majin mixxi
23-12-2003, 17:50
Pietro Citati per La Repubblica
Non ho mai capito la storia. Non so perché gli eventi si preparino, accadano, precipitino, si dissolvano: formando ora un disegno armonioso, un tappeto dai mille colori che si corrispondono, ora una catastrofe senza linea né colori.
Non so chi regga le fila: se Qualcuno o Alcuni (così pensano i credenti), i quali conducono la storia verso una meta, che qualche volta conoscono ma più spesso ignorano.
Oppure gli uomini, sebbene sembri difficile attribuire agli uomini - questi «gattini ciechi», diceva Stalin - la capacità di individuare mete e fini. Oppure non ci sia niente: né dèi né uomini; ma solo una quantità infinita e assurda di casi, che per qualche ragione incomprensibile si dispongono come i capitoli di un romanzo.
Quale sia la spiegazione, la Storia rivela una fantasia grandiosa, clamorosa e spettacolare. Solo un uomo ha posseduto questa fantasia: Shakespeare; e ha rappresentato meravigliosamente personaggi e fatti storici, avvenuti in un tempo e in un luogo. Sebbene la Storia racconti moltissime commedie, e ami tipi diversissimi di scenografie e di metamorfosi, predilige fra tutte una vicenda: la Morte o la Caduta dei Potenti. Le nostre vicende comuni le interessano poco: ma appena un potente declina e cade, nel silenzio o nel frastuono, la Storia mette in scena uno dei suoi grandi spettacoli, che noi uomini, salvo Shakespeare, non sapremmo mai immaginare.
Il racconto più straordinario narrato dalla Storia è la morte di Alessandro Magno: appunto perché Alessandro non era un semplice potente terreno, ma un personaggio mitico che imitava gli dèi, i semidei e gli eroi. Alla fine del maggio del 323, si ammalò, dopo essere stato perseguitato dai segni. A Babilonia, non lontano da Baghdad, la nave lo trasportava da una riva all´altra dell´Eufrate: ora nel Paradiso di Nabucodonosor, ora nella reggia del re. Si faceva condurre sino al tempio: lì sacrificava agli dèi, sebbene ogni giorno si alzasse con più pena dalla barella. Il 7 giugno non aveva più voce.
Quando i generali entrarono nelle sue stanze, li riconobbe, ma non poté rivolgere una parola a nessuno di loro. Quando i soldati vollero rivederlo, le porte del palazzo furono spalancate; e tutti i soldati sfilarono in silenzio davanti al suo letto. Egli li salutò in silenzio, uno per uno, muovendo il capo a fatica e facendo un cenno cogli occhi, come se cercasse di accogliere per l´ultima volta nella memoria quei volti che stavano per abbandonarlo. La sera del 10 giugno morì. Il palazzo risuonò di lamenti e di singhiozzi: i paggi, incapaci di contenere il dolore, vagavano piangendo per le strade di Babilonia. Poi, tutto tacque: il silenzio più cupo e immobile regnò sopra la reggia e la città, come sopra una vasta solitudine deserta. Quando giunse la notte, un terrore misterioso si diffuse dovunque.
Nessuno tra i potenti che lo imitarono conobbe quella grandezza: i riti, la sfilata dei soldati, il cenno del capo, il silenzio della città, il terrore della notte. Forse solo la morte di Stalin fu sfiorata, nei tempi moderni, da un soffio di grandezza immensamente più sinistra. Durante la vita, aveva fatto uccidere nemici, amici, confidenti, seguaci, generali, scrittori, inviando decine di milioni di uomini nelle tundre e nei ghiacci della Siberia, dove ogni inverno il pino nano si piegava al suolo sotto la violenza del vento rialzandosi all´improvviso dal suolo ai primissimi sentori della primavera.
Stalin riuscì a compiere una specie di miracolo: sebbene fosse il più grande Massacratore della storia, era amato, come un padre mite, persino dai figli e dai parenti di molte tra le sue vittime. Lasciava cadere sui milioni di sudditi che si agitavano ai suoi piedi, sui sudditi che aveva ucciso, e su quelli che avrebbero continuato a adorarlo, un sorriso stranamente amoroso.
Nessun sorriso umano fu, forse, così dolce, come quel sorriso nutrito di sangue. Così, il giorno dei suoi funerali, folle di russi si accalcarono dietro la sua bara: volevano toccare quel corpo sacro; e si calpestarono e schiacciarono a migliaia, per sfiorare l´ombra di chi li aveva uccisi.
In questi giorni, è caduto Saddam Hussein. Sappiamo, o crediamo di sapere, tutto sulla sua caduta. Negli anni di potere, aveva ripetuto nel modo più grottesco i gesti di Tamerlano, facendo costruire in tutte le città dell´Iraq centinaia di "palazzi presidenziali", cattive imitazioni hollywoodiane dei palazzi dei Califfi delle Mille e una notte, con marmi, ori, tarsie colorate, colonne assire e iraniche, giardini, bagni decorati d´oro e di lapislazzuli.
Pochi giorni fa, è stato ritrovato vicino a una casupola: sporca come un pollaio con una branda di ferro, una stufa, un frigorifero, un divano sfondato, un paio di scarpe nuove, uno specchio; una bombola a gas, bucce di mele e di pere, due tavolette di cioccolato, rifiuti, galline che razzolavano.
Era nascosto in una fossa lunga e larga come il corpo di un uomo. Nemmeno un ricordo degli splendori di una volta: solo qualche palma e qualche melograno richiamavano la bellezza del mondo.
Nella casupola, Saddam conservava una raccolta di poesie arabe, di cui non sappiamo niente; e un libro sull´interpretazione dei sogni (certo non quello di Freud), che doveva servirgli a interpretare gli incubi che lo ossessionavano. Soprattutto, conservava una traduzione araba di Delitto e castigo di Dostoevskij. Nei suoi ultimi mesi di libertà, Saddam ha dunque letto la storia di Raskol´nikov, forse per la prima volta. Chissà che impressione gli ha fatto. Se ha compreso la mente vuota di Raskol´nikov: la sua condizione di Straniero: il suo odio verso gli uomini, tutti egualmente disgustosi: il suo ghigno: il suo sogno di gloria napoleonica; e se ha capito che il suo desiderio di uccidere la vecchia usuraia era lo stesso desiderio di assassinio, che lo portava a sterminare milioni di nemici e di sudditi.
Sarebbe bello sapere se Saddam ha compreso anche la pietà infinita, illimitata, senza amore, che Raskol´nikov provava per gli uomini e gli animali, ma non gli impediva di trucidare con le proprie mani «una povera creatura mansueta» come Lizaveta, la sorella dell´usuraia.
A Bagdad, dopo aver visto Saddam sporco e con la barba lunga, un vecchio sciita ha ricordato un proverbio arabo: «Bisogna rispettare i potenti che cadono in disgrazia». Ho sempre ammirato l´antica saggezza araba. Ma, forse, bisogna «rispettare i potenti che cadono in disgrazia» (così completa la saggezza cristiana), perché ognuno di loro è l´immagine di ciascuno di noi: sempre sull´orlo dell´abisso, sempre a un passo dal fallimento e dal disastro definitivi.
Non ho mai capito la storia. Non so perché gli eventi si preparino, accadano, precipitino, si dissolvano: formando ora un disegno armonioso, un tappeto dai mille colori che si corrispondono, ora una catastrofe senza linea né colori.
Non so chi regga le fila: se Qualcuno o Alcuni (così pensano i credenti), i quali conducono la storia verso una meta, che qualche volta conoscono ma più spesso ignorano.
Oppure gli uomini, sebbene sembri difficile attribuire agli uomini - questi «gattini ciechi», diceva Stalin - la capacità di individuare mete e fini. Oppure non ci sia niente: né dèi né uomini; ma solo una quantità infinita e assurda di casi, che per qualche ragione incomprensibile si dispongono come i capitoli di un romanzo.
Quale sia la spiegazione, la Storia rivela una fantasia grandiosa, clamorosa e spettacolare. Solo un uomo ha posseduto questa fantasia: Shakespeare; e ha rappresentato meravigliosamente personaggi e fatti storici, avvenuti in un tempo e in un luogo. Sebbene la Storia racconti moltissime commedie, e ami tipi diversissimi di scenografie e di metamorfosi, predilige fra tutte una vicenda: la Morte o la Caduta dei Potenti. Le nostre vicende comuni le interessano poco: ma appena un potente declina e cade, nel silenzio o nel frastuono, la Storia mette in scena uno dei suoi grandi spettacoli, che noi uomini, salvo Shakespeare, non sapremmo mai immaginare.
Il racconto più straordinario narrato dalla Storia è la morte di Alessandro Magno: appunto perché Alessandro non era un semplice potente terreno, ma un personaggio mitico che imitava gli dèi, i semidei e gli eroi. Alla fine del maggio del 323, si ammalò, dopo essere stato perseguitato dai segni. A Babilonia, non lontano da Baghdad, la nave lo trasportava da una riva all´altra dell´Eufrate: ora nel Paradiso di Nabucodonosor, ora nella reggia del re. Si faceva condurre sino al tempio: lì sacrificava agli dèi, sebbene ogni giorno si alzasse con più pena dalla barella. Il 7 giugno non aveva più voce.
Quando i generali entrarono nelle sue stanze, li riconobbe, ma non poté rivolgere una parola a nessuno di loro. Quando i soldati vollero rivederlo, le porte del palazzo furono spalancate; e tutti i soldati sfilarono in silenzio davanti al suo letto. Egli li salutò in silenzio, uno per uno, muovendo il capo a fatica e facendo un cenno cogli occhi, come se cercasse di accogliere per l´ultima volta nella memoria quei volti che stavano per abbandonarlo. La sera del 10 giugno morì. Il palazzo risuonò di lamenti e di singhiozzi: i paggi, incapaci di contenere il dolore, vagavano piangendo per le strade di Babilonia. Poi, tutto tacque: il silenzio più cupo e immobile regnò sopra la reggia e la città, come sopra una vasta solitudine deserta. Quando giunse la notte, un terrore misterioso si diffuse dovunque.
Nessuno tra i potenti che lo imitarono conobbe quella grandezza: i riti, la sfilata dei soldati, il cenno del capo, il silenzio della città, il terrore della notte. Forse solo la morte di Stalin fu sfiorata, nei tempi moderni, da un soffio di grandezza immensamente più sinistra. Durante la vita, aveva fatto uccidere nemici, amici, confidenti, seguaci, generali, scrittori, inviando decine di milioni di uomini nelle tundre e nei ghiacci della Siberia, dove ogni inverno il pino nano si piegava al suolo sotto la violenza del vento rialzandosi all´improvviso dal suolo ai primissimi sentori della primavera.
Stalin riuscì a compiere una specie di miracolo: sebbene fosse il più grande Massacratore della storia, era amato, come un padre mite, persino dai figli e dai parenti di molte tra le sue vittime. Lasciava cadere sui milioni di sudditi che si agitavano ai suoi piedi, sui sudditi che aveva ucciso, e su quelli che avrebbero continuato a adorarlo, un sorriso stranamente amoroso.
Nessun sorriso umano fu, forse, così dolce, come quel sorriso nutrito di sangue. Così, il giorno dei suoi funerali, folle di russi si accalcarono dietro la sua bara: volevano toccare quel corpo sacro; e si calpestarono e schiacciarono a migliaia, per sfiorare l´ombra di chi li aveva uccisi.
In questi giorni, è caduto Saddam Hussein. Sappiamo, o crediamo di sapere, tutto sulla sua caduta. Negli anni di potere, aveva ripetuto nel modo più grottesco i gesti di Tamerlano, facendo costruire in tutte le città dell´Iraq centinaia di "palazzi presidenziali", cattive imitazioni hollywoodiane dei palazzi dei Califfi delle Mille e una notte, con marmi, ori, tarsie colorate, colonne assire e iraniche, giardini, bagni decorati d´oro e di lapislazzuli.
Pochi giorni fa, è stato ritrovato vicino a una casupola: sporca come un pollaio con una branda di ferro, una stufa, un frigorifero, un divano sfondato, un paio di scarpe nuove, uno specchio; una bombola a gas, bucce di mele e di pere, due tavolette di cioccolato, rifiuti, galline che razzolavano.
Era nascosto in una fossa lunga e larga come il corpo di un uomo. Nemmeno un ricordo degli splendori di una volta: solo qualche palma e qualche melograno richiamavano la bellezza del mondo.
Nella casupola, Saddam conservava una raccolta di poesie arabe, di cui non sappiamo niente; e un libro sull´interpretazione dei sogni (certo non quello di Freud), che doveva servirgli a interpretare gli incubi che lo ossessionavano. Soprattutto, conservava una traduzione araba di Delitto e castigo di Dostoevskij. Nei suoi ultimi mesi di libertà, Saddam ha dunque letto la storia di Raskol´nikov, forse per la prima volta. Chissà che impressione gli ha fatto. Se ha compreso la mente vuota di Raskol´nikov: la sua condizione di Straniero: il suo odio verso gli uomini, tutti egualmente disgustosi: il suo ghigno: il suo sogno di gloria napoleonica; e se ha capito che il suo desiderio di uccidere la vecchia usuraia era lo stesso desiderio di assassinio, che lo portava a sterminare milioni di nemici e di sudditi.
Sarebbe bello sapere se Saddam ha compreso anche la pietà infinita, illimitata, senza amore, che Raskol´nikov provava per gli uomini e gli animali, ma non gli impediva di trucidare con le proprie mani «una povera creatura mansueta» come Lizaveta, la sorella dell´usuraia.
A Bagdad, dopo aver visto Saddam sporco e con la barba lunga, un vecchio sciita ha ricordato un proverbio arabo: «Bisogna rispettare i potenti che cadono in disgrazia». Ho sempre ammirato l´antica saggezza araba. Ma, forse, bisogna «rispettare i potenti che cadono in disgrazia» (così completa la saggezza cristiana), perché ognuno di loro è l´immagine di ciascuno di noi: sempre sull´orlo dell´abisso, sempre a un passo dal fallimento e dal disastro definitivi.