dasdsasderterowaa
20-04-2008, 11:15
Un Paese meno anomalo al netto dei luoghi comuni
Fonte: http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_cronache_NOTIZIA_01.asp?IDNotizia=199244&IDCategoria=1
«La democrazia italiana del dopoguerra in molti sensi è apparsa all’avanguardia dell’innovazione politica (...) non è stata una democrazia immobilista, stagnante». Questa insolita affermazione di uno storico e commentatore politico inglese, Joseph LaPalombara, autore di saggi sulle caratteristiche della democrazia dell’Italia del dopo fascismo, viene oggi riproposta in una articolata ricognizione storiografica compiuta da qualificati studiosi stranieri. Le diverse valutazioni sulla classe politica italiana, sui processi di modernizzazione, sul Mezzogiorno e sui mutamenti di valori e mentalità sono raccolti in un denso volume, curato da un docente dell’università di Cambridge, Stuart Wuolf, L’Italia repubblicana vista da fuori (1945-2000), per i tipi del Mulino (pagg. 500, euro 25,00).
L’iniziativa di affidare ad osservatori esterni, europei e non, le valutazioni sull’Italia della seconda metà del XX secolo è stata assunta dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, che sin dalla sia fondazione a opera di Ferruccio Parri nel 1949, è impegnato a sostenere con la propria attività i valori ispiratori della Resistenza espressi nella Costituzione repubblicana.
Le tinte fosche con cui i commentatori politici hanno presentato l’Italia dopo il crollo della prima repubblica per effetto delle inchieste sulla corruzione, sulla mafia e lo stereotipo, diffuso anche tra gli italiani, che aldilà delle Alpi tutto funzioni meglio, sono al centro di studi sistematici che rompono i luoghi comuni ed offrono una immagine meno cupa della penisola. Balza all’attenzione l’indagine dello storico britannico Mark Gilbert, che ha come come punto di riferimento libri di studiosi inglesi, molto noti in Italia, tra cui Denis Mack Smith, Paul Ginsborg, H. Stuart Hughes e J. LaPalombara; egli sottolinea la parzialità dei loro giudizi sulla classe dirigente o sul mondo imprenditoriale del nostro paese, presentati come carenti di spirito pubblico ed interpreti della modernità solo in termini di tornaconto personale.
«Nel passare in rassegna - sostiene Gilbert - circa cinquant’anni di commenti e di analisi sui partiti politici e il sistema di governo italiani, colpisce con quanta frequenza gli studiosi britannici ed americani abbiano analizzato gli avvenimenti attraverso il prisma del loro liberalismo».
Anche il sociologo ed antropologo David Moss respinge l’assunto che l’Italia sia un paese anomalo per effetto della permanenza di valori anacronistici e ritiene che tali valori «vengano interpretati in stretto rapporto con una mobilità, geografica e sociale senza precedenti nella storia d’Italia». Per lo studioso l’appartenenza territoriale ed i problemi dell’identità locale, fenomeni su cui si è concentrato l’interesse politico a causa dei successi della Lega Nord, non appaiono affatto preoccupanti e non destano timori di rilievo. Non si rilevano, infatti, le tensioni tipiche delle migrazioni precedenti che spinsero gli italiani a competere gli uni con gli altri anche per l’accesso alle risorse. «Molti aspetti delle specificità e delle identità e dei valori italiani risiedono nella gamma di attività a cui vengono associati piuttosto che in sentimenti insolitamente profondi di cui sembrano essere espressione».
Su questa lunghezza d’onda si colloca l’indagine da parte di Rolf Petri sulla rappresentazione dell’economia italiana da parte della stampa economica tedesca che riflette tutto sommato «l’autorappresentazione del proprio modello economico». Nell’informazione economica degli anni Sessanta i fenomeni della crescita della Fiat e dell’Eni erano sottovalutati e considerati in rapporto quasi esclusivo con il sostegno pubblico. L’Italia e gli scioperi costituivano uno degli stereotipi più diffusi della stampa economica tedesca incapace spesso di cogliere gli elementi di dinamismo e le cause della effettiva conflittualità nel sistema produttivo italiano.
Più complesso appare lo sguardo straniero sul Mezzogiorno oggetto di una ampia disamina da parte dello storico John A. Davis che considera i modelli teorici con cui gli scienziati sociali hanno considerato il Sud. Il concetto di modernizzazione è alla base infatti della rappresentazione di Edward Banfield che alla fine degli anni Cinquanta considerò le comunità meridionali incapaci di costituire forme di organizzazione collettive (associazioni, cooperative). Le cause di questo fenomeno per il sociologo americano erano da ricercare in una concezione della vita definita «familismo amorale», in base alla quale l’attività dei gruppi famigliari era concentrata su se stessa con l’esclusione di tutto il resto. Questa teoria, contrastata da altri sociologi che imputavano alla povertà ed alla insicurezza tale comportamento sociale, è stata recentemente riconsiderata.
Il Mezzogiorno secondo Davis non si presenta più come una entità uniforme, soprattutto se si assumono come punto di riferimento le situazioni di dinamismo in alcune zone del Molise, della Basilicata, della Puglia, che fanno pensare al Galles e all’Irlanda, regioni un tempo caratterizzate da condizioni di sottosviluppo. La categoria dell’«arretratezza», rivela ancora lo storico inglese, mostra tutto il suo limite ed è inadeguata a rappresentare la nuova realtà del Meridione.
Mentre decisamente critica è la valutazione del comportamento civico degli italiani, oggetto di un saggio conclusivo da parte di un antropologo australiano, Alastair Davidson, che ritiene deficitaria la partecipazione dei cittadini nello spazio pubblico e sottolinea l’eccesso di localismo e di regionalismo assieme ad un «allarmante ritardo nelle pratiche pubbliche e civili a livello nazionale e globale».
Fonte: http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_cronache_NOTIZIA_01.asp?IDNotizia=199244&IDCategoria=1
«La democrazia italiana del dopoguerra in molti sensi è apparsa all’avanguardia dell’innovazione politica (...) non è stata una democrazia immobilista, stagnante». Questa insolita affermazione di uno storico e commentatore politico inglese, Joseph LaPalombara, autore di saggi sulle caratteristiche della democrazia dell’Italia del dopo fascismo, viene oggi riproposta in una articolata ricognizione storiografica compiuta da qualificati studiosi stranieri. Le diverse valutazioni sulla classe politica italiana, sui processi di modernizzazione, sul Mezzogiorno e sui mutamenti di valori e mentalità sono raccolti in un denso volume, curato da un docente dell’università di Cambridge, Stuart Wuolf, L’Italia repubblicana vista da fuori (1945-2000), per i tipi del Mulino (pagg. 500, euro 25,00).
L’iniziativa di affidare ad osservatori esterni, europei e non, le valutazioni sull’Italia della seconda metà del XX secolo è stata assunta dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, che sin dalla sia fondazione a opera di Ferruccio Parri nel 1949, è impegnato a sostenere con la propria attività i valori ispiratori della Resistenza espressi nella Costituzione repubblicana.
Le tinte fosche con cui i commentatori politici hanno presentato l’Italia dopo il crollo della prima repubblica per effetto delle inchieste sulla corruzione, sulla mafia e lo stereotipo, diffuso anche tra gli italiani, che aldilà delle Alpi tutto funzioni meglio, sono al centro di studi sistematici che rompono i luoghi comuni ed offrono una immagine meno cupa della penisola. Balza all’attenzione l’indagine dello storico britannico Mark Gilbert, che ha come come punto di riferimento libri di studiosi inglesi, molto noti in Italia, tra cui Denis Mack Smith, Paul Ginsborg, H. Stuart Hughes e J. LaPalombara; egli sottolinea la parzialità dei loro giudizi sulla classe dirigente o sul mondo imprenditoriale del nostro paese, presentati come carenti di spirito pubblico ed interpreti della modernità solo in termini di tornaconto personale.
«Nel passare in rassegna - sostiene Gilbert - circa cinquant’anni di commenti e di analisi sui partiti politici e il sistema di governo italiani, colpisce con quanta frequenza gli studiosi britannici ed americani abbiano analizzato gli avvenimenti attraverso il prisma del loro liberalismo».
Anche il sociologo ed antropologo David Moss respinge l’assunto che l’Italia sia un paese anomalo per effetto della permanenza di valori anacronistici e ritiene che tali valori «vengano interpretati in stretto rapporto con una mobilità, geografica e sociale senza precedenti nella storia d’Italia». Per lo studioso l’appartenenza territoriale ed i problemi dell’identità locale, fenomeni su cui si è concentrato l’interesse politico a causa dei successi della Lega Nord, non appaiono affatto preoccupanti e non destano timori di rilievo. Non si rilevano, infatti, le tensioni tipiche delle migrazioni precedenti che spinsero gli italiani a competere gli uni con gli altri anche per l’accesso alle risorse. «Molti aspetti delle specificità e delle identità e dei valori italiani risiedono nella gamma di attività a cui vengono associati piuttosto che in sentimenti insolitamente profondi di cui sembrano essere espressione».
Su questa lunghezza d’onda si colloca l’indagine da parte di Rolf Petri sulla rappresentazione dell’economia italiana da parte della stampa economica tedesca che riflette tutto sommato «l’autorappresentazione del proprio modello economico». Nell’informazione economica degli anni Sessanta i fenomeni della crescita della Fiat e dell’Eni erano sottovalutati e considerati in rapporto quasi esclusivo con il sostegno pubblico. L’Italia e gli scioperi costituivano uno degli stereotipi più diffusi della stampa economica tedesca incapace spesso di cogliere gli elementi di dinamismo e le cause della effettiva conflittualità nel sistema produttivo italiano.
Più complesso appare lo sguardo straniero sul Mezzogiorno oggetto di una ampia disamina da parte dello storico John A. Davis che considera i modelli teorici con cui gli scienziati sociali hanno considerato il Sud. Il concetto di modernizzazione è alla base infatti della rappresentazione di Edward Banfield che alla fine degli anni Cinquanta considerò le comunità meridionali incapaci di costituire forme di organizzazione collettive (associazioni, cooperative). Le cause di questo fenomeno per il sociologo americano erano da ricercare in una concezione della vita definita «familismo amorale», in base alla quale l’attività dei gruppi famigliari era concentrata su se stessa con l’esclusione di tutto il resto. Questa teoria, contrastata da altri sociologi che imputavano alla povertà ed alla insicurezza tale comportamento sociale, è stata recentemente riconsiderata.
Il Mezzogiorno secondo Davis non si presenta più come una entità uniforme, soprattutto se si assumono come punto di riferimento le situazioni di dinamismo in alcune zone del Molise, della Basilicata, della Puglia, che fanno pensare al Galles e all’Irlanda, regioni un tempo caratterizzate da condizioni di sottosviluppo. La categoria dell’«arretratezza», rivela ancora lo storico inglese, mostra tutto il suo limite ed è inadeguata a rappresentare la nuova realtà del Meridione.
Mentre decisamente critica è la valutazione del comportamento civico degli italiani, oggetto di un saggio conclusivo da parte di un antropologo australiano, Alastair Davidson, che ritiene deficitaria la partecipazione dei cittadini nello spazio pubblico e sottolinea l’eccesso di localismo e di regionalismo assieme ad un «allarmante ritardo nelle pratiche pubbliche e civili a livello nazionale e globale».