Alef
05-07-2010, 18:58
L'INCHIESTA
Liti, veti incrociati e tagli
così fallisce l'Expo 2015
Milano, tre manager cambiati e nemmeno un'opera iniziata. Scontro sui
terreni tra Moratti e Formigoni: sullo sfondo le mire dei ciellini
Mancano i soldi e Tremonti, scettico da sempre, ha tagliato tutto il
tagliabile. Berlusconi non se ne occupa più, convinto che dopo di lui ci
sarà il diluvio
di CURZIO MALTESE
MILANO - "Cialtroni!", tuona Giulio Tremonti da Sondrio quando parla dei
governatori del Sud, incapaci di spendere i finanziamenti europei. "Ghe
pensi mi" è lo slogan preferito del presidente Berlusconi, la modernità
milanese fatta mito. "Roma ladrona" è l'anatema scagliato da Umberto
Bossi da Gemonio contro i parassiti nemici del federalismo. Non passa
giorno, ora, telegiornale, senza che il governo non metta in scena la
sua vera, unica ideologia: l'efficientismo meneghino. E allora come la
mettiamo con la figura da cioccolatai che Milano sta rimediando nel
mondo con l'Expo del 2015? La fotografia di gruppo del trionfo parigino
del 31 marzo 2008, la vittoria su Smirne, campeggia nell'ufficio del
sindaco Letizia Moratti.
Tutti in festa, dalla Moratti a Formigoni, da Prodi a D'Alema, da Emma
Bonino ai testimonial Al Gore, Jacques Attali, Andrea Bocelli, Clarence
Seedorf, e chi più ne ha, più ne metta. Un mega party per festeggiare le
magnifiche e progressive sorti della rinascita di Milano, della Fiera,
di Malpensa, la grande occasione di una capitale europea che da
vent'anni campava di chiacchiere e distintivo, mentre le altre, da
Siviglia a Francoforte, da Londra a Berlino, si muovono, cambiano,
crescono, fanno affari.
Due anni e mezzo dopo, l'unica cosa positiva rimane quella foto. Trenta
mesi e un mare di soldi buttati via in guerre di poltrone. Tre
amministratori delegati cambiati, prima l'inutile Paolo Glisenti messo
dalla Moratti (il "Rasputin della Bovisa", fu la memorabile definizione
di Guido Rossi), poi il rovinoso Lucio Stanca voluto da Berlusconi e ora
il city manager Giuseppe Sala, senza che Milano 2015 abbia realizzato e
neppure cominciato una sola opera, non l'autostrada Pedemontana, non una delle due linee di metropolitana previste, non un albergo, un museo, una casetta del villaggio d'accoglienza, il centro stampa, la sede Rai. Non
parliamo poi della moschea che la Lega insorge o delle leggendarie vie
d'acqua o dei nuovi parchi nella città più inquinata d'Europa: miraggi.
Nemmeno un accenno d'intervento pubblico si scorge a occhio nudo
sull'area di un milione e passa di metri quadrati di Rho Pero destinata
a ospitare i fantomatici, almeno oggi, "trenta milioni di visitatori".
Tranne i cartelli, ormai comici, con la scritta "Qui sorgerà Milano
2015", che campeggiano sulla distesa di terreni agricoli intonsi.
Ma quando, dove, con i soldi di chi? Le aree sono ancora in mano
dell'Ente Fiera e del gruppo Cabassi, in attesa che il Comune, la
Regione, la Provincia, Assolombarda, la Camera di Commercio, il
Ministero del Tesoro e il governo, insomma Moratti, Formigoni,
Berlusconi, la Lega e la community business milanese riescano a trovare
un dannato accordo, un giorno solo in cui diranno la stessa cosa,
avanzeranno una proposta condivisa. Ne sono passati più di ottocento e
quel giorno non è ancora arrivato. Una prova? L'altro ieri Letizia
Moratti ha escogitato l'ennesima proposta per le aree dell'Expo, alla
media di una al mese. Stavolta il sindaco propone di non acquistare le
aree di Fiera-Cabassi, ma di ottenerle in comodato d'uso per sei anni,
quindi di restituirle valorizzate ai proprietari una volta smontato
l'ultimo stand. Sembra un'idea finalmente ragionevole, in tempi di
crisi, ma a Formigoni non piace. Il governatore vuol comprare le aree a
tutti i costi, per essere precisi al costo di 200-250 milioni, uno
sproposito per un terreno agricolo. Ma in compenso un magnifico affare
per gli amici ciellini dell'Ente Fiera.
Non bastasse, arriva la Lega, nella persona del ministro Roberto
Calderoli, con una terza ipotesi, non comprare nulla, non usare terreni
privati, ma organizzare l'Expo con le strutture fieristiche già
esistenti. E questa è soltanto la versione Calderoli, che incarna la
corrente bergamasca alla successione di Bossi. Perché i varesotti, i
fedelissimi del capo, la pensano come il consigliere d'amministrazione
leghista dell'Expo, Leonardo Carioni: "Forse sarebbe meglio lasciar
perdere tutta 'sta storia e concentrarsi a riparare le buche nelle
strade". L'asse Bossi-Tremonti è Expo scettico da sempre. Se fosse per
il Tesoro non si farebbe proprio. "Non vedo perché tanti cinesini
dovrebbero venire a vedere l'Expo di Milano", ha sfottuto Tremonti, il
quale, con coerenza, nella finanziaria ha tagliato all'evento tutto il
tagliabile. Bossi ha dato ai suoi un solo, saggio consiglio: "Non
firmate niente, perché poi la Corte dei Conti chiede i soldi a voi".
La Lega, a onor del vero, è stata l'unica forza politica a rilevare fin
dal principio l'anomalia, unica della storia, di un Expo progettato su
terreni privati e non pubblici. Con tutti i rischi connessi, in una
città ormai in mano al conflitto d'interessi e a bande di affaristi che
nella migliore delle ipotesi viaggiano sotto le sigle poco rassicuranti
della Compagnie delle Opere e del gruppo Ligresti, e nella peggiore
portano dritti ai clan della 'ndrangheta. Ma così, col fuoco perenne dei
veti incrociati, il gioco dell'Oca dell'Expo torna ogni volta alla
casella di partenza, alla foto di gruppo del 28 marzo 2008.
E il grande capo, Silvio Berlusconi? Il signore di Milano è passato in
un amen dalla fase "ghe pensi mi" a quella "vedetevela voi". I lunedì di
Arcore, dove il signore suole dirimere le beghe fra vavassori, sono
stati una catastrofe. L'ultima volta il comitato Expo è salito al
completo in villa, con la Moratti e l'energica leader degli industriali
Diana Bracco in testa, per illustrare al Cavaliere, circondato dai
consiglieri, da Letta a Confalonieri, tutto lo splendore ecologista del
progetto di orto globale ("nutriamo il mondo, energia pulita") elaborato
da Carlin Petrini e da un pugno di archistar guidato da Stefano Boeri.
Ma a metà della fiabesca narrazione ambientalista - il progetto è
filosoficamente assai bello - il Cavaliere ha preso visibilmente ad
assopirsi, per risvegliarsi soltanto alla magica parola "hostess". Qui
Berlusconi ha allestito uno show sui due argomenti preferiti, il secondo
era il ruolo della televisione, quindi ha congedato la comitiva con
grandi parole di ottimismo.
Il fatto è uno, anzi due. Il primo è che nessun presidente del consiglio
si è così tanto disinteressato della capitale economica del Paese quanto
Berlusconi. Un paradosso straordinario. I vent'anni in cui Milano ha
espresso il leader politico più potente dal dopoguerra a oggi,
coincidono con il più lungo periodo di assenza della politica nella
storia cittadina. Da Tangentopoli ai giorni nostri, Milano è diventata
una palude levantina, una città paralizzata di fronte al proprio
declino. Dove il potente e decisionista Duca di Milano, come lo chiamava
Gianni Brera, non ha deciso e governato un bel nulla. Si è limitato ad
autorizzare, attraverso il vicerè locale Bruno Ermolli, l'ulteriore e
spietata cementificazione della città. A partire dalla bella Isola, il
quartiere in cui Berlusconi stesso è nato, in via Volturno, davanti alla
sede del Pci milanese, circostanza all'origine di tanti traumi.
L'altro fatto è che Berlusconi al 2015 pensa di non arrivarci ed è
convinto che dopo di lui ci sarà comunque il diluvio. Mentre i
feudatari, Formigoni e Tremonti su tutti, pensano di arrivare dopo
Berlusconi. I lettori decidano se era meglio il diluvio. Ma in ogni caso
la lotta alla successione di Berlusconi fra l'asse Formigoni-Cl e quello
Tremonti-Lega, con ai margini vaghe speranza morattiane, spiega meglio
d'ogni altra cosa il pasticciaccio dell'Expo.
È una guerra di feudatari impazziti, troppo concentrati sulle proprie
ambizioni per capire la reale posta in gioco, il prestigio di Milano nel
mondo. Vale a dire, il prestigio dell'Italia. Perché quale altro
prestigio rimane al Belpaese? La grande Milano rappresenta ancora un
quarto del Pil, il quaranta per cento degli investimenti stranieri in
Italia, la meta di un viaggio d'affari su due, la capitale nazionale
della finanza e mondiale della moda, del design, della lirica. I
milanesi certo ormai sanno che l'età dell'oro è alle spalle, che il Pil
cittadino è in calo da dieci anni, la Fiera è in crisi, la moda perde
colpi, Malpensa è un Vietnam del trasporto aereo, la Scala e il Piccolo
boccheggiano sotto i tagli alla cultura, le opere pubbliche sono ferme
da vent'anni. L'Expo doveva essere la svolta e invece rischia di
proiettare nel mondo l'immagine di una capitale del declino italiano.
(05 luglio 2010)
:p
Liti, veti incrociati e tagli
così fallisce l'Expo 2015
Milano, tre manager cambiati e nemmeno un'opera iniziata. Scontro sui
terreni tra Moratti e Formigoni: sullo sfondo le mire dei ciellini
Mancano i soldi e Tremonti, scettico da sempre, ha tagliato tutto il
tagliabile. Berlusconi non se ne occupa più, convinto che dopo di lui ci
sarà il diluvio
di CURZIO MALTESE
MILANO - "Cialtroni!", tuona Giulio Tremonti da Sondrio quando parla dei
governatori del Sud, incapaci di spendere i finanziamenti europei. "Ghe
pensi mi" è lo slogan preferito del presidente Berlusconi, la modernità
milanese fatta mito. "Roma ladrona" è l'anatema scagliato da Umberto
Bossi da Gemonio contro i parassiti nemici del federalismo. Non passa
giorno, ora, telegiornale, senza che il governo non metta in scena la
sua vera, unica ideologia: l'efficientismo meneghino. E allora come la
mettiamo con la figura da cioccolatai che Milano sta rimediando nel
mondo con l'Expo del 2015? La fotografia di gruppo del trionfo parigino
del 31 marzo 2008, la vittoria su Smirne, campeggia nell'ufficio del
sindaco Letizia Moratti.
Tutti in festa, dalla Moratti a Formigoni, da Prodi a D'Alema, da Emma
Bonino ai testimonial Al Gore, Jacques Attali, Andrea Bocelli, Clarence
Seedorf, e chi più ne ha, più ne metta. Un mega party per festeggiare le
magnifiche e progressive sorti della rinascita di Milano, della Fiera,
di Malpensa, la grande occasione di una capitale europea che da
vent'anni campava di chiacchiere e distintivo, mentre le altre, da
Siviglia a Francoforte, da Londra a Berlino, si muovono, cambiano,
crescono, fanno affari.
Due anni e mezzo dopo, l'unica cosa positiva rimane quella foto. Trenta
mesi e un mare di soldi buttati via in guerre di poltrone. Tre
amministratori delegati cambiati, prima l'inutile Paolo Glisenti messo
dalla Moratti (il "Rasputin della Bovisa", fu la memorabile definizione
di Guido Rossi), poi il rovinoso Lucio Stanca voluto da Berlusconi e ora
il city manager Giuseppe Sala, senza che Milano 2015 abbia realizzato e
neppure cominciato una sola opera, non l'autostrada Pedemontana, non una delle due linee di metropolitana previste, non un albergo, un museo, una casetta del villaggio d'accoglienza, il centro stampa, la sede Rai. Non
parliamo poi della moschea che la Lega insorge o delle leggendarie vie
d'acqua o dei nuovi parchi nella città più inquinata d'Europa: miraggi.
Nemmeno un accenno d'intervento pubblico si scorge a occhio nudo
sull'area di un milione e passa di metri quadrati di Rho Pero destinata
a ospitare i fantomatici, almeno oggi, "trenta milioni di visitatori".
Tranne i cartelli, ormai comici, con la scritta "Qui sorgerà Milano
2015", che campeggiano sulla distesa di terreni agricoli intonsi.
Ma quando, dove, con i soldi di chi? Le aree sono ancora in mano
dell'Ente Fiera e del gruppo Cabassi, in attesa che il Comune, la
Regione, la Provincia, Assolombarda, la Camera di Commercio, il
Ministero del Tesoro e il governo, insomma Moratti, Formigoni,
Berlusconi, la Lega e la community business milanese riescano a trovare
un dannato accordo, un giorno solo in cui diranno la stessa cosa,
avanzeranno una proposta condivisa. Ne sono passati più di ottocento e
quel giorno non è ancora arrivato. Una prova? L'altro ieri Letizia
Moratti ha escogitato l'ennesima proposta per le aree dell'Expo, alla
media di una al mese. Stavolta il sindaco propone di non acquistare le
aree di Fiera-Cabassi, ma di ottenerle in comodato d'uso per sei anni,
quindi di restituirle valorizzate ai proprietari una volta smontato
l'ultimo stand. Sembra un'idea finalmente ragionevole, in tempi di
crisi, ma a Formigoni non piace. Il governatore vuol comprare le aree a
tutti i costi, per essere precisi al costo di 200-250 milioni, uno
sproposito per un terreno agricolo. Ma in compenso un magnifico affare
per gli amici ciellini dell'Ente Fiera.
Non bastasse, arriva la Lega, nella persona del ministro Roberto
Calderoli, con una terza ipotesi, non comprare nulla, non usare terreni
privati, ma organizzare l'Expo con le strutture fieristiche già
esistenti. E questa è soltanto la versione Calderoli, che incarna la
corrente bergamasca alla successione di Bossi. Perché i varesotti, i
fedelissimi del capo, la pensano come il consigliere d'amministrazione
leghista dell'Expo, Leonardo Carioni: "Forse sarebbe meglio lasciar
perdere tutta 'sta storia e concentrarsi a riparare le buche nelle
strade". L'asse Bossi-Tremonti è Expo scettico da sempre. Se fosse per
il Tesoro non si farebbe proprio. "Non vedo perché tanti cinesini
dovrebbero venire a vedere l'Expo di Milano", ha sfottuto Tremonti, il
quale, con coerenza, nella finanziaria ha tagliato all'evento tutto il
tagliabile. Bossi ha dato ai suoi un solo, saggio consiglio: "Non
firmate niente, perché poi la Corte dei Conti chiede i soldi a voi".
La Lega, a onor del vero, è stata l'unica forza politica a rilevare fin
dal principio l'anomalia, unica della storia, di un Expo progettato su
terreni privati e non pubblici. Con tutti i rischi connessi, in una
città ormai in mano al conflitto d'interessi e a bande di affaristi che
nella migliore delle ipotesi viaggiano sotto le sigle poco rassicuranti
della Compagnie delle Opere e del gruppo Ligresti, e nella peggiore
portano dritti ai clan della 'ndrangheta. Ma così, col fuoco perenne dei
veti incrociati, il gioco dell'Oca dell'Expo torna ogni volta alla
casella di partenza, alla foto di gruppo del 28 marzo 2008.
E il grande capo, Silvio Berlusconi? Il signore di Milano è passato in
un amen dalla fase "ghe pensi mi" a quella "vedetevela voi". I lunedì di
Arcore, dove il signore suole dirimere le beghe fra vavassori, sono
stati una catastrofe. L'ultima volta il comitato Expo è salito al
completo in villa, con la Moratti e l'energica leader degli industriali
Diana Bracco in testa, per illustrare al Cavaliere, circondato dai
consiglieri, da Letta a Confalonieri, tutto lo splendore ecologista del
progetto di orto globale ("nutriamo il mondo, energia pulita") elaborato
da Carlin Petrini e da un pugno di archistar guidato da Stefano Boeri.
Ma a metà della fiabesca narrazione ambientalista - il progetto è
filosoficamente assai bello - il Cavaliere ha preso visibilmente ad
assopirsi, per risvegliarsi soltanto alla magica parola "hostess". Qui
Berlusconi ha allestito uno show sui due argomenti preferiti, il secondo
era il ruolo della televisione, quindi ha congedato la comitiva con
grandi parole di ottimismo.
Il fatto è uno, anzi due. Il primo è che nessun presidente del consiglio
si è così tanto disinteressato della capitale economica del Paese quanto
Berlusconi. Un paradosso straordinario. I vent'anni in cui Milano ha
espresso il leader politico più potente dal dopoguerra a oggi,
coincidono con il più lungo periodo di assenza della politica nella
storia cittadina. Da Tangentopoli ai giorni nostri, Milano è diventata
una palude levantina, una città paralizzata di fronte al proprio
declino. Dove il potente e decisionista Duca di Milano, come lo chiamava
Gianni Brera, non ha deciso e governato un bel nulla. Si è limitato ad
autorizzare, attraverso il vicerè locale Bruno Ermolli, l'ulteriore e
spietata cementificazione della città. A partire dalla bella Isola, il
quartiere in cui Berlusconi stesso è nato, in via Volturno, davanti alla
sede del Pci milanese, circostanza all'origine di tanti traumi.
L'altro fatto è che Berlusconi al 2015 pensa di non arrivarci ed è
convinto che dopo di lui ci sarà comunque il diluvio. Mentre i
feudatari, Formigoni e Tremonti su tutti, pensano di arrivare dopo
Berlusconi. I lettori decidano se era meglio il diluvio. Ma in ogni caso
la lotta alla successione di Berlusconi fra l'asse Formigoni-Cl e quello
Tremonti-Lega, con ai margini vaghe speranza morattiane, spiega meglio
d'ogni altra cosa il pasticciaccio dell'Expo.
È una guerra di feudatari impazziti, troppo concentrati sulle proprie
ambizioni per capire la reale posta in gioco, il prestigio di Milano nel
mondo. Vale a dire, il prestigio dell'Italia. Perché quale altro
prestigio rimane al Belpaese? La grande Milano rappresenta ancora un
quarto del Pil, il quaranta per cento degli investimenti stranieri in
Italia, la meta di un viaggio d'affari su due, la capitale nazionale
della finanza e mondiale della moda, del design, della lirica. I
milanesi certo ormai sanno che l'età dell'oro è alle spalle, che il Pil
cittadino è in calo da dieci anni, la Fiera è in crisi, la moda perde
colpi, Malpensa è un Vietnam del trasporto aereo, la Scala e il Piccolo
boccheggiano sotto i tagli alla cultura, le opere pubbliche sono ferme
da vent'anni. L'Expo doveva essere la svolta e invece rischia di
proiettare nel mondo l'immagine di una capitale del declino italiano.
(05 luglio 2010)
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