Vincenzo1968
20-10-2009, 17:04
Intanto ribadisco che il canone può essere abolito solo se contemporaneamente si elimina il tetto pubblicitario. Insomma occorre cancellare quella norma che attualmente impedisce alla Rai di raccogliere pubblicità liberamente, facendo così un grande regalo a Mediaset. Sarebbe un modo per rilanciare la Rai sul mercato e per garantire un’effettiva libera concorrenza. In ogni caso rimane il problema di un servizio pubblico radiotelevisivo che non risponde ai cittadini ma esclusivamente ai partiti. Quindi, senza il canone, la Rai rischia di morire con una pistolettata, mentre con il sistema attuale, muore per una coltellata.
Con una posizione dominante nel mercato della pubblicità non bisognava avere nessuna dote imprenditoriale, bastava solo avere degli ottimi legali e molti conti offshore per ungere le ruote giuste nella capitale, tre elementi che il fiuto di un immobiliarista si procurò in breve tempo.
Nel 1999, prima che D’Alema fissasse il canone delle concessioni alla quota dell’1% di Rti, società minore intestataria di tali concessioni, la Fininvest retrocedeva poco più di mezzo miliardo per ognuna delle tre reti televisive. Contemporaneamente Publitalia cresceva di mille miliardi nel triennio ‘96-‘99 sforando il tetto dei 4.000 miliardi di fatturato. La legge 488 del 1999, mettendo mano ad una situazione insostenibile da oltre un decennio, alzava la rendita delle concessioni per lo Stato. Questo ritocco consentì all’erario di incrementare le sue entrate dagli 1,5 ai 50 miliardi di lire dei 4.000 fatturati, ad esempio, nel ‘99. Silvio storse il naso, ma capì che quello dell’amico Massimo era un modo per impedire che altri ci mettessero veramente le mani con una revisione congrua delle tariffe.
Tra il 1984 ed il 1999 accaddero molti altri eventi importanti legati alla saga delle frequenze.
Siamo al 20 gennaio 2009, L’Italia dei Valori presenta un’interrogazione parlamentare ed inserisce nel suo programma “L’alternativa di governo”, la proposta di portare il canone dall’1% del fatturato di Rti al 30% del fatturato delle società che traggono profitto dallo sfruttamento delle concessioni televisive, Publitalia in primis.
Con una posizione dominante nel mercato della pubblicità non bisognava avere nessuna dote imprenditoriale, bastava solo avere degli ottimi legali e molti conti offshore per ungere le ruote giuste nella capitale, tre elementi che il fiuto di un immobiliarista si procurò in breve tempo.
Nel 1999, prima che D’Alema fissasse il canone delle concessioni alla quota dell’1% di Rti, società minore intestataria di tali concessioni, la Fininvest retrocedeva poco più di mezzo miliardo per ognuna delle tre reti televisive. Contemporaneamente Publitalia cresceva di mille miliardi nel triennio ‘96-‘99 sforando il tetto dei 4.000 miliardi di fatturato. La legge 488 del 1999, mettendo mano ad una situazione insostenibile da oltre un decennio, alzava la rendita delle concessioni per lo Stato. Questo ritocco consentì all’erario di incrementare le sue entrate dagli 1,5 ai 50 miliardi di lire dei 4.000 fatturati, ad esempio, nel ‘99. Silvio storse il naso, ma capì che quello dell’amico Massimo era un modo per impedire che altri ci mettessero veramente le mani con una revisione congrua delle tariffe.
Tra il 1984 ed il 1999 accaddero molti altri eventi importanti legati alla saga delle frequenze.
Siamo al 20 gennaio 2009, L’Italia dei Valori presenta un’interrogazione parlamentare ed inserisce nel suo programma “L’alternativa di governo”, la proposta di portare il canone dall’1% del fatturato di Rti al 30% del fatturato delle società che traggono profitto dallo sfruttamento delle concessioni televisive, Publitalia in primis.