GianoM
24-04-2008, 14:26
Le idee di Tremonti, pur utili per conquistare consensi elettorali, non lo sono altrettanto per risolvere i problemi dell'Italia. Perché la Cina è ormai una grande potenza commerciale e politica, un enorme mercato di sbocco per le imprese europee e perché dell'importazione dei suoi beni a basso costo beneficiano in tanti. E poi anche altre economie subiscono la concorrenza cinese, ma è la nostra a crescere di meno. Per carenze e inefficienze tutte italiane. Da queste un governo dalla solida maggioranza dovrebbe partire per ridare fiducia a lavoratori e imprese.
Le idee del ministro dell’Economia, che a meno dell’imponderabile, sarà Giulio Tremonti, avranno un peso non indifferente nella piega che la politica economica del costituendo governo assumerà. Ancor più peseranno sul se e sul come troveranno risposta le istanze di tutti coloro che con il loro voto hanno affidato al governo di centrodestra la soluzione delle loro preoccupazioni più immediate: il senso di impoverimento relativo che lamentano ampi strati della popolazione, tra i ceti medi e tra quelli operai, le paure per un futuro che a molti sembra difficile da anticipare e ancor più da pianificare. In altre parole, la domanda di rassicurazione economica che proviene da ampi strati della popolazione, buona parte della quale ha votato per la Lega e per il Partito delle Liberta proprio in virtù di maggiori promesse di protezione. Le idee dell’onorevole Tremonti sembrano inventate apposta per rassicurare questi timori.
IL PENSIERO DI TREMONTI
L’onorevole Tremonti le ha illustrate durante la campagna elettorale ed esposte in modo più articolato in un saggio recente “La paura e la speranza”, di cui in questi giorni i giornali celebrano il successo. Un sunto appare nella sua pagina web. Quelle idee sono forse uno degli ingredienti che spiega il successo elettorale della coalizione di centrodestra. Riusciranno anche a dare soddisfazione a quegli elettori? L’analisi di Tremonti dello stato dell’economia italiana è riassumibile in una serie di punti che è utile ripercorrere.
1. Le difficoltà che attraversa la nostra economia originano in larga misura dalla forte pressione competitiva che proviene dalle nuove economie e innanzitutto dalla Cina.
2. Alla rapida crescita cinese si attribuisce il rincaro dei prezzi dei beni che compongono il paniere degli italiani e la conseguente perdita di potere d’acquisto da tanti lamentata. Alla Cina, e alla sua concorrenza “sleale” si imputa la difficoltà di tante imprese, spesso di piccole dimensioni, che lottano quotidianamente per non essere estromesse dal mercato. Queste stesse difficoltà sono condivise dai lavoratori di quelle imprese, che ne seguono le sorti e in parte ne hanno gia subito le conseguenze, o con tagli salariali o con la perdita del lavoro e la conseguente costosa riallocazione presso altre imprese. Da qui una domanda crescente di protezione.
3. La ricetta: proteggere lavoratori e imprese “gestendo” la globalizzazione, cercando di contenere la crescita e la pressione competitiva cinese (ma anche indiana) con una qualche forma di governo mondiale dell’economia, di cui il governo italiano si farebbe promotore presso gli altri paesi dell’Unione.
4. Estendendo questa la logica, anche quel senso di più acuta insicurezza personale che molti lamentano e ricollegano alle recenti ondate di immigrazioni, sarebbe figlia del mancato governo della “globabilizzazione” e degli spostamenti crescenti di lavoratori che ha provocato.
Secondo l’onorevole Tremonti, dunque, i guai dell’Italia originano da fuori, da una globalizzazione non governata, del cui non governo sono responsabili i “maniaci” del mercato, e che è ora necessario imbrigliare per proteggere lavoratori e imprese italiane (od occidentali) dai suoi effetti più diretti. Se la Cina crescesse meno, esercitasse minor pressione competitiva, i nostri lavoratori e le nostre imprese ne sarebbero sollevati. È la tesi no-global di Tremonti che non sorprendentemente ha raccolto il consenso di Fausto Bertinotti. Ma mentre Tremonti adombrava una soluzione – imbrigliare la Cina e proteggere imprese e lavoratori, magari con dazi o quote sull’import di beni cinesi – l’onorevole Bertinotti discettava, senza accorgersi che gli stavano soffiando gli elettori sotto il naso.
RICETTA SBAGLIATA
Che implicazioni ha tutto ciò sulla politica economica del futuro governo e in particolare sulla politica fiscale? Se Tremonti potesse effettivamente fare quello che secondo lui sarebbe utile fare, verosimilmente vi sarebbero pochi effetti. Il governo dovrebbe comunque affrontare il problema del debito, cercare di stabilizzarlo e contenerlo: un compito difficile, ma potenzialmente perseguibile.
Ma se non riesce a fare quello che secondo lui andrebbe fatto, allora la domanda di protezione dei cittadini dovrà essere soddisfatta in altra maniera o non essere soddisfatta affatto. Il secondo scenario è quello realistico. Se anche l’analisi di Tremonti fosse corretta, e non lo è, di certo non lo è la ricetta. Non solo perché dazi e protezione commerciale come abbiamo appreso da anni sono alla lunga dannosi per chi li adotta, ma, più realisticamente, perché oggi sono inapplicabili. E una ricetta inapplicabile, per chi fa politica economica, è ancor peggio di una ricetta parzialmente difettosa.
Queste le ragioni. Primo, la Cina è ormai una enorme potenza commerciale e politica. Economicamente è il secondo più grande paese al mondo dopo gli Stati Uniti, è presente in 174 paesi con oltre cinquemila imprese, produce più di tre volte dell’Italia (Pil in Ppp), ha una popolazione di 1.3 miliardi di persone, cresce del 10 per cento all’anno e, a questi ritmi, fra cinque anni la sua produzione sarà sei volte più grande di quella dell’Italia e pari al 70 per cento di quella dell’intera Unione Europea. Difficile “imbrigliare” un tale potenza.
Lo stesso dibattito che imperversa in Italia e la stessa domanda di protezione attraversa da diversi anni gli Stati Uniti. Quello che le lobby industriali americane, notoriamente potenti e organizzate, sono riuscite a ottenere dall’amministrazione è stata solo una certa pressione sulla Cina perché lasciasse apprezzare lo yuan, ma nessuna cessione sulla richiesta di quote e dazi avanzate da un manipolo di senatori al Congresso. Ciò che la Cina ha concesso è un modesto apprezzamento del 15 per cento dello yuan sul dollaro, da quando ha abbandonato il cambio fisso. Non si vede perché Tremonti (o l’Italia) possa riuscire dove non riescono i ben più potenti Stati Uniti d’America.
In secondo luogo, la Cina è ormai un enorme mercato di sbocco per le nostre imprese e per quelle degli altri paesi europei. Molte (le migliori) vi sono gia insediate, altre hanno in animo di farlo, altre semplicemente vi esportano i loro prodotti o importano dalla Cina prodotti intermedi e semilavorati a basso costo. Una economia che cresce al tasso del 10 per cento all’anno è una manna per molti. Difficile ottenere il consenso di queste imprese su una politica protezionistica.
Terzo, dell’importazione di beni cinesi a basso costo beneficiano in tanti, forse senza neanche rendersene conto; ma ne prenderebbero immediatamente coscienza il giorno in cui quei beni dovessero essere soggetti a quota e quindi immediatamente diventare più costosi. Un esempio per tutti: buona parte dei manufatti di Ikea sono made in China e sono acquistati con soddisfazione da decine di migliaia di persone. Le associazioni dei consumatori, in Italia e in Europa, si ribellerebbero a proposte di contingentamento di questi manufatti.
Insomma, la ricetta Tremonti poteva forse essere tentata (ma ne dubito) dieci anni fa, quando la Cina iniziava il suo cammino; oggi è semplicemente inapplicabile: troppo tardi. La domanda di protezione dovrà essere soddisfatta attraverso altre strade o non essere soddisfatta affatto. Credo che quello che realisticamente avverrà sarà una combinazione delle due cose. Un po’ di trasferimenti pubblici e un po’ di detassazione mirata e limitata, dati i vincoli stringenti sulla finanza pubblica. Ma soprattutto un abbandono di fatto delle promesse di protezione a cui si è alluso in campagna elettorale.
CARENZE TUTTE ITALIANE
Esiste una alternativa più seria che, se perseguita, potrà lentamente ridare al paese e ai suoi cittadini la capacità di vedere lontano e pianificare meglio il proprio futuro, rassicurandoli nel presente. Ma questo richiede l’abbandono di alcune delle premesse del ragionamento tremontiano.
Innanzitutto la presa d’atto che la Cina esiste per tutti non solo per i lavoratori e le imprese italiane. Ma l’Italia da dieci anni a questa parte cresce sistematicamente meno degli altri in Europa: circa un punto percentuale in meno all’anno. Questo non è imputabile alla Cina, ma solo e unicamente alle carenze nazionali, alle riforme non fatte, alle liberalizzazioni solo accennate e mai perseguite fino in fondo, al peso delle inefficienze del settore pubblico, alla cattiva qualità dell’intervento dello Stato in economia (un esempio per tutti, la gestione della crisi dell’Alitalia), all’eccessiva quantità di questo intervento.
Il prossimo governo, con la maggioranza solida che lo caratterizza, può aver successo dove altri hanno fallito o sono stati troppo timidi, come sulle liberalizzazioni lanciate da Bersani. Recuperare un punto di crescita di Pil all’anno sarebbe un notevole risultato: da solo sarebbe sufficiente a ridare certezza e prospettiva a lavoratori e imprese.
Le idee di Tremonti, pur rivelatesi utili per conquistare consensi in campagna elettorale, non lo saranno altrettanto per risolvere i problemi del paese. Meglio cambiarle.
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1000380.html
Le idee del ministro dell’Economia, che a meno dell’imponderabile, sarà Giulio Tremonti, avranno un peso non indifferente nella piega che la politica economica del costituendo governo assumerà. Ancor più peseranno sul se e sul come troveranno risposta le istanze di tutti coloro che con il loro voto hanno affidato al governo di centrodestra la soluzione delle loro preoccupazioni più immediate: il senso di impoverimento relativo che lamentano ampi strati della popolazione, tra i ceti medi e tra quelli operai, le paure per un futuro che a molti sembra difficile da anticipare e ancor più da pianificare. In altre parole, la domanda di rassicurazione economica che proviene da ampi strati della popolazione, buona parte della quale ha votato per la Lega e per il Partito delle Liberta proprio in virtù di maggiori promesse di protezione. Le idee dell’onorevole Tremonti sembrano inventate apposta per rassicurare questi timori.
IL PENSIERO DI TREMONTI
L’onorevole Tremonti le ha illustrate durante la campagna elettorale ed esposte in modo più articolato in un saggio recente “La paura e la speranza”, di cui in questi giorni i giornali celebrano il successo. Un sunto appare nella sua pagina web. Quelle idee sono forse uno degli ingredienti che spiega il successo elettorale della coalizione di centrodestra. Riusciranno anche a dare soddisfazione a quegli elettori? L’analisi di Tremonti dello stato dell’economia italiana è riassumibile in una serie di punti che è utile ripercorrere.
1. Le difficoltà che attraversa la nostra economia originano in larga misura dalla forte pressione competitiva che proviene dalle nuove economie e innanzitutto dalla Cina.
2. Alla rapida crescita cinese si attribuisce il rincaro dei prezzi dei beni che compongono il paniere degli italiani e la conseguente perdita di potere d’acquisto da tanti lamentata. Alla Cina, e alla sua concorrenza “sleale” si imputa la difficoltà di tante imprese, spesso di piccole dimensioni, che lottano quotidianamente per non essere estromesse dal mercato. Queste stesse difficoltà sono condivise dai lavoratori di quelle imprese, che ne seguono le sorti e in parte ne hanno gia subito le conseguenze, o con tagli salariali o con la perdita del lavoro e la conseguente costosa riallocazione presso altre imprese. Da qui una domanda crescente di protezione.
3. La ricetta: proteggere lavoratori e imprese “gestendo” la globalizzazione, cercando di contenere la crescita e la pressione competitiva cinese (ma anche indiana) con una qualche forma di governo mondiale dell’economia, di cui il governo italiano si farebbe promotore presso gli altri paesi dell’Unione.
4. Estendendo questa la logica, anche quel senso di più acuta insicurezza personale che molti lamentano e ricollegano alle recenti ondate di immigrazioni, sarebbe figlia del mancato governo della “globabilizzazione” e degli spostamenti crescenti di lavoratori che ha provocato.
Secondo l’onorevole Tremonti, dunque, i guai dell’Italia originano da fuori, da una globalizzazione non governata, del cui non governo sono responsabili i “maniaci” del mercato, e che è ora necessario imbrigliare per proteggere lavoratori e imprese italiane (od occidentali) dai suoi effetti più diretti. Se la Cina crescesse meno, esercitasse minor pressione competitiva, i nostri lavoratori e le nostre imprese ne sarebbero sollevati. È la tesi no-global di Tremonti che non sorprendentemente ha raccolto il consenso di Fausto Bertinotti. Ma mentre Tremonti adombrava una soluzione – imbrigliare la Cina e proteggere imprese e lavoratori, magari con dazi o quote sull’import di beni cinesi – l’onorevole Bertinotti discettava, senza accorgersi che gli stavano soffiando gli elettori sotto il naso.
RICETTA SBAGLIATA
Che implicazioni ha tutto ciò sulla politica economica del futuro governo e in particolare sulla politica fiscale? Se Tremonti potesse effettivamente fare quello che secondo lui sarebbe utile fare, verosimilmente vi sarebbero pochi effetti. Il governo dovrebbe comunque affrontare il problema del debito, cercare di stabilizzarlo e contenerlo: un compito difficile, ma potenzialmente perseguibile.
Ma se non riesce a fare quello che secondo lui andrebbe fatto, allora la domanda di protezione dei cittadini dovrà essere soddisfatta in altra maniera o non essere soddisfatta affatto. Il secondo scenario è quello realistico. Se anche l’analisi di Tremonti fosse corretta, e non lo è, di certo non lo è la ricetta. Non solo perché dazi e protezione commerciale come abbiamo appreso da anni sono alla lunga dannosi per chi li adotta, ma, più realisticamente, perché oggi sono inapplicabili. E una ricetta inapplicabile, per chi fa politica economica, è ancor peggio di una ricetta parzialmente difettosa.
Queste le ragioni. Primo, la Cina è ormai una enorme potenza commerciale e politica. Economicamente è il secondo più grande paese al mondo dopo gli Stati Uniti, è presente in 174 paesi con oltre cinquemila imprese, produce più di tre volte dell’Italia (Pil in Ppp), ha una popolazione di 1.3 miliardi di persone, cresce del 10 per cento all’anno e, a questi ritmi, fra cinque anni la sua produzione sarà sei volte più grande di quella dell’Italia e pari al 70 per cento di quella dell’intera Unione Europea. Difficile “imbrigliare” un tale potenza.
Lo stesso dibattito che imperversa in Italia e la stessa domanda di protezione attraversa da diversi anni gli Stati Uniti. Quello che le lobby industriali americane, notoriamente potenti e organizzate, sono riuscite a ottenere dall’amministrazione è stata solo una certa pressione sulla Cina perché lasciasse apprezzare lo yuan, ma nessuna cessione sulla richiesta di quote e dazi avanzate da un manipolo di senatori al Congresso. Ciò che la Cina ha concesso è un modesto apprezzamento del 15 per cento dello yuan sul dollaro, da quando ha abbandonato il cambio fisso. Non si vede perché Tremonti (o l’Italia) possa riuscire dove non riescono i ben più potenti Stati Uniti d’America.
In secondo luogo, la Cina è ormai un enorme mercato di sbocco per le nostre imprese e per quelle degli altri paesi europei. Molte (le migliori) vi sono gia insediate, altre hanno in animo di farlo, altre semplicemente vi esportano i loro prodotti o importano dalla Cina prodotti intermedi e semilavorati a basso costo. Una economia che cresce al tasso del 10 per cento all’anno è una manna per molti. Difficile ottenere il consenso di queste imprese su una politica protezionistica.
Terzo, dell’importazione di beni cinesi a basso costo beneficiano in tanti, forse senza neanche rendersene conto; ma ne prenderebbero immediatamente coscienza il giorno in cui quei beni dovessero essere soggetti a quota e quindi immediatamente diventare più costosi. Un esempio per tutti: buona parte dei manufatti di Ikea sono made in China e sono acquistati con soddisfazione da decine di migliaia di persone. Le associazioni dei consumatori, in Italia e in Europa, si ribellerebbero a proposte di contingentamento di questi manufatti.
Insomma, la ricetta Tremonti poteva forse essere tentata (ma ne dubito) dieci anni fa, quando la Cina iniziava il suo cammino; oggi è semplicemente inapplicabile: troppo tardi. La domanda di protezione dovrà essere soddisfatta attraverso altre strade o non essere soddisfatta affatto. Credo che quello che realisticamente avverrà sarà una combinazione delle due cose. Un po’ di trasferimenti pubblici e un po’ di detassazione mirata e limitata, dati i vincoli stringenti sulla finanza pubblica. Ma soprattutto un abbandono di fatto delle promesse di protezione a cui si è alluso in campagna elettorale.
CARENZE TUTTE ITALIANE
Esiste una alternativa più seria che, se perseguita, potrà lentamente ridare al paese e ai suoi cittadini la capacità di vedere lontano e pianificare meglio il proprio futuro, rassicurandoli nel presente. Ma questo richiede l’abbandono di alcune delle premesse del ragionamento tremontiano.
Innanzitutto la presa d’atto che la Cina esiste per tutti non solo per i lavoratori e le imprese italiane. Ma l’Italia da dieci anni a questa parte cresce sistematicamente meno degli altri in Europa: circa un punto percentuale in meno all’anno. Questo non è imputabile alla Cina, ma solo e unicamente alle carenze nazionali, alle riforme non fatte, alle liberalizzazioni solo accennate e mai perseguite fino in fondo, al peso delle inefficienze del settore pubblico, alla cattiva qualità dell’intervento dello Stato in economia (un esempio per tutti, la gestione della crisi dell’Alitalia), all’eccessiva quantità di questo intervento.
Il prossimo governo, con la maggioranza solida che lo caratterizza, può aver successo dove altri hanno fallito o sono stati troppo timidi, come sulle liberalizzazioni lanciate da Bersani. Recuperare un punto di crescita di Pil all’anno sarebbe un notevole risultato: da solo sarebbe sufficiente a ridare certezza e prospettiva a lavoratori e imprese.
Le idee di Tremonti, pur rivelatesi utili per conquistare consensi in campagna elettorale, non lo saranno altrettanto per risolvere i problemi del paese. Meglio cambiarle.
http://www.lavoce.info/articoli/pagina1000380.html