde.
Disgustato dalle scene di violenza gratuita che vedeva in tv e dai racconti concitati che gli facevano al telefono da Caracas gli amici, l'ambasciatore venezuelano alle Nazioni Unite, Milos Alcalay, decano del corpo diplomatico, si è dimesso urlando tutta la sua rabbia per «la sistematica violazione dei diritti umani». Un comportamento, ha denunciato, che «ricorda da vicino quei regimi totalitari o autoritari rigettati dai popoli dell'America Latina negli anni 80».
Dopo l'effimero golpe antichavista di 35 ore dell'aprile 2002, e dopo il lungo sciopero (dicembre 2002-gennaio 2003) che ha messo in ginocchio la compagnia petrolifera di stato, il Venezuela (quinto produttore al mondo di greggio) sta per entrare in una fase ancora più pericolosa. Il timore di tutti gli osservatori internazionali è che la situazione possa sfuggire di mano fino a sfociare nella guerra civile.
Detonatore dell'ennesima crisi è stata la ventilata bocciatura del referendum, previsto dalla costituzione, che avrebbe dovuto revocare il mandato di Chavez due anni prima della scadenza naturale. Su oltre 3 milioni di firme raccolte, solo 1 milione 800 mila sono state riconosciute valide dal Consiglio nazionale elettorale, organo dominato dai seguaci del presidente in camicia e basco rosso fuoco. Per indire il referendum ne occorrevano 2 milioni 400 mila.
Il coordinamento democratico d'opposizione ha protestato duramente per quello che considera un «golpe costituzionale» e ha indetto marce in tutte le città chiedendo l'appoggio dell'Organizzazione degli stati americani (Osa), del centro Jimmy Carter e dell'Unione Europea. Le frange più estremiste hanno appiccato fuochi nelle avenidas intensificando gli incidenti con la polizia militare in coincidenza con la fuga di Jean-Bertrand Aristide da Port-au-Prince. «Bye bye presidente» è stato il coro ritmato nelle piazze principali.
Ma il Venezuela non è Haiti. L'esercito e soprattutto la Guardia nacional obbediscono a Chavez così come tutte le istituzioni, occupate scientificamente dai seguaci dell'ex parà che si autoproclama l'erede di Simon Bolivar e l'allievo prediletto di Fidel Castro. Né la variegata opposizione politica può aspettarsi l'invasione dei marines spediti da George W. Bush a restaurare la democrazia. È vero che ogni giorno 1,6 milioni di barili di petrolio partono dai porti venezuelani diretti verso il Texas, ma in un anno elettorale la Casa Bianca non ha alcuna voglia di intraprendere un'altra avventura militare sul modello Iraq.
«Siamo sull'orlo di una crisi violenta» dichiara a Panorama Eduardo Fernandez, presidente del partito socialcristiano Copei. E se lo dice anche un uomo politico di solito assai prudente come Fernandez c'è veramente da avere paura. I mercati hanno reagito prontamente. Da una settimana i prezzi del petrolio sono in aumento vertiginoso e puntano a raggiungere il picco dei 40 dollari al barile sulla spinta delle preoccupazioni generate proprio dalle forniture venezuelane. In Italia la ricaduta sugli automobilisti è stata già sensibile. Le grandi banche di affari americane hanno denunciato nei loro più recenti report «la mina Venezuela» e hanno invitato gli investitori alla massima cautela.
Da «mago de las emociones», come lo ha definito in un brillantissimo pamphlet lo psichiatra e antropologo Luis José Uzcategui, il comandante Chavez ne ha approfittato subito. Ha occupato di domenica la tv di stato per ore e ha puntato il dito contro Bush, «il farabutto», e contro il consigliere per la sicurezza nazionale, Condoleezza Rice, «l'analfabeta», accusandoli di fomentare un nuovo colpo di stato e, in extremis, di ordire l'invasione «yanqui» del Venezuela. Da istrionico demagogo, Chavez è ormai abituato a trovare il capro espiatorio all'estero per non rendere conto della gravissima situazione sociale, economica, politica e culturale di questo paese che ha sempre creduto di poter essere l'Eldorado dell'America Latina.
«L'economia venezuelana segna il passo da 25 anni, ma mai come nell'ultimo biennio il crollo ha toccato un punto più critico, con un segno negativo del 18 per cento del prodotto interno lordo» ricorda Enrique Berrizbeitia, vicepresidente della Corporacion andina de fomento (Caf), una delle principali istituzioni finanziarie del Sud America.
Ancora più drammatico è il quadro dipinto da Manuel Cova, segretario generale del sindacato venezuelano, uno dei più influenti leader d'opposizione: «Con Chavez gli omicidi sono triplicati. Nel 2003 abbiamo registrato 11 mila vittime, di cui l'80 per cento nei barrios, i quartieri più poveri. La disoccupazione è raddoppiata. La svalutazione costante della moneta locale rispetto al dollaro e all'euro punisce soprattutto i lavoratori. Il governo incassa molti soldi dal petrolio eppure il popolo non ne beneficia. Infine, la progressiva occupazione del potere genera solo fame e violenza».
Eletto a furor di popolo, dopo due decenni di governi imbelli e corrotti, Chavez è riuscito nell'impresa di inimicarsi in poco tempo quasi due terzi degli elettori. Oggi sono schierati contro di lui gli industriali e i sindacati, la Chiesa cattolica e tutti i media indipendenti. Gli rimane legato «el pueblo», come si vanta da populista cresciuto nelle caserme. «Sono le classi marginali» spiega Gerbe Torres, uno dei sociologi più noti, autore di una piattaforma politica (Un sueño para Venezuela), che ha riscosso enorme successo. «Con i desperados Chavez ha stretto un rapporto fideistico e affettivo: questi strati sociali poverissimi credono che il presidente sia uno di loro e che sia il loro legittimo rappresentante».
Oltre ad aver dato visibilità politica al popolo dei barrios, Chavez è diventato l'alfiere di una nuova rivoluzione, di stampo bolivariano e castrista, in tutta l'America Latina e nei Caraibi. A Cuba regala ogni giorno enormi quantitativi di petrolio in cambio di guardie del corpo, medici e tecnici: quasi 25 mila, secondo i calcoli dell'opposizione. Ai paesi caraibici fa sconti impressionanti sulle forniture di greggio ottenendone per contro i voti in seno all'Organizzazione degli stati americani. Ai movimenti insurrezionali indigeni, guerriglieri e terroristici degli stati limitrofi (Colombia, Bolivia, Ecuador), ma anche a quelli un po' più lontani (Salvador, Nicaragua e Santo Domingo), offre soldi e armi per destabilizzare i governi filoamericani.
«Sono venuti a lamentarsi con noi tutti gli ambasciatori di questi paesi sottoposti alla cura Chavez. E ci hanno raccontato quello che il governo di Caracas sta facendo per bolivarizzare il continente» rivela Leopoldo Lopez, il giovane sindaco del municipio di Chacao, quartiere bene della capitale, tra i fondatori dell'ultimo nato fra i partiti di opposizione, Primero justicia.
Ovviamente gli uomini più vicini a Chavez smentiscono e accusano gli avversari politici di essere «sabotatori» e gli industriali «parassiti». Presentandosi come vittima di golpisti e guastatori, il nuovo libertador di Caracas convoca il popolo dei barrios a difesa di Miraflores, il palazzo presidenziale, distribuisce tonnellate di cibo gratuito al mercato centrale, infiamma i miliziani armati che si infiltrano incappucciati nei cortei e sparano. Dietro le quinte gli arrivano i suggerimenti di Fidel Castro: guai a mollare, a convocare le urne, faresti la fine di Daniel Ortega in Nicaragua.
La Coordinadora democratica dei partiti di opposizione ha un compito praticamente impossibile. Intanto è una galassia informe: si va dall'estrema destra all'ultrasinistra. Non ha un leader, anzi ha molti galli che si fanno la guerra. Due sono gli esponenti più in vista, che potrebbero vincere le annunciate, ma mai finora celebrate, primarie. Il primo è il governatore dello stato di Miranda, Enrique Mendoza. Favorito dai sondaggi interni al coordinamento, non ha interesse ad alzare il livello dello scontro con il governo e si dichiara favorevole a un compromesso sulle procedure di certificazione delle firme per il referendum. Il suo più diretto concorrente, Enrique Salas Romer, propugna invece la linea oltranzista, presentandosi come l'ultimo baluardo di una democrazia alla deriva. L'inviato di Panorama ha potuto assistere in diretta alle riunioni delle varie correnti.
Chi voleva un nuovo sciopero generale e chi puntava a trattare; chi sosteneva che bisognasse buttare giù con ogni mezzo Chavez perché sta trasformando il paese in una dittatura e chi non vuole ritirarsi sull'Aventino e si dice disposto ad aspettare altri due anni per sconfiggere con le urne l'usurpatore. Nel frattempo tutti fanno appello alle forze armate e agli organismi internazionali, affinché vigilino e intervengano a difesa della maggioranza del paese.
In questo guazzabuglio, fra il crepitio delle pistole e il fumo dei gas lacrimogeni, Chavez le tenta tutte pur di rimanere aggrappato alla sedia presidenziale, come gli ha consigliato Castro. Sa benissimo che l'opposizione o sta al gioco pseudodemocratico e perde o va contro il gioco e muore. L'unica soluzione è convivere per sopravvivere. Eppure, la resa dei conti non è molto lontana>>.
LE CIFRE DEL DISASTRO ECONOMICO
Popolazione: 24.697.745 abitanti
PIL: -9.4% (2003 rispetto al 2002)
Inflazione: 26,1%
Disoccupazione: 18,3%
Moneta: a febbraio il bolivar è stato svalutato del 20%
Importazioni: -50%
Debito estero: 22 miliardi di dollari
Analfabetismo: 9%
PER 12 ANNI A CACCIA DEL POTERE
Febbraio 1992: Hugo Chavez, tenente colonnello, cerca con un colpo di stato di mettere fine a trent'anni di potere del partito Azione democratica. Viene arrestato e imprigionato.
Dicembre 1998: liberato, è eletto presidente con il 57 per cento dei voti.
30 Luglio 2000: dopo aver fatto redigere una nuova costituzione, approvata con il referendum del dicembre 1999, viene rieletto con il 60 per cento dei voti.
13 novembre 2001: Chavez radicalizza la sua rivoluzione, firmando le leggi sulle terre, sulla pesca e sugli idrocarburi.
10 dicembre 2001: per protestare contro queste minacce al libero mercato, l'organizzazione imprenditoriale Fedecámaras organizza uno sciopero generale sostenuto dai media e dalla Confederazione dei lavoratori del Venezuela (Ctv).
Marzo 2002: Fedecámaras, Ctv, Chiesa cattolica e rappresentanti delle classi medie firmano un patto nazionale di governabilità che ha l'obiettivo di ottenere «l'allontanamento democratico e costituzionale» del presidente. L'amministrazione di George W. Bush moltiplica le pressioni su Chavez.
11 aprile 2002: Chavez è costretto a dimettersi.
13 aprile 2002: i suoi sostenitori occupano le strade del paese. Chavez torna al governo.
Dicembre 2002: sciopero generale: dura 60 giorni e costa al paese 8 miliardi di dollari.
24 febbraio 2004: Il Consiglio nazionale elettorale (Cne) annuncia alla nazione che milioni di firme depositate dai cittadini per sollecitare il referendum di revoca del presidente Hugo Chavez sono sospese, in attesa di ulteriori verifiche.
27 febbraio-marzo: dopo la decisione del Cne, si moltiplicano le manifestazioni di protesta e i morti.