Ser21
23-09-2008, 08:17
Intervista al nuovo procuratore di Messina
di Nuccio Anselmo -20 settembre 2008
Messina.Ieri mattina Guido Lo Forte, uno dei più prestigiosi magistrati italiani, da 30 anni impegnato nella lotta alla mafia alla Procura di Palermo, s'è insediato come procuratore capo di Messina.
- Dott. Lo Forte, intanto benvenuto a Messina, ma si può "dimenticare Palermo"?
«È certamente impossibile "dimenticare Palermo". Palermo, insieme ad altre sedi della Sicilia, è - sotto l'aspetto giudiziario - un "luogo" emblematico dell'attività svolta nel contrasto della criminalità organizzata; un'esperienza sulla base della quale si può a buon diritto affermare che la magistratura italiana ha creato, fin dagli anni '80, un patrimonio (di idee, di motivazioni, di esperienze giurisdizionali, di metodi di indagine e di valutazione della prova) che è divenuto un grande punto di riferimento a livello europeo e internazionale».
- Come Procuratore aggiunto a Palermo, lei ha coordinato per molti anni le indagini della Dda. Quali sono state le inchieste più significative di quel periodo?
«Per oltre un decennio, sono stato incaricato di attuare il coordinamento (e nei casi più rilevanti di partecipare personalmente alla trattazione) di tutti i processi di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia per la provincia di Palermo. In questo periodo ho proposto e cercato di attuare un metodo di lavoro basato sulla collegialità e sulla circolazione delle informazioni, e rivolto ad attuare una specifica e mirata strategia: quella di specializzare il lavoro investigativo e processuale per territori, sottoponendo a monitoraggio investigativo determinate aree territoriali (corrispondenti ciascuna a più mandamenti di Cosa nostra), e coordinando tutte le fonti informative disponibili; al fine di attuare un controllo legale del territorio, e di registrare il più possibile in tempo reale i mutamenti che continuamente si producono nell'assetto, negli equilibri e nelle attività illegali di Cosa nostra. I risultati non sono mancati. Grazie all'azione dei magistrati e delle forze dell'ordine non soltanto sono stati progressivamente identificati, catturati e processati capi, gregari e killers di Cosa nostra, responsabili di una serie impressionante di gravissimi delitti, ma si è cercato di impostare una nuova strategia d'attacco al cuore ed al cervello dell'organizzazione, cercando di recidere le sue relazioni esterne, cioè quelle relazioni con segmenti inquinati della società civile e dello Stato che hanno reso per decenni Cosa nostra un unicum nel complessivo panorama mondiale del crimine organizzato. Tra i processi più significativi ricordo quelli che hanno consentito di far luce su gravissimi omicidi rimasti per decenni impuniti sia in danno di soggetti appartenenti alla stessa associazione mafiosa, sia in danno di esponenti delle Istituzioni, di sacerdoti, di giornalisti, di imprenditori, di professionisti. Ne ricordo soltanto alcuni: il processo nei confronti di Mariano Agate + 59 (59 capi di imputazione, concernenti una lunga serie di omicidi commessi da Cosa nostra nel decennio 1981/91, da quello di Stefano Bontate a quello dell'imprenditore Libero Grassi); i processi per gli omicidi di Giuseppe Impastato, dei giornalisti Mauro De Mauro e Mario Francese, di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina; ed ancora quelli per gli omicidi del Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Emanuela Setti Carraro e di Domenico Russo, dei funzionari di polizia dott. Giuseppe Montana e dott. Antonino Cassarà, di padre Giuseppe Puglisi. Naturalmente tra le inchieste più significative devo ricordare quelle che hanno cercato di approfondire il nodo dei rapporti tra mafia e politica: dal processo contro Vito Ciancimino a quello per l'omicidio dell'on. Salvo Lima; dal processo nei confronti del sen. Giulio Andreotti a quello contro l'on. Marcello Dell'Utri, fino a quello c.d. "Ghiaccio 2", avente per oggetto le relazioni che Giuseppe Guttadauro, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, avrebbe intrattenuto con esponenti del mondo politico regionale. Indipendentemente dall'esito dei processi (qualche volta influenzato da formalismi giuridici o da prescrizioni), queste indagini hanno rappresentato una straordinaria e forse irripetibile fonte di informazioni sulle caratteristiche degli scambi occulti e dei legami sotterranei tra mafia e settori del potere politico e del mondo imprenditoriale, sulle modalità nascoste con cui alcuni segmenti della classe dirigente hanno gestito il potere nel corso degli ultimi decenni. In questa prospettiva, l'aspetto davvero significativo di questi processi è stato forse l'aver raccolto e messo a disposizione dei cittadini - con la fattiva collaborazione, specie nelle prime fasi delle inchieste, dei principali mezzi di comunicazione - un notevole ammontare d'informazioni sui comportamenti dei loro governanti che altrimenti sarebbero rimaste inesorabilmente celate al pubblico. Informazioni che - indipendentemente dall'attestazione delle eventuali responsabilità individuali - si sono dimostrate nella loro quasi totalità rispondenti al vero».
- Come affronterà la "parentesi messinese"?
«Col medesimo spirito col quale in questi anni ho inteso il mio compito di magistrato. Non considero la nuova esperienza come una "parentesi", ma come la prosecuzione di un impegno che ha sempre preso a modello il metodo di lavoro sviluppato da uomini come Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, e da tanti altri magistrati che hanno condiviso i loro ideali. In una città come Messina, densa di problemi ma anche ricca di stimoli culturali e civili, cercherò di adempiere ai miei nuovi doveri nella coscienza che gli strumenti migliori per combattere i più gravi fenomeni criminali sono quelli offerti dallo Stato di diritto, attraverso l'opera di una magistratura indipendente e radicata nei valori costituzionali di democrazia».
- Come organizzerà il lavoro della DDA?
«Il mio intento è innanzitutto quello di realizzare una linea di sostanziale continuità - nelle linee essenziali - con i modelli organizzativi già esistenti (costituenti il risultato di una complessa ed approfondita riflessione già compiuta in seno alla Procura di Messina). Naturalmente, poiché la realtà dei fenomeni criminali è in costante evoluzione, a seguito di una riflessione con tutti i colleghi potrà essere di volta in volta esaminata la opportunità di innovazioni, alla luce delle esigenze operative che potranno emergere nel corso della futura attività di contrasto alla criminalità organizzata. In ogni caso, è chiaro che il ruolo del Procuratore della Repubblica deve essere ispirato ad obiettivi di trasparenza dell'attività di direzione dell'ufficio, di elaborazione e realizzazione di modelli organizzativi capaci di promuovere la crescita professionale dei magistrati addetti all'ufficio, la collaborazione e il coordinamento, la circolazione e la socializzazione delle informazioni».
- L'area messinese negli anni '70 e '80 è stata un terreno fertile per mafia e 'ndrangheta, mi riferisco alle infiltrazioni all'Università e alle latitanze eccellenti lungo la zona tirrenica, solo per fare due esempi. La sua lettura del fenomeno attuale?
«Certamente vi è stata una tardiva percezione della pericolosità della presenza mafiosa nel messinese, in parte paradossalmente favorita dalle dichiarazioni dei primi grandi "pentiti" di mafia, i quali - forse in una visione "palermocentrica" e "monopolistica" tipica di Cosa nostra - avevano escluso la presenza della mafia nella maggior parte della provincia di Messina. E quindi Messina per molti anni ha scontato un'ingiustificabile limitatezza di analisi degli insediamenti mafiosi nella provincia del terzo capoluogo siciliano. Ed invece la sua particolare posizione geografica, stretta tra zone di elevatissima presenza mafiosa (Palermo, Catania e - oltre lo Stretto - Reggio Calabria) andava via via determinando un sempre crescente inserimento di interessi mafiosi nel tessuto economico della città. E in un passato non lontano si è anche registrata una preoccupante capacità della criminalità mafiosa locale di insinuarsi nelle dinamiche degli stessi apparati istituzionali. È vero tuttavia che negli ultimi anni questi storici ritardi sono stati sensibilmente corretti dalla intensa attività svolta dagli organi di investigazione, dalla Direzione distrettuale antimafia e dagli altri uffici giudiziari del Distretto. Grazie all'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, sono stati raggiunti risultati di grande rilievo: sono stati individuati e arrestati gli autori di numerosi e gravi delitti; sono state scoperte delle vere e proprie "centrali" del crimine; sono stati recuperati armi ed esplosivi; occulti canali di riciclaggio e di reinvestimento sono stati messi alla luce. Tuttavia molto rimane ancora da fare. Basti citare al riguardo la relazione del Presidente della Corte di Appello di Messina, dott. Nicolò Fazio, per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2008, laddove si osserva che "le associazioni di tipo mafioso, malgrado l'efficace azione di contrasto svolta dalle forze dell'ordine e dalla magistratura, esercitano ancora il loro nefasto potere sulla realtà economica e sociale e ne compromettono lo sviluppo"; ed ancora che "per effetto di una mutazione strategica, la mafia, mimetizzandosi, si è imborghesita e tende ad infiltrarsi negli apparati istituzionali ed in quelli economici degli appalti e dei servizi pubblici, ivi incluso lo smaltimento dei rifiuti, per condizionarli alla ricerca di utilità e benefici illeciti. Così il fenomeno, da frontale quale era, si fa meno leggibile, più insidioso e difficile da combattere in forza dei poteri di persuasione occulta, che contaminano settori un tempo impenetrabili"».
- Messina è stata ed è una città di "zone grigie", di commistioni tra Stato e antistato. Come intende contrastare questo stato di cose?
«In passato si sono verificati a Messina numerosi episodi ascrivibili a quello che dagli organi di informazione è stato definito "caso Messina", espressione con la quale si è inteso definire, soprattutto, un inusuale offuscamento dell'immagine di alcuni apparati dello Stato e una preoccupante capacità della criminalità mafiosa locale di insinuarsi nelle dinamiche degli stessi apparati istituzionali. È chiaro, tuttavia, che non si tratta di un fenomeno soltanto messinese, ma potenzialmente presente anche in altre importanti aree del Mezzogiorno. Infatti, quando si parla di illegalità nel contesto del Mezzogiorno si fa spesso senz'altro (ed esclusivamente) riferimento alle attività criminali delle organizzazioni mafiose, ed in particolare al fenomeno del riciclaggio. Questo fenomeno rappresenta senza dubbio il più allarmante meccanismo di inquinamento dell'economia legale, in quanto tende ad instaurare relazioni di scambio, dalla perdurante natura, fra quest'ultima e quel complesso di soggetti, beni e servizi che danno vita alla c.d. "economia criminale". Ma vi sono altri costi e benefici dell'illegalità che non sono esclusivamente riconducibili alla criminalità organizzata di tipo mafioso. Anche a Messina infatti, come in ampie zone del Mezzogiorno, la illegalità "mafiosa" si combina quasi sistematicamente con almeno altre due forme di illegalità: lo scambio occulto, connesso ai reati di corruzione e concussione e la c.d. "legalità debole", vale a dire l'inefficacia o la distorsione di norme rilevanti per l'attività economica, diverse da quelle di diritto penale (regole stabilite in materia ambientale, previdenziale, lavoristica, commerciale, fiscale, urbanistica, e così via). In questo contesto, la Procura di Messina, insieme a tutta la magistratura civile e penale del Distretto, dovrà profondere un grande impegno per attuare un serio e costante controllo di legalità su fenomeni che condizionano pesantemente il progresso della democrazia e della società civile, e dovrà far di tutto per venire incontro sollecitamente alle richieste di giustizia, specialmente a quelle formulate dai cittadini più deboli e indifesi».
- Dal '74 Cosa nostra com'è cambiata?
«Come dicevo all'inizio, grazie all'azione della magistratura e delle forze dell'ordine sono stati raggiunti risultati di grande rilievo; oggi il mito dell'impunità è stato definitivamente travolto, e la grande maggioranza dei "cervelli pensanti" di Cosa nostra è in carcere, mentre si diffondono positivi segni di reazione all'oppressione mafiosa in seno alla società civile ed al mondo imprenditoriale. In generale, per quanto riguarda gli scenari attuali e del prossimo futuro, si può soltanto osservare che oggi è in atto una fase di transizione, i cui esiti non sono prevedibili con certezza, sia per quanto riguarda il futuro definitivo assetto di vertice, sia l'indirizzo politico-criminale dell'organizzazione mafiosa. Infatti, il quadro fin qui delineato deve tener conto della evidente esistenza all'interno dell'organizzazione mafiosa di uno stato di instabilità e di crisi, determinato da conflitti e da orientamenti trasversali all'interno dei vari mandamenti (taluni palesi, altri occulti) connessi al controllo di determinati territori; da dissensi interni (pure questi trasversali) sulla configurazione e sugli equilibri degli attuali assetti di vertice, dopo la cattura di Bernardo Provenzano e di Salvatore Lo Piccolo; da situazioni di antagonismo tra vari gruppi emergenti i quali ambiscono, in questa fase fluida di ristrutturazione complessiva, a conquistare di fatto e manu militari posizioni di privilegio da convertire poi in posizioni di potere formalizzato e riconosciuto. Detto ciò, in questa delicatissima fase sussiste la possibilità di un improvviso deterioramento dei precari equilibri interni in tutto o in parte del territorio, sia a causa di iniziative concertate di settori determinati dell'organizzazione mafiosa, sia per iniziativa di gruppi emergenti determinati a sottrarsi a logiche complessive e a ridisegnare nuove geografie interne del potere. In conclusione, per quanto riguarda i prossimi scenari, non è possibile prevedere con ragionevole certezza quali saranno le strategie di Cosa nostra; in particolare, non è possibile prevedere se si ripristinerà - in virtù di nuovi compromessi interni - la (finora perseguita) strategia di mimetizzazione, ovvero se prevarranno i fattori di crisi, con la conseguente possibilità di una ripresa di azioni violente all'interno ed all'esterno dell'organizzazione».
- Quanto conta oggi la "componente carceraria" in Cosa nostra?
«È agevole ipotizzare l'esistenza di dissensi tra i vertici di Cosa nostra latitanti e quelli detenuti sulle strategie generali dell'organizzazione oscillanti tra l'esigenza di "invisibilità" e la reazione contro le istituzioni; questa conflittualità si è riprodotta anche all'interno del mondo carcerario fra taluni dei protagonisti della precedente politica stragista ed i fautori di palesi tentativi di mediazione attraverso le ipotesi di dissociazione.I grandi capi detenuti e destinati al carcere a vita hanno certamente ancora uomini d'onore in libertà alle loro dipendenze, cui sono in grado, nonostante il regime dell'art. 41 bis ord. pen., di far pervenire, tramite i familiari o altri canali segreti, direttive per la gestione dei loro patrimoni occultati, per la gestione delle attività illecite e per quelle eventuali iniziative violente che possono incidere sulle dinamiche, sulle strutture e sulle strategie di Cosa nostra, nonché influenzare i futuri rapporti esterni con società, economia e politica».
- L'atteggiamento attuale della politica nei confronti delle organizzazioni mafiose come lo giudica? Il "pacchetto intercettazioni"?
«Per quanto riguarda il rapporto con la politica, ai magistrati spetta di applicare le leggi. È dunque un loro preciso dovere svolgere le indagini imposte dalle notizie di reato con oggettività, scrupolo ed imparzialità, in applicazione del principio costituzionale di eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, senza alcuna distinzione tra imputati "forti" e imputati "deboli". Dopo la tumultuosa (e qualche volta contraddittoria) evoluzione legislativa degli ultimi anni, troppo spesso condizionata dall'emergenza, è evidente che una razionalizzazione è necessaria; ma, in positivo, razionalizzare dovrebbe significare tenere nel giusto conto quello che è successo, e andare avanti per evitare che i lamentati fenomeni della corruzione politico-amministrativa e delle collusioni mafiose possano ripetersi o riprodursi, magari con modalità diverse ma con intensità e pericolosità analoghe a quelle del passato. Su questo tema, è certamente anche un dovere dei magistrati quello di segnalare i problemi che emergono dall'esperienza giudiziaria. E ciò soprattutto in una stagione come questa, di difficile ricerca di soluzioni ordinamentali capaci di garantire i valori della indipendenza, della terzietà, della fedeltà alla Costituzione della magistratura italiana; di una stagione in cui il bilancio della lotta dello Stato alle organizzazioni mafiose è ancora non privo di chiaroscuri e di qualche silenzio; di una stagione in cui è più che mai essenziale la questione del mantenimento e del rafforzamento di quelle condizioni del quadro legislativo e istituzionale generale, che nei primi anni '90 avviarono l'attuazione di una strategia di attacco alle organizzazioni mafiose; una strategia finalizzata non più a contenere, ma ad eliminare una struttura criminale tuttora capace di inquinare il tessuto economico e civile e, virtualmente, anche istituzionale di uno Stato».
- Quando domandavano al grande Gesualdo Bufalino come combattere la mafia lui spesso rispondeva "Ci vorrebbe un esercito di maestri elementari". Si trova d'accordo?
«Le parole di Gesualdo Bufalino sono di grande attualità. C'è ancora molto da fare per giungere non solo alla sconfitta militare dell'organizzazione, ma anche al risultato risolutivo del definitivo sradicamento dei valori e dei modelli di comportamento mafiosi dalla società civile. In proposito, infatti, bisogna ricordare qual è la prima condizione di base di sviluppo delle mafie: l'esistenza di una struttura sociale in cui si afferma (in mancanza di significativi antidoti) un modello culturale di comportamento mafioso che tende a manifestarsi come dipendenza assoluta dell'individuo da un gruppo dai tratti marcatamente antisociali e coercitivi; dipendenza indotta da una strutturazione totalitaria del microcosmo di appartenenza (nell'ordine, famiglia di sangue, famiglia mafiosa o clan). In altri termini, si può affermare che esiste un modo di concepire la famiglia e poi la società civile, cioè i primi nuclei di riferimento per la costruzione della personalità di un individuo, che può determinare con maggiore facilità un comportamento mafioso. La crescita esponenziale dei modelli di comportamento mafioso si verifica pertanto quando le dinamiche distorte di questa struttura di base, che costituisce il primo agente di socializzazione dell'individuo, non vengono adeguatamente neutralizzate dagli agenti di socializzazione secondaria, rappresentati dalla scuola, dalla Chiesa, e poi dai partiti e dai sindacati. Di qui l'importanza decisiva dell'azione della scuola, della Chiesa, e poi dei partiti e dei sindacati; cioè dei c.d. agenti di socializzazione secondaria, che soli sono in grado - proponendo modelli alternativi di educazione - di impedire il successo finale della distorta socializzazione primaria compiuta dalla famiglia e dal clan, con l'effetto di produrre dei perfetti mafiosi».
Tratto da: la gazzetta del sud
Splendida intervista ad uno dei più bravi,valorosi,coraggiosi e capaci magistrati italiani.
Auguri di buon lavoro a Lo Forte,speriamo faccia bene come e più di Palermo.
di Nuccio Anselmo -20 settembre 2008
Messina.Ieri mattina Guido Lo Forte, uno dei più prestigiosi magistrati italiani, da 30 anni impegnato nella lotta alla mafia alla Procura di Palermo, s'è insediato come procuratore capo di Messina.
- Dott. Lo Forte, intanto benvenuto a Messina, ma si può "dimenticare Palermo"?
«È certamente impossibile "dimenticare Palermo". Palermo, insieme ad altre sedi della Sicilia, è - sotto l'aspetto giudiziario - un "luogo" emblematico dell'attività svolta nel contrasto della criminalità organizzata; un'esperienza sulla base della quale si può a buon diritto affermare che la magistratura italiana ha creato, fin dagli anni '80, un patrimonio (di idee, di motivazioni, di esperienze giurisdizionali, di metodi di indagine e di valutazione della prova) che è divenuto un grande punto di riferimento a livello europeo e internazionale».
- Come Procuratore aggiunto a Palermo, lei ha coordinato per molti anni le indagini della Dda. Quali sono state le inchieste più significative di quel periodo?
«Per oltre un decennio, sono stato incaricato di attuare il coordinamento (e nei casi più rilevanti di partecipare personalmente alla trattazione) di tutti i processi di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia per la provincia di Palermo. In questo periodo ho proposto e cercato di attuare un metodo di lavoro basato sulla collegialità e sulla circolazione delle informazioni, e rivolto ad attuare una specifica e mirata strategia: quella di specializzare il lavoro investigativo e processuale per territori, sottoponendo a monitoraggio investigativo determinate aree territoriali (corrispondenti ciascuna a più mandamenti di Cosa nostra), e coordinando tutte le fonti informative disponibili; al fine di attuare un controllo legale del territorio, e di registrare il più possibile in tempo reale i mutamenti che continuamente si producono nell'assetto, negli equilibri e nelle attività illegali di Cosa nostra. I risultati non sono mancati. Grazie all'azione dei magistrati e delle forze dell'ordine non soltanto sono stati progressivamente identificati, catturati e processati capi, gregari e killers di Cosa nostra, responsabili di una serie impressionante di gravissimi delitti, ma si è cercato di impostare una nuova strategia d'attacco al cuore ed al cervello dell'organizzazione, cercando di recidere le sue relazioni esterne, cioè quelle relazioni con segmenti inquinati della società civile e dello Stato che hanno reso per decenni Cosa nostra un unicum nel complessivo panorama mondiale del crimine organizzato. Tra i processi più significativi ricordo quelli che hanno consentito di far luce su gravissimi omicidi rimasti per decenni impuniti sia in danno di soggetti appartenenti alla stessa associazione mafiosa, sia in danno di esponenti delle Istituzioni, di sacerdoti, di giornalisti, di imprenditori, di professionisti. Ne ricordo soltanto alcuni: il processo nei confronti di Mariano Agate + 59 (59 capi di imputazione, concernenti una lunga serie di omicidi commessi da Cosa nostra nel decennio 1981/91, da quello di Stefano Bontate a quello dell'imprenditore Libero Grassi); i processi per gli omicidi di Giuseppe Impastato, dei giornalisti Mauro De Mauro e Mario Francese, di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina; ed ancora quelli per gli omicidi del Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Emanuela Setti Carraro e di Domenico Russo, dei funzionari di polizia dott. Giuseppe Montana e dott. Antonino Cassarà, di padre Giuseppe Puglisi. Naturalmente tra le inchieste più significative devo ricordare quelle che hanno cercato di approfondire il nodo dei rapporti tra mafia e politica: dal processo contro Vito Ciancimino a quello per l'omicidio dell'on. Salvo Lima; dal processo nei confronti del sen. Giulio Andreotti a quello contro l'on. Marcello Dell'Utri, fino a quello c.d. "Ghiaccio 2", avente per oggetto le relazioni che Giuseppe Guttadauro, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, avrebbe intrattenuto con esponenti del mondo politico regionale. Indipendentemente dall'esito dei processi (qualche volta influenzato da formalismi giuridici o da prescrizioni), queste indagini hanno rappresentato una straordinaria e forse irripetibile fonte di informazioni sulle caratteristiche degli scambi occulti e dei legami sotterranei tra mafia e settori del potere politico e del mondo imprenditoriale, sulle modalità nascoste con cui alcuni segmenti della classe dirigente hanno gestito il potere nel corso degli ultimi decenni. In questa prospettiva, l'aspetto davvero significativo di questi processi è stato forse l'aver raccolto e messo a disposizione dei cittadini - con la fattiva collaborazione, specie nelle prime fasi delle inchieste, dei principali mezzi di comunicazione - un notevole ammontare d'informazioni sui comportamenti dei loro governanti che altrimenti sarebbero rimaste inesorabilmente celate al pubblico. Informazioni che - indipendentemente dall'attestazione delle eventuali responsabilità individuali - si sono dimostrate nella loro quasi totalità rispondenti al vero».
- Come affronterà la "parentesi messinese"?
«Col medesimo spirito col quale in questi anni ho inteso il mio compito di magistrato. Non considero la nuova esperienza come una "parentesi", ma come la prosecuzione di un impegno che ha sempre preso a modello il metodo di lavoro sviluppato da uomini come Gaetano Costa, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, e da tanti altri magistrati che hanno condiviso i loro ideali. In una città come Messina, densa di problemi ma anche ricca di stimoli culturali e civili, cercherò di adempiere ai miei nuovi doveri nella coscienza che gli strumenti migliori per combattere i più gravi fenomeni criminali sono quelli offerti dallo Stato di diritto, attraverso l'opera di una magistratura indipendente e radicata nei valori costituzionali di democrazia».
- Come organizzerà il lavoro della DDA?
«Il mio intento è innanzitutto quello di realizzare una linea di sostanziale continuità - nelle linee essenziali - con i modelli organizzativi già esistenti (costituenti il risultato di una complessa ed approfondita riflessione già compiuta in seno alla Procura di Messina). Naturalmente, poiché la realtà dei fenomeni criminali è in costante evoluzione, a seguito di una riflessione con tutti i colleghi potrà essere di volta in volta esaminata la opportunità di innovazioni, alla luce delle esigenze operative che potranno emergere nel corso della futura attività di contrasto alla criminalità organizzata. In ogni caso, è chiaro che il ruolo del Procuratore della Repubblica deve essere ispirato ad obiettivi di trasparenza dell'attività di direzione dell'ufficio, di elaborazione e realizzazione di modelli organizzativi capaci di promuovere la crescita professionale dei magistrati addetti all'ufficio, la collaborazione e il coordinamento, la circolazione e la socializzazione delle informazioni».
- L'area messinese negli anni '70 e '80 è stata un terreno fertile per mafia e 'ndrangheta, mi riferisco alle infiltrazioni all'Università e alle latitanze eccellenti lungo la zona tirrenica, solo per fare due esempi. La sua lettura del fenomeno attuale?
«Certamente vi è stata una tardiva percezione della pericolosità della presenza mafiosa nel messinese, in parte paradossalmente favorita dalle dichiarazioni dei primi grandi "pentiti" di mafia, i quali - forse in una visione "palermocentrica" e "monopolistica" tipica di Cosa nostra - avevano escluso la presenza della mafia nella maggior parte della provincia di Messina. E quindi Messina per molti anni ha scontato un'ingiustificabile limitatezza di analisi degli insediamenti mafiosi nella provincia del terzo capoluogo siciliano. Ed invece la sua particolare posizione geografica, stretta tra zone di elevatissima presenza mafiosa (Palermo, Catania e - oltre lo Stretto - Reggio Calabria) andava via via determinando un sempre crescente inserimento di interessi mafiosi nel tessuto economico della città. E in un passato non lontano si è anche registrata una preoccupante capacità della criminalità mafiosa locale di insinuarsi nelle dinamiche degli stessi apparati istituzionali. È vero tuttavia che negli ultimi anni questi storici ritardi sono stati sensibilmente corretti dalla intensa attività svolta dagli organi di investigazione, dalla Direzione distrettuale antimafia e dagli altri uffici giudiziari del Distretto. Grazie all'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, sono stati raggiunti risultati di grande rilievo: sono stati individuati e arrestati gli autori di numerosi e gravi delitti; sono state scoperte delle vere e proprie "centrali" del crimine; sono stati recuperati armi ed esplosivi; occulti canali di riciclaggio e di reinvestimento sono stati messi alla luce. Tuttavia molto rimane ancora da fare. Basti citare al riguardo la relazione del Presidente della Corte di Appello di Messina, dott. Nicolò Fazio, per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2008, laddove si osserva che "le associazioni di tipo mafioso, malgrado l'efficace azione di contrasto svolta dalle forze dell'ordine e dalla magistratura, esercitano ancora il loro nefasto potere sulla realtà economica e sociale e ne compromettono lo sviluppo"; ed ancora che "per effetto di una mutazione strategica, la mafia, mimetizzandosi, si è imborghesita e tende ad infiltrarsi negli apparati istituzionali ed in quelli economici degli appalti e dei servizi pubblici, ivi incluso lo smaltimento dei rifiuti, per condizionarli alla ricerca di utilità e benefici illeciti. Così il fenomeno, da frontale quale era, si fa meno leggibile, più insidioso e difficile da combattere in forza dei poteri di persuasione occulta, che contaminano settori un tempo impenetrabili"».
- Messina è stata ed è una città di "zone grigie", di commistioni tra Stato e antistato. Come intende contrastare questo stato di cose?
«In passato si sono verificati a Messina numerosi episodi ascrivibili a quello che dagli organi di informazione è stato definito "caso Messina", espressione con la quale si è inteso definire, soprattutto, un inusuale offuscamento dell'immagine di alcuni apparati dello Stato e una preoccupante capacità della criminalità mafiosa locale di insinuarsi nelle dinamiche degli stessi apparati istituzionali. È chiaro, tuttavia, che non si tratta di un fenomeno soltanto messinese, ma potenzialmente presente anche in altre importanti aree del Mezzogiorno. Infatti, quando si parla di illegalità nel contesto del Mezzogiorno si fa spesso senz'altro (ed esclusivamente) riferimento alle attività criminali delle organizzazioni mafiose, ed in particolare al fenomeno del riciclaggio. Questo fenomeno rappresenta senza dubbio il più allarmante meccanismo di inquinamento dell'economia legale, in quanto tende ad instaurare relazioni di scambio, dalla perdurante natura, fra quest'ultima e quel complesso di soggetti, beni e servizi che danno vita alla c.d. "economia criminale". Ma vi sono altri costi e benefici dell'illegalità che non sono esclusivamente riconducibili alla criminalità organizzata di tipo mafioso. Anche a Messina infatti, come in ampie zone del Mezzogiorno, la illegalità "mafiosa" si combina quasi sistematicamente con almeno altre due forme di illegalità: lo scambio occulto, connesso ai reati di corruzione e concussione e la c.d. "legalità debole", vale a dire l'inefficacia o la distorsione di norme rilevanti per l'attività economica, diverse da quelle di diritto penale (regole stabilite in materia ambientale, previdenziale, lavoristica, commerciale, fiscale, urbanistica, e così via). In questo contesto, la Procura di Messina, insieme a tutta la magistratura civile e penale del Distretto, dovrà profondere un grande impegno per attuare un serio e costante controllo di legalità su fenomeni che condizionano pesantemente il progresso della democrazia e della società civile, e dovrà far di tutto per venire incontro sollecitamente alle richieste di giustizia, specialmente a quelle formulate dai cittadini più deboli e indifesi».
- Dal '74 Cosa nostra com'è cambiata?
«Come dicevo all'inizio, grazie all'azione della magistratura e delle forze dell'ordine sono stati raggiunti risultati di grande rilievo; oggi il mito dell'impunità è stato definitivamente travolto, e la grande maggioranza dei "cervelli pensanti" di Cosa nostra è in carcere, mentre si diffondono positivi segni di reazione all'oppressione mafiosa in seno alla società civile ed al mondo imprenditoriale. In generale, per quanto riguarda gli scenari attuali e del prossimo futuro, si può soltanto osservare che oggi è in atto una fase di transizione, i cui esiti non sono prevedibili con certezza, sia per quanto riguarda il futuro definitivo assetto di vertice, sia l'indirizzo politico-criminale dell'organizzazione mafiosa. Infatti, il quadro fin qui delineato deve tener conto della evidente esistenza all'interno dell'organizzazione mafiosa di uno stato di instabilità e di crisi, determinato da conflitti e da orientamenti trasversali all'interno dei vari mandamenti (taluni palesi, altri occulti) connessi al controllo di determinati territori; da dissensi interni (pure questi trasversali) sulla configurazione e sugli equilibri degli attuali assetti di vertice, dopo la cattura di Bernardo Provenzano e di Salvatore Lo Piccolo; da situazioni di antagonismo tra vari gruppi emergenti i quali ambiscono, in questa fase fluida di ristrutturazione complessiva, a conquistare di fatto e manu militari posizioni di privilegio da convertire poi in posizioni di potere formalizzato e riconosciuto. Detto ciò, in questa delicatissima fase sussiste la possibilità di un improvviso deterioramento dei precari equilibri interni in tutto o in parte del territorio, sia a causa di iniziative concertate di settori determinati dell'organizzazione mafiosa, sia per iniziativa di gruppi emergenti determinati a sottrarsi a logiche complessive e a ridisegnare nuove geografie interne del potere. In conclusione, per quanto riguarda i prossimi scenari, non è possibile prevedere con ragionevole certezza quali saranno le strategie di Cosa nostra; in particolare, non è possibile prevedere se si ripristinerà - in virtù di nuovi compromessi interni - la (finora perseguita) strategia di mimetizzazione, ovvero se prevarranno i fattori di crisi, con la conseguente possibilità di una ripresa di azioni violente all'interno ed all'esterno dell'organizzazione».
- Quanto conta oggi la "componente carceraria" in Cosa nostra?
«È agevole ipotizzare l'esistenza di dissensi tra i vertici di Cosa nostra latitanti e quelli detenuti sulle strategie generali dell'organizzazione oscillanti tra l'esigenza di "invisibilità" e la reazione contro le istituzioni; questa conflittualità si è riprodotta anche all'interno del mondo carcerario fra taluni dei protagonisti della precedente politica stragista ed i fautori di palesi tentativi di mediazione attraverso le ipotesi di dissociazione.I grandi capi detenuti e destinati al carcere a vita hanno certamente ancora uomini d'onore in libertà alle loro dipendenze, cui sono in grado, nonostante il regime dell'art. 41 bis ord. pen., di far pervenire, tramite i familiari o altri canali segreti, direttive per la gestione dei loro patrimoni occultati, per la gestione delle attività illecite e per quelle eventuali iniziative violente che possono incidere sulle dinamiche, sulle strutture e sulle strategie di Cosa nostra, nonché influenzare i futuri rapporti esterni con società, economia e politica».
- L'atteggiamento attuale della politica nei confronti delle organizzazioni mafiose come lo giudica? Il "pacchetto intercettazioni"?
«Per quanto riguarda il rapporto con la politica, ai magistrati spetta di applicare le leggi. È dunque un loro preciso dovere svolgere le indagini imposte dalle notizie di reato con oggettività, scrupolo ed imparzialità, in applicazione del principio costituzionale di eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, senza alcuna distinzione tra imputati "forti" e imputati "deboli". Dopo la tumultuosa (e qualche volta contraddittoria) evoluzione legislativa degli ultimi anni, troppo spesso condizionata dall'emergenza, è evidente che una razionalizzazione è necessaria; ma, in positivo, razionalizzare dovrebbe significare tenere nel giusto conto quello che è successo, e andare avanti per evitare che i lamentati fenomeni della corruzione politico-amministrativa e delle collusioni mafiose possano ripetersi o riprodursi, magari con modalità diverse ma con intensità e pericolosità analoghe a quelle del passato. Su questo tema, è certamente anche un dovere dei magistrati quello di segnalare i problemi che emergono dall'esperienza giudiziaria. E ciò soprattutto in una stagione come questa, di difficile ricerca di soluzioni ordinamentali capaci di garantire i valori della indipendenza, della terzietà, della fedeltà alla Costituzione della magistratura italiana; di una stagione in cui il bilancio della lotta dello Stato alle organizzazioni mafiose è ancora non privo di chiaroscuri e di qualche silenzio; di una stagione in cui è più che mai essenziale la questione del mantenimento e del rafforzamento di quelle condizioni del quadro legislativo e istituzionale generale, che nei primi anni '90 avviarono l'attuazione di una strategia di attacco alle organizzazioni mafiose; una strategia finalizzata non più a contenere, ma ad eliminare una struttura criminale tuttora capace di inquinare il tessuto economico e civile e, virtualmente, anche istituzionale di uno Stato».
- Quando domandavano al grande Gesualdo Bufalino come combattere la mafia lui spesso rispondeva "Ci vorrebbe un esercito di maestri elementari". Si trova d'accordo?
«Le parole di Gesualdo Bufalino sono di grande attualità. C'è ancora molto da fare per giungere non solo alla sconfitta militare dell'organizzazione, ma anche al risultato risolutivo del definitivo sradicamento dei valori e dei modelli di comportamento mafiosi dalla società civile. In proposito, infatti, bisogna ricordare qual è la prima condizione di base di sviluppo delle mafie: l'esistenza di una struttura sociale in cui si afferma (in mancanza di significativi antidoti) un modello culturale di comportamento mafioso che tende a manifestarsi come dipendenza assoluta dell'individuo da un gruppo dai tratti marcatamente antisociali e coercitivi; dipendenza indotta da una strutturazione totalitaria del microcosmo di appartenenza (nell'ordine, famiglia di sangue, famiglia mafiosa o clan). In altri termini, si può affermare che esiste un modo di concepire la famiglia e poi la società civile, cioè i primi nuclei di riferimento per la costruzione della personalità di un individuo, che può determinare con maggiore facilità un comportamento mafioso. La crescita esponenziale dei modelli di comportamento mafioso si verifica pertanto quando le dinamiche distorte di questa struttura di base, che costituisce il primo agente di socializzazione dell'individuo, non vengono adeguatamente neutralizzate dagli agenti di socializzazione secondaria, rappresentati dalla scuola, dalla Chiesa, e poi dai partiti e dai sindacati. Di qui l'importanza decisiva dell'azione della scuola, della Chiesa, e poi dei partiti e dei sindacati; cioè dei c.d. agenti di socializzazione secondaria, che soli sono in grado - proponendo modelli alternativi di educazione - di impedire il successo finale della distorta socializzazione primaria compiuta dalla famiglia e dal clan, con l'effetto di produrre dei perfetti mafiosi».
Tratto da: la gazzetta del sud
Splendida intervista ad uno dei più bravi,valorosi,coraggiosi e capaci magistrati italiani.
Auguri di buon lavoro a Lo Forte,speriamo faccia bene come e più di Palermo.