Ser21
24-03-2008, 13:26
"Una commissione parlamentare per la verita' sulle stragi di mafia"
di Maria Vittoria Giannotti - 23 marzo 2008
La proposta di Pierluigi Vigna per fare chiarezza anche sui "mandanti occulti" delle bombe ai Georgofili, a Roma e Milano.
Firenze. Una commissione parlamentare sulle stragi di mafia che, nel 1993, insanguinarono l’Italia, da Roma a Milano, devastando la Galleria degli Uffizi e l’Accade- mia dei Georgofili, a Firenze. Per l’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna potrebbe essere questo lo strumento ideale per tentare di dare una risposta a tutte quelle domande che, sulla strategia terroristica di Cosa Nostra inaugurata con gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino e proseguita con attentati e sabotaggi. Per la giustizia i responsabili di quelle auto cariche di tritolo, che uccisero dieci persone e ne ferirono più di cento, sono 15, tutti condannati all’ergastolo. E tutti esponenti del clan dei Corleonesi. Tra loro, anche Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma sull’esistenza di mandanti esterni a Cosa Nostra, i cosiddetti «mandanti a volto coperto» come Vigna ebbe a definirli, non è mai stata fatta chiarezza. Nonostante quattro inchieste aperte. Eppure di un «dinamismo politico» affiancato a quello militare della mafia parlò anche il giudice Gabriele Chelazzi, scomparso nel 2003, che la notte di quel maggio si trovò con Vigna tra la macerie dei Georgofili. Per l’ultimo filone d’inchiesta, quello mirato ad appurare eventuali rapporti tra ambienti massonici e la mafia catanese, la richiesta di archiviazione, da parte della Procura fiorentina, è arrivata lo scorso dicembre. Intanto i parenti delle vittime della strage di via dei Georgofili hanno minacciato uno sciopero della fame contro i mancati risarcimenti di 12 milioni di euro previsti dalle sentenze civili di condanna.
Procuratore, la Procura fiorentina ha chiesto l’archiviazione.
«La giustizia ha delle scadenze e dei tempi definiti che non possono non essere rispettati. In questo caso, la richiesta di archiviazione è stata una scelta obbligata, in mancanza di nuovi input. Ma la legge prevede anche che in qualunque momento dovessero emergere nuovi elementi, le indagini vengano riaperte.
Cosa serve per riaprire le indagini?
«Le dichiarazioni attendibili di qualcuno che sa. Ma su questo punto le speranze sono un po’ inaridite».
Forse passando il tempo, venendo meno certi interessi…
«Questa è una possibilità, ma bisogna che si verifichi. Per i processi ci vogliono prove, e non sospetti».
I colpevoli, sono stati individuati, e sono tutti interni a Cosa Nostra.
«È uno dei pochi casi, in Italia, in cui, per una strage, siamo arrivati a un punto fermo, a una condanna definitiva».
Oltre al delitto di strage, gli inquirenti contestarono anche l’aggravante di eversione.
«Perché l’ipotesi investigativa, vagliata nel corso di questi quindici anni, era che Cosa Nostra volesse costringere lo Stato a eliminare leggi non gradite. E questo è proprio il concetto di terrorismo, accolto dalla nostra legislazione a partire dal 2005: una condotta che provoca un grave danno allo Stato con la finalità di costringere un’autorità a fare o non fare qualcosa».
Ma cosa temeva la mafia?
«Tanto per cominciare, in seguito alla strage di via D’Amelio, nel luglio del ’92, fu introdotto l’articolo 41 bis, che rendeva possibile l’applicazione del regime speciale, il cosiddetto carcere duro, ai detenuti per reati di criminalità organizzata. E poi, proprio nei primi anni Novanta, si infittirono i sequestri e le confische dei beni di proprietà delle cosche, resi possibili grazie alla legge introdotta nel settembre del 1982, un’altra legge che, alla mafia, non era mai andata giù perché ne minava la potenza economica. Stesso discorso per la legge sulla protezione dei collaboratori di giustizia del gennaio del ’91. A metà degli anni Ottanta pentiti del calibro di Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Totuccio Contorno avevano cominciato a parlare».
E la mafia, quindi, dichiarò guerra allo Stato. Ma perché colpire le città d’arte?
«Questo è stato un argomento su cui gli investigatori hanno riflettuto a lungo. Colpendo una persona, che fosse un investigatore o un magistrato, c’era sempre la possibilità che questi venisse sostituito e qualcun altro portasse avanti il lavoro intrapreso. Colpendo, invece, dei simboli artistici irripetibili, si otteneva lo scopo di provocare un danno irrimediabile al turismo. Tantevvero che, secondo quanto emerse dalle indagini, uno dei progetti, poi non attuati, era quello di spargere siringhe infette sulle spiagge dell’Adriatico. L’obiettivo, insomma, era quello di portare un danno economico concreto, costringendo lo Stato a fare dietrofront».
Però lo Stato rispose con fermezza. Non ci fu alcuna trattativa.
«Come è giusto che sia».
Per scoprire i concorrenti esterni di quelle stragi sono state aperte quattro inchieste, tutte archiviate. Oggi che cosa è possibile fare per non lasciare che tutto il lavoro svolto finora vada perduto?
«La giustizia penale non arriva dappertutto. Tre anni fa, nel corso di un convegno, proposi l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta per esplorare quest’aspetto rimasto, per così dire, scoperto».
In questo caso non ci sono scadenze. Crede che questa sia una strada ancora percorribile?
«Sì, quanto meno per dare tranquillità alle coscienze».
L'UNITA' 23 MARZO 2008
Più tardi posto un commento,intanto mi sembrava interessante condividere la notizia con voi,dato che Vigna nell'antimafia ha un certo qual peso.
di Maria Vittoria Giannotti - 23 marzo 2008
La proposta di Pierluigi Vigna per fare chiarezza anche sui "mandanti occulti" delle bombe ai Georgofili, a Roma e Milano.
Firenze. Una commissione parlamentare sulle stragi di mafia che, nel 1993, insanguinarono l’Italia, da Roma a Milano, devastando la Galleria degli Uffizi e l’Accade- mia dei Georgofili, a Firenze. Per l’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna potrebbe essere questo lo strumento ideale per tentare di dare una risposta a tutte quelle domande che, sulla strategia terroristica di Cosa Nostra inaugurata con gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino e proseguita con attentati e sabotaggi. Per la giustizia i responsabili di quelle auto cariche di tritolo, che uccisero dieci persone e ne ferirono più di cento, sono 15, tutti condannati all’ergastolo. E tutti esponenti del clan dei Corleonesi. Tra loro, anche Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma sull’esistenza di mandanti esterni a Cosa Nostra, i cosiddetti «mandanti a volto coperto» come Vigna ebbe a definirli, non è mai stata fatta chiarezza. Nonostante quattro inchieste aperte. Eppure di un «dinamismo politico» affiancato a quello militare della mafia parlò anche il giudice Gabriele Chelazzi, scomparso nel 2003, che la notte di quel maggio si trovò con Vigna tra la macerie dei Georgofili. Per l’ultimo filone d’inchiesta, quello mirato ad appurare eventuali rapporti tra ambienti massonici e la mafia catanese, la richiesta di archiviazione, da parte della Procura fiorentina, è arrivata lo scorso dicembre. Intanto i parenti delle vittime della strage di via dei Georgofili hanno minacciato uno sciopero della fame contro i mancati risarcimenti di 12 milioni di euro previsti dalle sentenze civili di condanna.
Procuratore, la Procura fiorentina ha chiesto l’archiviazione.
«La giustizia ha delle scadenze e dei tempi definiti che non possono non essere rispettati. In questo caso, la richiesta di archiviazione è stata una scelta obbligata, in mancanza di nuovi input. Ma la legge prevede anche che in qualunque momento dovessero emergere nuovi elementi, le indagini vengano riaperte.
Cosa serve per riaprire le indagini?
«Le dichiarazioni attendibili di qualcuno che sa. Ma su questo punto le speranze sono un po’ inaridite».
Forse passando il tempo, venendo meno certi interessi…
«Questa è una possibilità, ma bisogna che si verifichi. Per i processi ci vogliono prove, e non sospetti».
I colpevoli, sono stati individuati, e sono tutti interni a Cosa Nostra.
«È uno dei pochi casi, in Italia, in cui, per una strage, siamo arrivati a un punto fermo, a una condanna definitiva».
Oltre al delitto di strage, gli inquirenti contestarono anche l’aggravante di eversione.
«Perché l’ipotesi investigativa, vagliata nel corso di questi quindici anni, era che Cosa Nostra volesse costringere lo Stato a eliminare leggi non gradite. E questo è proprio il concetto di terrorismo, accolto dalla nostra legislazione a partire dal 2005: una condotta che provoca un grave danno allo Stato con la finalità di costringere un’autorità a fare o non fare qualcosa».
Ma cosa temeva la mafia?
«Tanto per cominciare, in seguito alla strage di via D’Amelio, nel luglio del ’92, fu introdotto l’articolo 41 bis, che rendeva possibile l’applicazione del regime speciale, il cosiddetto carcere duro, ai detenuti per reati di criminalità organizzata. E poi, proprio nei primi anni Novanta, si infittirono i sequestri e le confische dei beni di proprietà delle cosche, resi possibili grazie alla legge introdotta nel settembre del 1982, un’altra legge che, alla mafia, non era mai andata giù perché ne minava la potenza economica. Stesso discorso per la legge sulla protezione dei collaboratori di giustizia del gennaio del ’91. A metà degli anni Ottanta pentiti del calibro di Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Totuccio Contorno avevano cominciato a parlare».
E la mafia, quindi, dichiarò guerra allo Stato. Ma perché colpire le città d’arte?
«Questo è stato un argomento su cui gli investigatori hanno riflettuto a lungo. Colpendo una persona, che fosse un investigatore o un magistrato, c’era sempre la possibilità che questi venisse sostituito e qualcun altro portasse avanti il lavoro intrapreso. Colpendo, invece, dei simboli artistici irripetibili, si otteneva lo scopo di provocare un danno irrimediabile al turismo. Tantevvero che, secondo quanto emerse dalle indagini, uno dei progetti, poi non attuati, era quello di spargere siringhe infette sulle spiagge dell’Adriatico. L’obiettivo, insomma, era quello di portare un danno economico concreto, costringendo lo Stato a fare dietrofront».
Però lo Stato rispose con fermezza. Non ci fu alcuna trattativa.
«Come è giusto che sia».
Per scoprire i concorrenti esterni di quelle stragi sono state aperte quattro inchieste, tutte archiviate. Oggi che cosa è possibile fare per non lasciare che tutto il lavoro svolto finora vada perduto?
«La giustizia penale non arriva dappertutto. Tre anni fa, nel corso di un convegno, proposi l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta per esplorare quest’aspetto rimasto, per così dire, scoperto».
In questo caso non ci sono scadenze. Crede che questa sia una strada ancora percorribile?
«Sì, quanto meno per dare tranquillità alle coscienze».
L'UNITA' 23 MARZO 2008
Più tardi posto un commento,intanto mi sembrava interessante condividere la notizia con voi,dato che Vigna nell'antimafia ha un certo qual peso.