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View Full Version : Ci sono Palermo e le stragi del '92 dietro il ritorno alle urne?


dantes76
19-11-2009, 19:55
Ci sono Palermo e le stragi del '92 dietro il ritorno alle urne?
Le Procure maneggiano materiale infiammabile. Gli scenari delle indagini

di Salvatore Parlagreco

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ieri, 18 novembre 2009 12:43

Le cronache hanno dato conto dei processi a carico del presidente del Consiglio, riaperti a causa della bocciatura del Lodo Alfano da parte della Consulta, per le conseguenze che una condanna avrebbe potuto avere sugli equilibri politici ed istituzionali attuali. Le iniziative della maggioranza di governo, tese a determinare un nuovo scudo per il premier – con l’accorciamento dei tempi di prescrizione nel tre gradi di giudizio, il cosiddetto processo breve - hanno lasciato in primo piano i processi milanesi, Mills e Mediaset, sui quali Silvio Berlusconi, in verità, non aveva mostrato di avere alcuna preoccupazione. Non tanto al riguardo dell’esito, quanto alle conseguenze: anche in caso di condanna, ha detto, non mi dimetto.

Le difficoltà a mettere insieme una maggioranza coesa sul processo breve – sono emerse perplessità di varia natura – e le voci di una opzione valutata con serietà dal premier, di un ritorno anticipato alle urne, hanno indotto i commentatori politici a non prestare grande attenzione al disinvolto annuncio sulla permanenza al vertice dell’esecutivo.

Si è data scarsa importanza alle indagini che si svolgono a Caltanissetta, Firenze e Palermo sulle stragi del ’92 e ’93, indagini riaperte dalle rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza e di Salvatore Grigoli, altro killer della mafia siciliana.

Spatuzza, com’è noto, ha spiegato che i fratelli Graviano, boss emergenti in quegli anni, gli raccontarono di avere trovato, nell’entourage di Silvio Berlusconi, ciò che cercavano - protezione per le “famiglie” – grazie alla mediazione di Marcello Dell’Utri, allora braccio destro del premier. Secondo Spatuzza la nascita di Forza Italia avrebbe “rasserenato” i boss che stavano vivendo giornate difficili per la svolta impressa dal governo al trattamento dei processi di mafia.

Queste circostanze sono state decisamente smentite dagli interessati, specie da Marcello dell’Utri, che le ha giudicate, più o meno, farneticanti chiacchiere senza prove, che non potranno essere prese in considerazione dai giudici. Ma il processo d’appello a suo carico è stato in pratica riaperto dalle rivelazioni di Spatuzza, e le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta stanno lavorando a indagini stimolate dalle rivelazioni dei due “pentiti”.

Se i casi Mills e Mediaset hanno una valenza puramente giudiziaria, le indagini delle Procure hanno implicazioni politiche importanti, al di là dell’attendibilità dei collaboratori di giustizia.

Non si capisce fin dove possono arrivare le loro dichiarazioni e le indagini successive. Le preoccupazioni di chi si sente “colpito” dalle accuse dei pentiti - abbia torto ragione a risentirsi - sono comprensibili e spiegano decisioni estreme, come il ritorno alle urne. Il premier, assediato dalle perplessità dei suoi alleati e degli avversari politici, oltre che dalle indagini sulle stragi di Palermo, avrebbe voglia di rimettere al popolo il giudizio sulla sua innocenza. Il popolo è sovrano, se tornerà a votarlo non c’è toga che tenga. E un Parlamento ancora più affidabile dell’attuale, darebbe le risposte “corrette” ai tentativi di destabilizzare il quadro politico attuale.

Piuttosto che sull’attendibilità dei collaboratori, al fine di una migliore comprensione degli eventi, occorrerebbe soffermarsi sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia, della quale è diventato protagonista, per il celebre “papello”, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, Massimo Ciancimino.

La credibilità di Spatuzza e dei Graviano potrebbe essere misurata anche dalla reale portata della presunta “trattativa”, che avrebbe avuto inizio all’inizio dell’estate del ‘92, a quanto pare prima della strage di Capaci.

Facciamo una premessa, assai importante: la mafia ha trattato sempre con lo Stato nei settori più disparati, e ci sono sempre stati degli uomini che per il loro ruolo sono stati nelle condizioni di fare guadagnare alle due parti – mafia e Stato – quel che cercavano. E quel che cercavano non era certamente giustizia, ma “aggiustamenti”, magari attraverso norme che rendessero più difficile l’accertamento della verità.

Vito Ciancimino può essere considerato una figura non nuova nella storia sella mafia, il mediatore fra mafia e politica. Mafioso e politico egli stesso era nelle condizioni di interpretare gli umori delle due parti. Nel ’92 fu lui a mettersi in mezzo e dichiarare la sua disponibilità; lo avrebbe fatto con i carabinieri, l’allora capitano Giuseppe De Donno, e con il colonnello Mori. Gli ufficiali dei carabinieri davano la caccia ai grandi latitanti, Riina e Provenzano; potere contare sulla collaborazione di Vito Ciancimino avrebbe potuto essere utile.

Ma Ciancimino non era un delatore qualsiasi, un confidente in cerca di compenso. Ma un “politico”. Ciò che per i carabinieri era un tentativo di fare parlare chi sapeva tante cose, per lui era una trattativa dove mettere insieme più opportunità, grazie alle quali guadagnare considerazione sia da parte dello Stato quanto da parte dei boss. Una partita difficile, perché il raffinato don Vito dovette scontrarsi con il grezzo Totò Riina da un lato e la riluttanza di coloro che furono messi al corrente della disponibilità di don Vito, che implicava la politicizzazione del “rapporto”.

Una riluttanza che divenne contrarietà ed irritazione sin dal primo istante nei due personaggi-chiave della vicenda, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Con loro non avrebbe mai potuto esserci una trattativa ad ampio raggio, mai e poi mai.

Giovanni Falcone, divenuto direttore degli affari generali del ministero della Giustizia, non era più il giudice che perseguiva i mafiosi, pur pericoloso e indomabile – quindi un nemico forte – ma l’uomo che aveva fatto cambiare le regole del gioco, e si preparava a mettere in campo iniziative di natura organizzativa e giuridica nella lotta alla mafia, che avrebbero arrecato grande nocumento alle famiglie. La presenza di Falcone a Roma era una prova sicura che le cose si stavano mettendo male, malissimo per i boss. Una inversione di tendenza indubitabile. E qualcuno doveva pagare per non averlo evitato. E chi se non Salvo Lima, l’uomo di fiducia dell’allora capo del governo Giulio Andreotti?.

Restava da sistemare, a quel punto, Giovanni Falcone. Ed una volta raggiunto l’obiettivo, fare la stessa cosa con Paolo Borsellino, che aveva le carte in regola per sostituire Falcone, e per giunta aveva capito quel che stava accadendo fra mafia e Stato.

Sono Falcone e Vito Ciancimino i personaggi chiave di quella stagione: il primo perché “politicizzò” il suo ruolo di confidente, il secondo perché politicizzò quello di magistrato. Il corto circuito era inevitabile.

Il terrorismo mafioso, con pochi precedenti nella storia delle “famiglie” siciliane, potrebbe essere figlio di questo corto circuito.

Esso, tuttavia, non fece desistere i boss e i loro protettori, dal percorrere la strada “politica”. Non bastava eliminare i nemici, bisognava avere gli amici nei posti giusti. E qui spuntano i fratelli Graviano, i boss più “sentiti” di quel tempo, che secondo Spatuzza avrebbero trovato la quadra grazie alla nascita di un partito nuovo e l’avvento di politici nuovi.

Il fatto che loro cercassero interlocutori, è bene precisarlo, non significa che li abbiano trovati. Si può millantare credito, essere tratti in inganno o raccontare storie che non stanno né in cielo né in terra. Che tuttavia ci sia stato nella mafia siciliana, il bisogno di trovare coperture politiche diverse da quelle finora ottenute, è indubbio. Risulta anche dai verbali della Commissione antimafia presieduta da Violante.

L’intrigo è “intenso”, le carte che le Procure maneggiano brucerebbero le mani a chiunque. Quando c’è la mafia di mezzo non si sa mai dove si va a parare. C’è da considerare il contesto – nazionale, europeo, internazionale – che “pretendeva” forti “scosse” e stava cambiando gli equilibri precedenti al Muro di Berlino.

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