das
09-05-2010, 13:52
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201005articoli/54787girata.asp
Presidente Ciampi, ma uno come lei che l’euro l’ha fatto con le sue mani, da ministro del Tesoro, poi da presidente del Consiglio e da Presidente della Repubblica, si aspettava una crisi così forte e improvvisa della moneta comune?
«Potrei risponderle di no, o almeno non di queste dimensioni. Ma se ripenso ai giorni in cui l’euro fu deciso, devo essere sincero: ci eravamo ripromessi, tutti quanti i rappresentanti dei Paesi dell’Unione Europea che avevano deciso di dar vita al sistema della moneta unica, di adoperarci per un più forte coordinamento delle politiche economiche dei governi. Avevamo la sensazione, chiarissima, che non sarebbe bastato il rispetto di ciascuno di noi per la disciplina che avevamo scelto, il famoso tre per cento del rapporto tra pil e debito pubblico imposto da Maastricht. Occorreva anche continuare il lavoro comune per far sì che insieme con il comportamento virtuoso dei singoli, necessario per restare all’interno del sistema, si facesse strada una forma di collaborazione più intensa e continuativa, dalla quale l’Unione Europea nel suo complesso sarebbe uscita rafforzata».
Fino ad approdare a quell’unione politica, e federale, agli Stati Uniti d’Europa, che in quell’epoca era lecito sognare e che invece nel tempo si sono rivelati un obiettivo molto più difficile da raggiungere? «L’auspicio era questo. Anche se a Bruxelles, quando l’euro fu varato, si parlava solo di moneta unica e di coordinamento delle politiche economiche. C’era un nesso evidente tra la decisione di entrare in un’epoca nuova, superando le difficoltà, e anche qualche diffidenza, che fino all’ultimo rischiavano di compromettere tutto, e l’impegno a fare in modo che il legame tra i diversi partners fondato sulla moneta unica si sviluppasse con comportamenti coerenti, dei quali tutti dovevano essere al contempo responsabili e garanti. È esattamente questo che è mancato o non è andato come si sperava. Ed è per questo che oggi ci troviamo a fronteggiare questa brutta crisi».
C'è qualcuno più colpevole degli altri? In altre parole, condivide ciò che dice chi, come il suo successore al ministero del Tesoro Visco, sostiene che la Grecia, al tavolo delle trattative, raccontò qualche balla, e qualcuno se n’era pure accorto, ma si decise di passarci sopra lo stesso? «È vero che l’istruttoria fu molto severa per il primo gruppo di Paesi candidati, compresi noi italiani, che dovemmo fare una delle manovre più dure della storia dal Dopoguerra, per entrare nei requisiti richiesti dal sistema. E che invece al momento dell’allargamento ci fu meno severità: in questo senso, non solo la Grecia ma anche altri Paesi era chiaro che entravano firmando una serie di obblighi che dovevano rispettare e di tappe successive che nel tempo non hanno raggiunto. Proprio perché molti di noi dovettero affrontare sacrifici importanti, oggi dovremmo chiederci se sarebbe stato meglio non essere di manica larga. E se questa è la domanda, la risposta è senz’altro sì. Il rigore avrebbe dovuto essere lo stesso per tutti».
Sta dicendo che l’ampliamento del numero dei Paesi entrati nell’euro è stato un errore? «Credo di sì. Sarebbe stato un rischio calcolato se, come le dicevo prima, insieme con l’euro fosse andato avanti il rafforzamento della collaborazione e del coordinamento in fatto di politiche economiche. Cosa che purtroppo non è avvenuta con le conseguenze che vediamo».
Presidente Ciampi, quanto pesa secondo lei il progressivo indebolimento della rete di rapporti tra i partners dell'Unione? Nei dodici anni di cui parliamo, dal ’98 ad oggi, è inutile nascondersi che l'Europa ha stentato: la Costituzione europea è nata male, è stata subito abbattuta dai referendum che dovevano ratificarla, e ha dovuto essere ridimensionata drasticamente. Il sentimento di coesione della Comunità, anche se è difficile misurarlo, sembra spesso travolto da egoismi e particolarità perfino sub-nazionali. «Se parliamo di politica, non c'è dubbio che in campo europeo si siano fatti passi indietro. È duro ammetterlo, e lo faccio con amarezza. Ma l'Europa come obiettivo non può restare solo un sogno degli europeisti».
Quanto hanno giocato i rapporti personali tra uomini di governo, all'epoca eccellenti, e adesso, non sempre, e non solo per ciò che riguarda noi, meno buoni? «Posso dirle com’erano i rapporti ai miei tempi. Alla fine di un percorso difficile come quello che avevamo fatto, ad esempio, con Theo Waigel e Hans Tietmeyer, i nostri autorevoli interlocutori tedeschi, c’era anche amicizia, oltre che rispetto. Con quelli di oggi non so. Ma al dunque, anche i partners più dubbiosi dovranno rendersi conto di non aver alcuna convenienza a tornare indietro».
Questo vale anche per l’euro? «Certamente. Ed è la ragione per cui, malgrado tutto, sono ottimista».
Lei non crede che, batti e ribatti, oggi la Grecia, domani la Spagna e il Portogallo e dopodomani, Dio non voglia, l’Italia, la speculazione possa averla vinta? «Non lo credo. La speculazione è un fatto che bisogna sempre aver presente. È come una scommessa: chi la fa, certo, spera di vincere, ma intanto guadagna già solo giocandola. Il sistema ha tutti gli strumenti per combattere la speculazione: tanto per cominciare, penso alla Bce. Ma anche i governi, guardi quel che sta accadendo, è come se tutto quel che è mancato finora, d’improvviso fosse diventato evidente. Anche i meno convinti, sanno che l’ingresso nell’euro ha significato per tutti un punto di non ritorno. Siamo come su un aereo che è appena decollato: l’unica cosa da non fare è cercare di riprendere terra. E se possibile, dobbiamo cercare di volare più alto».
Non ho mai avuto granché stima di Ciampi, resta il fatto che la parte in corsivo dell'intervista coglie in pieno l'errore dell'Europa.
Una cosa che mi chiedo è: tutto l'oro che decise di vendere nei primi anni 90 non ci sarebbe stato comodo adesso come ulteriore garanzia sui nostri titoli?
Presidente Ciampi, ma uno come lei che l’euro l’ha fatto con le sue mani, da ministro del Tesoro, poi da presidente del Consiglio e da Presidente della Repubblica, si aspettava una crisi così forte e improvvisa della moneta comune?
«Potrei risponderle di no, o almeno non di queste dimensioni. Ma se ripenso ai giorni in cui l’euro fu deciso, devo essere sincero: ci eravamo ripromessi, tutti quanti i rappresentanti dei Paesi dell’Unione Europea che avevano deciso di dar vita al sistema della moneta unica, di adoperarci per un più forte coordinamento delle politiche economiche dei governi. Avevamo la sensazione, chiarissima, che non sarebbe bastato il rispetto di ciascuno di noi per la disciplina che avevamo scelto, il famoso tre per cento del rapporto tra pil e debito pubblico imposto da Maastricht. Occorreva anche continuare il lavoro comune per far sì che insieme con il comportamento virtuoso dei singoli, necessario per restare all’interno del sistema, si facesse strada una forma di collaborazione più intensa e continuativa, dalla quale l’Unione Europea nel suo complesso sarebbe uscita rafforzata».
Fino ad approdare a quell’unione politica, e federale, agli Stati Uniti d’Europa, che in quell’epoca era lecito sognare e che invece nel tempo si sono rivelati un obiettivo molto più difficile da raggiungere? «L’auspicio era questo. Anche se a Bruxelles, quando l’euro fu varato, si parlava solo di moneta unica e di coordinamento delle politiche economiche. C’era un nesso evidente tra la decisione di entrare in un’epoca nuova, superando le difficoltà, e anche qualche diffidenza, che fino all’ultimo rischiavano di compromettere tutto, e l’impegno a fare in modo che il legame tra i diversi partners fondato sulla moneta unica si sviluppasse con comportamenti coerenti, dei quali tutti dovevano essere al contempo responsabili e garanti. È esattamente questo che è mancato o non è andato come si sperava. Ed è per questo che oggi ci troviamo a fronteggiare questa brutta crisi».
C'è qualcuno più colpevole degli altri? In altre parole, condivide ciò che dice chi, come il suo successore al ministero del Tesoro Visco, sostiene che la Grecia, al tavolo delle trattative, raccontò qualche balla, e qualcuno se n’era pure accorto, ma si decise di passarci sopra lo stesso? «È vero che l’istruttoria fu molto severa per il primo gruppo di Paesi candidati, compresi noi italiani, che dovemmo fare una delle manovre più dure della storia dal Dopoguerra, per entrare nei requisiti richiesti dal sistema. E che invece al momento dell’allargamento ci fu meno severità: in questo senso, non solo la Grecia ma anche altri Paesi era chiaro che entravano firmando una serie di obblighi che dovevano rispettare e di tappe successive che nel tempo non hanno raggiunto. Proprio perché molti di noi dovettero affrontare sacrifici importanti, oggi dovremmo chiederci se sarebbe stato meglio non essere di manica larga. E se questa è la domanda, la risposta è senz’altro sì. Il rigore avrebbe dovuto essere lo stesso per tutti».
Sta dicendo che l’ampliamento del numero dei Paesi entrati nell’euro è stato un errore? «Credo di sì. Sarebbe stato un rischio calcolato se, come le dicevo prima, insieme con l’euro fosse andato avanti il rafforzamento della collaborazione e del coordinamento in fatto di politiche economiche. Cosa che purtroppo non è avvenuta con le conseguenze che vediamo».
Presidente Ciampi, quanto pesa secondo lei il progressivo indebolimento della rete di rapporti tra i partners dell'Unione? Nei dodici anni di cui parliamo, dal ’98 ad oggi, è inutile nascondersi che l'Europa ha stentato: la Costituzione europea è nata male, è stata subito abbattuta dai referendum che dovevano ratificarla, e ha dovuto essere ridimensionata drasticamente. Il sentimento di coesione della Comunità, anche se è difficile misurarlo, sembra spesso travolto da egoismi e particolarità perfino sub-nazionali. «Se parliamo di politica, non c'è dubbio che in campo europeo si siano fatti passi indietro. È duro ammetterlo, e lo faccio con amarezza. Ma l'Europa come obiettivo non può restare solo un sogno degli europeisti».
Quanto hanno giocato i rapporti personali tra uomini di governo, all'epoca eccellenti, e adesso, non sempre, e non solo per ciò che riguarda noi, meno buoni? «Posso dirle com’erano i rapporti ai miei tempi. Alla fine di un percorso difficile come quello che avevamo fatto, ad esempio, con Theo Waigel e Hans Tietmeyer, i nostri autorevoli interlocutori tedeschi, c’era anche amicizia, oltre che rispetto. Con quelli di oggi non so. Ma al dunque, anche i partners più dubbiosi dovranno rendersi conto di non aver alcuna convenienza a tornare indietro».
Questo vale anche per l’euro? «Certamente. Ed è la ragione per cui, malgrado tutto, sono ottimista».
Lei non crede che, batti e ribatti, oggi la Grecia, domani la Spagna e il Portogallo e dopodomani, Dio non voglia, l’Italia, la speculazione possa averla vinta? «Non lo credo. La speculazione è un fatto che bisogna sempre aver presente. È come una scommessa: chi la fa, certo, spera di vincere, ma intanto guadagna già solo giocandola. Il sistema ha tutti gli strumenti per combattere la speculazione: tanto per cominciare, penso alla Bce. Ma anche i governi, guardi quel che sta accadendo, è come se tutto quel che è mancato finora, d’improvviso fosse diventato evidente. Anche i meno convinti, sanno che l’ingresso nell’euro ha significato per tutti un punto di non ritorno. Siamo come su un aereo che è appena decollato: l’unica cosa da non fare è cercare di riprendere terra. E se possibile, dobbiamo cercare di volare più alto».
Non ho mai avuto granché stima di Ciampi, resta il fatto che la parte in corsivo dell'intervista coglie in pieno l'errore dell'Europa.
Una cosa che mi chiedo è: tutto l'oro che decise di vendere nei primi anni 90 non ci sarebbe stato comodo adesso come ulteriore garanzia sui nostri titoli?