Fides Brasier
25-11-2008, 20:46
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200811articoli/38476girata.asp
25/11/2008 (6:25) - UN MONDO INTIRCATO
L'ultimo comunista ha fatto carriera
Un racconto: la parabola del tipo più emblematico degli Anni 70
SEBASTIANO VASSALLI
Gli Anni Settanta del secolo scorso sono stati anni difficili per l’Italia. Il carattere nazionale è stato messo a dura prova e ha prodotto una varietà di tipi umani, ognuno dei quali, debitamente raccontato, potrebbe essere proposto come rappresentativo per l’intero decennio. Il tipo più interessante, però, e forse anche più emblematico di quegli anni, io credo di averlo incontrato un po’ di tempo dopo, alla fine del decennio successivo. Forse nel 1987, o nel 1988. Abitavo già in campagna e un giorno mi arriva una lettera di un circolo culturale, che mi invita per un incontro-conferenza in una piccola città a Nord di Milano. Ricordo il tema dell’incontro e ricordo anche il titolo complessivo dell’iniziativa, ma naturalmente non lo trascrivo perché l’autore di quel titolo, che poi è anche la persona di cui intendo parlare, deve restare indeterminato. Un italiano degli anni Settanta.
Fin qui, tutto normale. Adesso incomincia la storia.
Allegato alla lettera c’è un biglietto da visita, di un tale che, nel biglietto, si dichiara «comunista», senza altri titoli né qualifiche. Tal dei Tali, comunista. Sul biglietto, o sul retro del biglietto, c’è scritto a mano: «Nei prossimi giorni ti telefonerò e ti verrò a trovare, così parleremo di questa iniziativa». Il nome Tal dei Tali mi è ignoto, ma l’uso confidenziale del «tu» anche tra sconosciuti è già largamente diffuso nell’epoca di cui ci stiamo occupando; e, del resto, è il minimo che ci si può aspettare da un comunista. L’ultimo dei comunisti rimasto tenacemente attaccato al «lei», in Italia era Togliatti: che però, all’epoca di questa storia, è morto da più di vent’anni…
Dopo qualche giorno, il Comunista viene a farmi visita. Arriva su una Mercedes nera con radiotelefono (autentico. In quegli anni che precedettero l’avvento dei telefonini, l’Italia era piena di Fiat Uno con antenne iperboliche che dovevano simulare la presenza a bordo di un radiotelefono, naturalmente assente. Sulla Mercedes del Comunista, invece, il radiotelefono c’era davvero). Il mio primo impulso, quando lo vedo, è quello di mettermi le mani nei capelli: ma riesco a trattenermi. L’uomo ha più o meno la mia età ed è «griffato» dalla testa ai piedi, cioè dagli occhiali scuri alle scarpe. Ci sediamo in giardino, sotto un grande albero di cachi che è (era) l’elemento più caratteristico della casa dove abitavo allora e adesso non abito più. Incominciamo a parlare e il Comunista, pian piano, mi appare sotto un’altra luce. Mi diventa addirittura simpatico.
Scopriamo di essere stati studenti alla Statale di Milano, più o meno negli stessi anni: Lettere per me e Legge per lui. Finiti gli studi a metà degli anni Sessanta, ognuno imbocca la sua strada. Io, più povero, devo dedicarmi per qualche anno all’insegnamento; lui, di famiglia medio-borghese e senza particolare urgenza di guadagnarsi da vivere, può prendersela con più comodo. Si guarda attorno, fa qualche viaggio. Insieme ad alcuni amici d’infanzia, incappa nel Sessantotto: diventa Comunista e vive, per qualche anno, in una specie di delirio che ora mi racconta lucidamente, con il senno del poi. «A quell’epoca, – mi dice per giustificarsi, – le teste volavano».
Io faccio segno di sì perché me la ricordo benissimo, quell’epoca, e il Comunista continua a raccontare la sua storia: una storia che non mi sarei mai aspettato di ascoltare in quel pomeriggio di giugno e da quella persona, poi! Una storia italiana degli anni Settanta. Mi racconta di essersi inoltrato nella pazzia di quegli anni, fino alla soglia della clandestinità e della lotta armata. Di avere capito, fortunatamente, che quella soglia era senza ritorno. Di essersi fermato in tempo. Mi racconta di un suo amico d’infanzia che è ancora in carcere nel momento in cui ne parliamo. E poi, di un altro amico che una notte d’estate si presenta a casa del Comunista, con una cassetta piena di armi. Gli dice: «Tienile tu, perché io devo scappare».
«Quella notte – mi confida il Comunista – è stata il momento centrale della mia vita. Sono andato a Cremona, sul ponte del Po, e ho buttato la cassetta giù dal ponte. Poi sono risalito in macchina e ho continuato a guidare, a caso senza sapere dove andassi. Seguivo il corso dei miei pensieri. Ero diventato una persona adulta e, a mio modo, normale».
«Però, sono rimasto comunista». Mi dà l’altro suo biglietto da visita, quello ufficiale con il titolo di avvocato e la qualifica, in inglese, del ruolo che svolge presso non so più quale azienda o società finanziaria. Ha fatto carriera e, ora che mi ha raccontato la sua storia, sente il bisogno di scusarsi per i vestiti griffati e per il radiotelefono: «Sono la mia tenuta da lavoro». Mi spiega che la parola comunista sul biglietto da visita significa disponibilità per gli altri esseri umani, e che la politica non c’entra più. Lui, attualmente, dedica una parte dei suoi soldi e del suo tempo libero a un’organizzazione che assiste, in tutto il mondo, le persone più disgraziate e più povere; e ha fondato, nella sua città, un circolo culturale, per dare vita a delle iniziative che altrimenti non esisterebbero.
Il comunismo, mi dice, è anche questo: «È aiutare la gente a pensare con la sua testa, anziché con la televisione». La storia dell’ultimo comunista finisce qui. Da allora, sono trascorsi vent’anni e io non ho più avuto occasione di rivedere il mio personaggio. Non so più niente di lui.
Non so se ha ancora i due biglietti da visita o se ha conservato soltanto quello ufficiale, dell’avvocato e della qualifica in inglese. Non so se si dichiara ancora comunista. Non so nemmeno se è ancora vivo. Forse è morto.
Ogni volta che penso agli anni Settanta penso a lui. Nella mia memoria, lui è l’Italiano di quegli anni.
Questo terribile intricato mondo è un passaggio di un antico discorso di Enrico Berlinguer, ma è anche il titolo di una raccolta di «racconti politici» in uscita da Einaudi (pp. VI-256, e19), a cui hanno contribuito con testi inediti Walter Siti, Rosetta Loy, Ascanio Celestini, Alberto Asor Rosa, Stefano Bartezzaghi, Antonio Pascale, Paolo Di Stefano, Sebastiano Vassalli, Eraldo Affinati, Michela Murgia, Diego De Silva e Marcello Fois. Anticipiamo in questa pagina uno dei due racconti di Vassalli .
25/11/2008 (6:25) - UN MONDO INTIRCATO
L'ultimo comunista ha fatto carriera
Un racconto: la parabola del tipo più emblematico degli Anni 70
SEBASTIANO VASSALLI
Gli Anni Settanta del secolo scorso sono stati anni difficili per l’Italia. Il carattere nazionale è stato messo a dura prova e ha prodotto una varietà di tipi umani, ognuno dei quali, debitamente raccontato, potrebbe essere proposto come rappresentativo per l’intero decennio. Il tipo più interessante, però, e forse anche più emblematico di quegli anni, io credo di averlo incontrato un po’ di tempo dopo, alla fine del decennio successivo. Forse nel 1987, o nel 1988. Abitavo già in campagna e un giorno mi arriva una lettera di un circolo culturale, che mi invita per un incontro-conferenza in una piccola città a Nord di Milano. Ricordo il tema dell’incontro e ricordo anche il titolo complessivo dell’iniziativa, ma naturalmente non lo trascrivo perché l’autore di quel titolo, che poi è anche la persona di cui intendo parlare, deve restare indeterminato. Un italiano degli anni Settanta.
Fin qui, tutto normale. Adesso incomincia la storia.
Allegato alla lettera c’è un biglietto da visita, di un tale che, nel biglietto, si dichiara «comunista», senza altri titoli né qualifiche. Tal dei Tali, comunista. Sul biglietto, o sul retro del biglietto, c’è scritto a mano: «Nei prossimi giorni ti telefonerò e ti verrò a trovare, così parleremo di questa iniziativa». Il nome Tal dei Tali mi è ignoto, ma l’uso confidenziale del «tu» anche tra sconosciuti è già largamente diffuso nell’epoca di cui ci stiamo occupando; e, del resto, è il minimo che ci si può aspettare da un comunista. L’ultimo dei comunisti rimasto tenacemente attaccato al «lei», in Italia era Togliatti: che però, all’epoca di questa storia, è morto da più di vent’anni…
Dopo qualche giorno, il Comunista viene a farmi visita. Arriva su una Mercedes nera con radiotelefono (autentico. In quegli anni che precedettero l’avvento dei telefonini, l’Italia era piena di Fiat Uno con antenne iperboliche che dovevano simulare la presenza a bordo di un radiotelefono, naturalmente assente. Sulla Mercedes del Comunista, invece, il radiotelefono c’era davvero). Il mio primo impulso, quando lo vedo, è quello di mettermi le mani nei capelli: ma riesco a trattenermi. L’uomo ha più o meno la mia età ed è «griffato» dalla testa ai piedi, cioè dagli occhiali scuri alle scarpe. Ci sediamo in giardino, sotto un grande albero di cachi che è (era) l’elemento più caratteristico della casa dove abitavo allora e adesso non abito più. Incominciamo a parlare e il Comunista, pian piano, mi appare sotto un’altra luce. Mi diventa addirittura simpatico.
Scopriamo di essere stati studenti alla Statale di Milano, più o meno negli stessi anni: Lettere per me e Legge per lui. Finiti gli studi a metà degli anni Sessanta, ognuno imbocca la sua strada. Io, più povero, devo dedicarmi per qualche anno all’insegnamento; lui, di famiglia medio-borghese e senza particolare urgenza di guadagnarsi da vivere, può prendersela con più comodo. Si guarda attorno, fa qualche viaggio. Insieme ad alcuni amici d’infanzia, incappa nel Sessantotto: diventa Comunista e vive, per qualche anno, in una specie di delirio che ora mi racconta lucidamente, con il senno del poi. «A quell’epoca, – mi dice per giustificarsi, – le teste volavano».
Io faccio segno di sì perché me la ricordo benissimo, quell’epoca, e il Comunista continua a raccontare la sua storia: una storia che non mi sarei mai aspettato di ascoltare in quel pomeriggio di giugno e da quella persona, poi! Una storia italiana degli anni Settanta. Mi racconta di essersi inoltrato nella pazzia di quegli anni, fino alla soglia della clandestinità e della lotta armata. Di avere capito, fortunatamente, che quella soglia era senza ritorno. Di essersi fermato in tempo. Mi racconta di un suo amico d’infanzia che è ancora in carcere nel momento in cui ne parliamo. E poi, di un altro amico che una notte d’estate si presenta a casa del Comunista, con una cassetta piena di armi. Gli dice: «Tienile tu, perché io devo scappare».
«Quella notte – mi confida il Comunista – è stata il momento centrale della mia vita. Sono andato a Cremona, sul ponte del Po, e ho buttato la cassetta giù dal ponte. Poi sono risalito in macchina e ho continuato a guidare, a caso senza sapere dove andassi. Seguivo il corso dei miei pensieri. Ero diventato una persona adulta e, a mio modo, normale».
«Però, sono rimasto comunista». Mi dà l’altro suo biglietto da visita, quello ufficiale con il titolo di avvocato e la qualifica, in inglese, del ruolo che svolge presso non so più quale azienda o società finanziaria. Ha fatto carriera e, ora che mi ha raccontato la sua storia, sente il bisogno di scusarsi per i vestiti griffati e per il radiotelefono: «Sono la mia tenuta da lavoro». Mi spiega che la parola comunista sul biglietto da visita significa disponibilità per gli altri esseri umani, e che la politica non c’entra più. Lui, attualmente, dedica una parte dei suoi soldi e del suo tempo libero a un’organizzazione che assiste, in tutto il mondo, le persone più disgraziate e più povere; e ha fondato, nella sua città, un circolo culturale, per dare vita a delle iniziative che altrimenti non esisterebbero.
Il comunismo, mi dice, è anche questo: «È aiutare la gente a pensare con la sua testa, anziché con la televisione». La storia dell’ultimo comunista finisce qui. Da allora, sono trascorsi vent’anni e io non ho più avuto occasione di rivedere il mio personaggio. Non so più niente di lui.
Non so se ha ancora i due biglietti da visita o se ha conservato soltanto quello ufficiale, dell’avvocato e della qualifica in inglese. Non so se si dichiara ancora comunista. Non so nemmeno se è ancora vivo. Forse è morto.
Ogni volta che penso agli anni Settanta penso a lui. Nella mia memoria, lui è l’Italiano di quegli anni.
Questo terribile intricato mondo è un passaggio di un antico discorso di Enrico Berlinguer, ma è anche il titolo di una raccolta di «racconti politici» in uscita da Einaudi (pp. VI-256, e19), a cui hanno contribuito con testi inediti Walter Siti, Rosetta Loy, Ascanio Celestini, Alberto Asor Rosa, Stefano Bartezzaghi, Antonio Pascale, Paolo Di Stefano, Sebastiano Vassalli, Eraldo Affinati, Michela Murgia, Diego De Silva e Marcello Fois. Anticipiamo in questa pagina uno dei due racconti di Vassalli .