dantes76
08-05-2010, 22:07
La prima frase. Basta aver voglia di leggere.
nel 93? oggi che dice?
ps: la volgia c'e' , pero non e' la prima di frase, forse e' meglio che ti rinfreschi tu la memoria; per quanto riguarda il game-over, tu devi inserire le monetine per poter continuare un discorso, visto che lerggi quello che ti conviene, un po come dire che fininvest nasce da cosa nostra, il game-over, almeno per quanto mi riguarda e' rimandato a data da destinarsi, il tuo invece e' uno stato normale.
DonaldDuck
08-05-2010, 22:36
nemmeno io lo posso capire come mai tu possa capire che la Boccassini potesse capire gia' nel 93 quello che succede adesso..
Figliolo...la frase "Quello che gli elettori IDV non vogliono sentirsi dire" non è messa a caso.
Io mi domando...quando voi sostenitori IDV parlate di mafia e vi permettete insinuazioni da codice penale...le ricordate stè cose, vero?
http://www.repubblica.it/online/politica/falcone/falcone/falcone.html
Leoluca Orlando Cascio, nel 1990, sostenne e non fu il solo, soprattutto nella sinistra - che "dentro i cassetti della procura di Palermo ce n'è abbastanza per fare giustizia sui delitti politici". Quei cassetti, dove si insabbiava la verità sulla morte di Mattarella, La Torre, Insalaco, Bonsignore, erano di Falcone. Ritorna l'accusa di Amatucci e Viglietta: Falcone è un "venduto". Delle due l'una, allora. O quelle accuse erano fondate e allora non si beatifichi come eroe un magistrato che ha fatto commercio della sua indipendenza o quelle accuse erano, come sono, calunnie e gli artefici avvertano la necessità di fare pubblica ammenda. In dieci anni, non ho ancora ascoltato una sola autocritica nella magistratura e nella politica.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/09/07/depistaggi-per-macchiare-la-memoria-di.html
' DEPISTAGGI PER MACCHIARE LA MEMORIA DI FALCONE'
Repubblica — 07 settembre 1993 pagina 4
Alla commemorazione di Falcone, il 25 maggio, Ilda Boccassini aveva parlato per un quarto d'ora gelando l'aula. Aveva raccontato dell' amarezza di Falcone che si era visto arrivare richieste di rogatorie monche da parte dei colleghi di Mani pulite. "Non si fidano di me", aveva confidato alla Boccassini che subito dopo la strage non aveva esitato a puntare il dito contro coloro che secondo lei, erano responsabili dell' isolamento in cui si era venuto a trovare Falcone dopo la nomina di Claudio Martelli a ministro. Scontri e battaglie del resto non hanno mai impaurito Ilda Boccassini. Napoletana, sulla soglia dei quarant' anni, ha condotto a Milano alcune delle più importanti inchieste su droga, criminalità organizzata e riciclaggio.
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/01/boccassini-fuori-lui-io.shtml?uuid=7ae9bfd2-eb7a-11dd-804c-e23a7a132034
E Boccassini disse: «Fuori lui o fuori io»
Non tutti i Pubblici ministeri si fanno teleguidare da consulenti alla Genchi, per quanto bravi e preparati possano essere. Nel 1993, Gioacchino Genchi era un dipendente della Polizia di Stato molto abile nell'analisi delle telecomunicazioni. Ma il sostituto procuratore di Milano Ilda Boccassini, fattasi applicare a Caltanissetta per condurre le indagini sulle stragi di Capaci e via d'Amelio fece estromettere Genchi dal gruppo d'indagine Falcone e Borsellino. Perché? «Perché già allora – conferma oggi il Pm milanese – dalle proposte che Genchi avanzava a noi magistrati, ebbi la sgradevole impressione che non stesse lavorando per l'inchiesta ma seguendo sue personali curiosità». E, vedendo che nessuno prendeva decisioni, Boccassini pose il suo aut aut al Procuratore di Caltanissetta: «Fuori lui o me ne vado io», ottenendo che venissero revocati gli incarichi di consulenza affidati al poliziotto di Castelbuono all'inizio dell'indagine sulle stragi del 1992.
http://blog.panorama.it/italia/2009/02/01/caso-genchi-nella-rete-di-interceptor/
Da Castelbuono alla Rete
Genchi Gioacchino da Castelbuono (Palermo) non è un investigatore di paese. Vicequestore in aspettativa sindacale alla questura di Palermo, 49 anni, uomo di grande sicurezza ed ego smisurato, è probabilmente il più abile e intelligente detective informatico d’Italia. Il suo pensiero è sofisticato, la sua conoscenza del software e dell’hardware sorprendente. Il suo talento micidiale ha cominciato a rivelarsi fin dagli anni Ottanta, quando “smanettava” sui primi pc in commercio. Nel 1985 entra in polizia e già dopo tre anni il capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, lo mette alla testa della direzione telecomunicazioni del ministero dell’Interno per la Sicilia occidentale. Carriera fulminante.
Nel 1996 diventa consulente tecnico dell’autorità giudiziaria. Su incarico del Csm tiene corsi di formazione e aggiornamento per magistrati e uditori giudiziari. In breve, Genchi diventa un punto di riferimento: “I risultati del mio lavoro sono consacrati in centinaia di ordinanze, di sentenze e di pronunce alla Corte di cassazione” si vanta sul suo sito web. È vero, ma la sua attività vista in controluce ha più di una zona oscura. Tanto che già nel 1993 Ilda Boccassini, allora sostituto procuratore di Caltanissetta, drizza le antenne e si scontra con Genchi, che all’epoca è il tecnico del pool investigativo sulla strage di Capaci e vuole allargare l’indagine ai contatti telefonici privati e alle carte di credito di Giovanni Falcone. O me o lui, dice “Ilda la rossa”. E la spunta.
http://www.repubblica.it/2009/01/sezioni/politica/giustizia-8/tabulati-genchi/tabulati-genchi.html
Nel 1993, Ilda Boccassini, quando indagava sulla strage di Capaci, non gradì che quel tecnico del pool investigativo si attardasse intorno ai contatti telefonici privati di Giovanni Falcone, che nulla avevano a che fare con l'inchiesta. E quando nel febbraio di quell'anno se lo trovò davanti che proponeva di "trattare" le carte di credito del magistrato ucciso, se ne liberò senza stare troppo a pensarci su. "O me o lui", disse.
"Il fatto è - racconta ancora un altro pubblico ministero - che Genchi arriva da te con un elenco di numeri di telefono che sono entrati in contatto con il cellulare o il telefono fisso del suo indagato. Ti chiede una delega per verificarli. E tu che diavolo ne puoi sapere se tra quei centinaia di numeri ce n'è uno che non ha nulla a che fare con il tuo "caso" e molto con le curiosità di Genchi? Questo è il motivo per cui preferisco non lavorare con lui, che è certamente il solo in Italia a sapere fare quelle analisi dei dati".
La testimonianza di questo PM è talmente credibile che è possibile trovare riscontro in questo scarica-barile tra Genchi e De Magistris.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/01/31/genchi-interrogato-ore-dal-copasir-anche-de.html
Genchi interrogato 7 ore dal Copasir anche De Magistris prende le distanze
Repubblica — 31 gennaio 2009 pagina 9 sezione: POLITICA INTERNA
ROMA - Il pm Luigi De Magistris scarica il suo consulente Gioacchino Genchi e viceversa. L' audizione fiume di ieri al Copasir (l' organismo parlamentare di controllo sui servizi segreti), non ha chiarito affatto il dubbio principale per il quale i due protagonisti dell' inchiesat Why not sono stati convocati. E cioè capire perché sono stati controllati i tabulati telefonici dell' ex capo dell' intelligence militare, Nicolò Pollari, dell' ex capo dell' antiterrorismo degli 007 Marco Mancini e di altri tre agenti segreti. Secondo De Magistris, non sarebbe stato lui ad autorizzare quegli accertamenti delicatissimi. Secondo Genchi, invece, quei tabulati telefonici sarebbero stati acquisiti con una regolare delega e sarebbero frutto di «un' attività trasparente e cristallina». Proprio su questo punto, il 20 febbraio prossimo De Magistris sarà giudicato dalla sezione disciplinare del Csm per aver firmato un' «abnorme delega di indagini» al suo fidato consulente tecnico.
Qualcuno per cortesia mi spiega con precisione cosa intendeva dire Buscetta? Fu Berlusconi a far avverare la profezia?
http://www.repubblica.it/online/politica/falconedue/queigiornidue/queigiornidue.html
Il boss, prima di essere interrogato e rivelare i segreti di Cosa Nostra
lo aveva avvertito: "Ti distruggeranno professionalmente e poi..."
La profezia del pentito Buscetta
Tre anni fa il primo tentativo di ammazzare Giovanni Falcone
di GIUSEPPE D'AVANZO
ROMA - Se c'era una parola, un'accusa che lo feriva era quella parola e quell'accusa che ha dovuto leggere sui giornali, che è risuonata nei convegni, che gli rotolava alle spalle - alle spalle, mai sulla faccia - di essere ormai "andato", di essersi "piegato", di essere ormai - né più né meno - un "reggicoda" del potere politico che voleva - né più né meno - strozzare l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, che voleva - né più né meno - impedire allo Stato di recidere il legame doppio tra mafia e politica.
Erano parole, era un'accusa che aveva dovuto leggere e sentire - alle spalle, mai sulla faccia - dal 13 marzo 1991 quando aveva accettato di diventare direttore degli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia. Gli avevano impedito di essere consigliere istruttore (gli avevano preferito per "anzianità" Antonino Meli), avevano distrutto il pool (era diventato un "centro di potere", avevano detto), avevano smembrato l'inchiesta-collettore su Cosa Nostra ("è un'organizzazione che non ha struttura priramidale", avevano sentenziato). Lo avevano costretto in un ruolo subalterno alla Procura della Repubblica. Aggiunto procuratore, appunto.
Aveva detto di sì a Roma, allora. Lo aveva detto con la disperazione impotente che hanno i meridionali che sono costretti a partire, a emigrare, a lasciare ciò che si ama, i luoghi della memoria, le "radici antropologiche" diceva lui, per ricominciare altrove il discorso che era stato interrotto e che andava completato.
Giovanni Falcone quando parlava della sua Sicilia, della sua Palermo sceglieva un verso: "Nec tecum nec sine te vivere possum". E spiegava quella frase con le parole di Leonardo Sciascia, un altro grande siciliano che non sempre gli fu amico: "Amare una terra e una gente al tempo stesso che si detesta, sentirsi somiglianti e diversi, volere e disvolere, bisogna riconoscere che è un bel guaio. In questo guaio viviamo tutti noi siciliani e un guaio non è mai bello. E' certo più difficile essere siciliani che milanesi. E' forse per questo faccio il lavoro che faccio. Perchè la mafia non è la Sicilia e il siciliano non è un mafioso".
Era questa fiducia in se stesso e nella sua terra e nei siciliani che quelle parole, quell'accusa schiacciava. Giovanni Falcone ne era offeso, umiliato, ma non era uomo (era un siciliano, no?) da darlo a vedere più di tanto. Buttava giù il boccone amaro, prendeva tempo (si versava da bere, si guardava intorno), strizzava gli occhi, sorrideva a labbra strette, alzava le spalle con un gesto nervoso e significativo, più eloquente di qualsiasi parola. Se lo conoscevi bene, potevi notare che c'era una piega amara all'angolo della bocca e una luce triste in quegli occhi che, al contrario, erano sempre vivi e luccicanti di ironia, di passione, di eccitazione "perché c'è tanto da fare e bisogna farlo presto e bene".
Giovanni Falcone, 54 anni, padre funzionario della provincia, madre molto religiosa (della fede sentirà sempre "una nostalgia rispettosa") si era assegnato un compito. Se l'era assegnato molto tempo fa quando, tra le possibili frasi che sceglie ogni ragazzo per orientare (impregnare) la sua vita, lui aveva scelto una - "un po'retorica" ammetteva - di Giuseppe Mazzini. Era questa. Più o meno. Falcone la ricordava così: "La vita è missione e il suo dovere è la legge suprema". La missione che s'era scelto era sconfiggere la mafia, annientare Cosa Nostra. "Fin da bambino - ha raccontato a Marcelle Padovani in un libro (Cose di Cosa Nostra) che è ora, tragicamente, il suo testamento spirituale - avevo respirato giorno dopo giorno aria di mafia, violenza, estorsioni, assassini. C'erano stati poi i grandi processi che si erano conclusi regolarmente con un nulla di fatto. La mia cultura progressista mi faceva inorridire di fronte alla brutalità, agli attentati, alle aggressioni: guardavo a Cosa Nostra, come all'idra dalle sette teste: qualcosa di magmatico, di onnipresente e invincibile, responsabile di tutti i mali del mondo. Nell'atmosfera di quel tempo respiravo anche una cultura 'istituzionale'che negava l'esistenza della mafia e respingeva quanto vi faceva riferimento. Cercare di dare un nome al malessere sociale siciliano equivaleva ad arrendersi agli 'attacchi del Nord'!".
Invece Cosa Nostra si poteva sconfiggere. Giovanni Falcone lo ripeteva da anni. Ogni volta che era possibile e anche, in anni e in luoghi, dove non era possibile. "Chi ha voglia di capire e ha voglia di lavorare - diceva - può farcela. Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso...". Mise da parte l'intenzione di iscriversi a medicina, accantonò l'idea di diventare ufficiale di Marina e, laureato in giurisprudenza, a venticinque anni fece il concorso in magistratura. Giovanni Falcone cominciò a farsi le ossa, come diceva, a Trapani.
"La mafia entrò subito nel raggio dei miei interessi professionali - raccontava - Dieci assassini e la mafia di Marsala dietro le sbarre. Mi indicarono un armadio pieno di pratiche, dicendomi: 'Leggile tutte'. Era il novembre del 1967 e puntuali come un orologio svizzero cominciarono ad arrivarmi cartoline con disegni di bare e di croci. E' una cosa che tocca gli esordienti e non ne rimasi colpito più di tanto". Non era facile da Trapani o da Marsala "avere una visione unitaria del fenomeno mafioso".
Nel 1978 torna a Palermo. Chiese di essere assegnato all'Ufficio istruzione. Lo spediscono al Tribunale fallimentare. Ci resta un anno. Impara a leggere un bilancio, a inseguire i sentieri di un assegno, la discreta presenza di un conto bancario. Impara a orientarsi nei canali finanziari utilizzati da Cosa Nostra per riciclare le ricchezze del narcotraffico. Quando arriva nel pool del consigliere istruttore di Palermo Rocco Chinnici, Falcone sa quel che c'è da fare, sa come farlo. E' in buona compagnia. "Quando Tommaso Buscetta, nel luglio del 1984, ci capita davanti - ricordava - avevamo già quattro anni di lavoro duro alle spalle. Conoscevamo Cosa Nostra nelle sue grandi linee. Ero in grado di capire Buscetta e, quindi, pronto ad interrogarlo". Prima di Masino Buscetta, lo Stato italiano aveva una conoscenza superficiale del fenomeno mafioso. "Con Buscetta abbiamo avuto finalmente una visione globale del fenomeno, delle sue strutture, delle sue tecniche di reclutamento, delle sue funzioni, del suo linguaggio, del suo codice".
Fu Buscetta a dirglielo: "L'avverto, signor giudice. Dopo quest'interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E' sempre del parere di interrogarmi?".
Quando Falcone raccontava le lunghe ore dell'interrogatorio con Buscetta i suoi occhi si illuminavano come devono essersi illuminati in quel benedetto, maledetto giorno in cui finalmente "si avvicinò sull'orlo del precipizio", quando gettò uno sguardo oltre l'omertà, oltre quel muro insuperabile che sempre ha protetto Cosa Nostra. Quasi ridevano quegli occhi. Tornavano ad essere entusiasti. Quasi dicevano (e qualche volta arrivava anche a dirlo): "Ormai ho la chiave per capire, sì ho capito, devo avere ora soltanto gli strumenti per avvicinarmi a quella porta, senza fare passi falsi". Il "passo falso" era la sua ossessione. "Occuparsi di indagini di mafia - diceva - significa procedere su un terreno minato: mai fare un passo prima di essere sicuri di non andare a posare il piede su una mina antiuomo".
Lo diceva ma non si era accorto che già si era incamminato lungo quel sentiero. Come gli aveva anticipato Buscetta, avevano cominciato ad attaccarlo professionalmente. Doveva essere il successore di Rocco Chinnici (ucciso dal tritolo), il Csm gli preferisce burocraticamente Antonino Meli. Negano il suo intero lavoro istruttorio con disprezzo definito il "teorema Buscetta", meglio il "teorema Falcone". Un Corvo lo accusa di aver consegnato licenza d'uccidere al "pentito" Salvatore Contorno. La mafia sistema 50 chili di tritolo sotto la sua casa all'Addaura e nessuno crede all'attentato. C'è chi dice (a Palermo, a Roma): se l'è preparato da solo. Lo accusano di aver "insabbiato" le indagini sui delitti politici. "Corre" per il Csm, lo impallinano i suoi stessi compagni di corrente. Ripiega a Roma, al ministero. Gli dicono che si è inginocchiato al Palazzo.
E' candidato alla Superprocura. Il Csm lo boccia. Sono gli anni amari di Giovanni Falcone. Aveva gli occhi tristi quando ne parlava. Con orgoglio concludeva: "Alla fine, vedrete, la ragione prevarrà". Il terreno, invece, era pronto per l'ultimo atto. La mafia doveva solo presentare il conto. Lo ha presentato ieri. Come aveva previsto Buscetta. Come molti, troppi non hanno voluto prevedere.
(24 maggio 1992)
http://archiviostorico.corriere.it/1996/settembre/01/Gotti_avvocato_che_umanizza_ferocia_co_8_9609013761.shtml
Li Gotti, l' avvocato che " umanizza " la ferocia
1 settembre 1996
Non chiedete a un avvocato cosa pensa della giustizia, Luigi Li Gotti per esempio e' convinto che se si processa un uomo adulto, qualunque uomo adulto, fosse pure il migliore del mondo, quell' uomo alla fine risulterebbe comunque colpevole, e sempre di qualcosa di grave. Percio' gli piace parlare con Buscetta e con Mannoia, "con Buscetta soprattutto, che e' una specie di filosofo, mentre Mannoia e' preciso come un orologio", Brusca invece lo commuove mentre Mutolo lo fa ridere, "perche' e' dissacrante, spiritoso". Come quando si mise a raccontare di quella volta che si fingeva pazzo, e girava per il manicomio con la faccia feroce recitando in siciliano certi appropriati versi della Gerusalemme Liberata: "E' duci ' ncazzarisi, prima d' ammazzari, e dolce e' l' ira in aspettar vendetta". Poi si avvicinava e si presentava: "Tasso Torquato, poeta sorrentino, baciamo le mani".
dantes76
08-05-2010, 22:40
Figliolo...la frase "Quello che gli elettori IDV non vogliono sentirsi dire" non è messa a caso.
infatti, non mi tange la frase, a me tange il paraculismo altrui, figliolo.
Le posizioni che ha preso Idv, sul caso Englaro; [perdonami ma non ho scuderie a cui dare conto e nemmeno mi vendo per 30 denari]; ovvero la liberta' di scelta su di una legge che voleva assicurare la vita eterna a elauna, il lasciar liberta' di voto, su di una legge che limitava la liberta' personale nel decidere il propio destino; erano ben distante dalle mie, e siccome non faccio ne coccode' e ne quak quak, idv, secondo il mio punto di vista e' diventata come gli altri, e fra gli "altri" ci sei pure te..
ora ritorniamo a parlare del paraculismo di alcuni giuda venduti per 30 denari di argento di bassa qualita', ti sei eprso qualcosa, anzi di piu'.
figliolo.
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