easyand
14-01-2008, 12:45
Impegnate con successo in teatri operativi difficili, stimate in ambito internazionale, utilizzate sempre più spesso quale strumento di politica estera, a casa propria le forze armate italiane stentano a farsi apprezzare per la propria natura specifica. È quanto sostiene il nuovo libro di Gianandrea Gaiani, che segue la difesa per Il Sole 24 Ore e Panorama unendo al lavoro di inviato una solida preparazione teorica. In Irak-Afghanistan. Guerre di pace italiane, pubblicato in questi giorni dal piccolo editore veneziano Studio LT2, Gaiani traccia un bilancio molto diverso da quello prevalente nella cultura e nell’informazione italiana. Un libro destinato a far discutere.
Perché l’ossimoro del titolo?
Il titolo rispecchia l’ambiguità di un’Italia incapace di inviare truppe in teatri operativi senza etichettare le missioni come "di pace" o "umanitarie" anche se i contingenti rivestono compiti prettamente militari e si trovano coinvolti in azioni di guerra. Certo, si tratta di conflitti a bassa intensità o di operazioni di contro-insurrezione, ma pur sempre belliche.
Esiste una "Italian Way of War"? Se sì, qual è?
Purtroppo esiste ed è fondata su un’ambiguità politica che si riflette anche nell’organizzazione e nell’impiego dei contingenti. L’Italian Way of War è il modo tutto nostro di partecipare ai conflitti negando di fare la guerra, schierando le truppe ma limitando impegno bellico e l’esposizione politica. L’Italia ha spesso messo in campo truppe e mezzi insufficienti che hanno lasciato i contingenti esposti a miliziani e terroristi. Basti pensare alla Battaglia dei ponti di Nassiryah combattuta senza disporre dei mezzi più moderni ed efficaci come i carri Ariete, i cingolati Dardo e gli elicotteri Mangusta lasciati in Italia per non far sembrare troppo "aggressiva" la missione. Mezzi che poi sono stati inviati a Nassiryah in fasi successive e tra mille polemiche.
Lo stesso è accaduto in Afghanistan, dove per anni i nostri soldati hanno potuto disporre solo di veicoli leggeri VM 90 e Puma. In altri casi, come in Libano, sono state messe in campo forze potenti ma non autorizzate a combattere dalla natura stessa del mandato.
Per non parlare dei "caveat" imposti dalla politica che impediscono ai nostri soldati di snidare il nemico, di impiegare le armi più pesanti o di aiutare forze alleate in difficoltà nelle aree più esposte al fuoco nemico. Scelte dettate dall’esigenza di essere al fianco dei nostri alleati pur senza correre i rischi politici derivanti da un reale ruolo bellico. Ambiguità che hanno esposto l’Italia a brutte figure con gli alleati senza riuscire a risparmiarci i lutti e le conseguenze dei conflitti.
La guerra è la prova d’esame di un Paese e delle sue forze armate. Perché mantenerle se il concetto stesso è tabù?
A dire il vero mi pare che la leadership italiana non abbia un’idea precisa del significato delle Forze Armate. Basti pensare che si stanno pianificando riduzioni da 190.000 a 160.000 effettivi non in base a mutate esigenze strategiche ma all’inadeguatezza delle risorse finanziarie. Uno Stato dovrebbe stabilire prima interessi ed esigenze militari, pianificare i livelli di forze necessari e provvedere poi a finanziare lo strumento, non il contrario. La parola guerra è stata rimossa dalla politica perché non porta consensi e fa perdere voti. Due governi, di diverso colore politico, hanno cercato di coprire la realtà dei combattimenti utilizzando la retorica umanitaria, nascondendo scontri e battaglie ma rifilando all’opinione pubblica solo notizie di scuole ricostruite e orfani sfamati con una censura mediatica senza precedenti in una democrazia occidentale. Il concetto di soldati impiegati per tutto tranne che per la guerra, ormai radicatosi nella società italiana, porta poi a conseguenze indecorose come i genieri dell’Esercito chiamati oggi a fare il lavoro degli spazzini a Napoli.
Il libro si concentra sugli impegni recenti, ma c’è continuità o discontinuità tra Prima e Seconda Repubblica, o con le epoche precedenti?
L’esame della partecipazione militare italiana alle guerre scoppiate dopo l’11 settembre non nasconde che la tendenza a mistificare la realtà della guerra conta molti precedenti nella storia recente. Vi sono quindi ampi riferimenti a tutte le missioni italiane degli anni ‘90 e in particolare ai conflitti in Somalia e Kosovo, quando il ruolo di primo piano ricoperto dall’Aeronautica Militare venne tenuto nascosto dal governo. Così come non mancano informazioni e valutazioni sull’operazione più recente, quella in Libano nell’ambito dei caschi blu di UNIFIL. Nel confronto con il passato è paradossale notare che i governi dell’Italia democratica, legittimati dal voto popolare, hanno sempre gestito con difficoltà la partecipazione alle operazioni multinazionali. La Seconda Repubblica ha poi superato ogni record di ipocrisia spacciando per "operazione di pace" persino l’Operazione Nibbio del 2003, cioè la partecipazione ad Enduring Freedom in Afghanistan.
Esiste ancora la "paura di vincere" di cui parlò anni fa un fortunato libro del gen. Luigi Calligaris?
Temo che oggi le cose siano peggiorate e si dovrebbe parlare di "paura di combattere". Basti notare che nei comunicati ufficiali emessi dalla Difesa in occasione di attacchi contro i nostri militari gli aggressori non vengono mai chiamati con il loro nome, cioè "nemici" o "talebani". Se il nemico non c’è o non ha un nome non c’è neppure la guerra. Ma senza l’uso della parola "guerra" come può esserci la vittoria? E se non c’è la vittoria per cosa combattiamo? Per quale scopo spendiamo un miliardo di euro all’anno e mettiamo a rischio migliaia di vite italiane ?
Quanto di questa analisi si fonda sulla teoria e quanto sull’esperienza sul campo?
Gli aspetti teorici costituiscono un background indispensabile per l’analisi ma non c’è dubbio che senza l’esperienza maturata in quasi venti anni di reportage nelle aree di crisi questo libro non avrei mai potuto scriverlo. Sul terreno vedi i problemi reali, tocchi con mano le situazioni e acquisisci fonti dirette e di prima mano.
Come direbbe Gigi Marzullo, si faccia una domanda e si dia una risposta …
Mi chiedo dove ci porterà l’incapacità dell’Italia, ma anche di parte dell’Europa, di accettare il concetto stesso di guerra e di affrontare le perdite che un conflitto inevitabilmente comporta. Purtroppo mi rispondo che questi limiti condizionano inesorabilmente la nostra politica estera e di Difesa portandoci sempre di più ai margini dell’Occidente.
Finalmente uno che parla con cognizione di causa....
Perché l’ossimoro del titolo?
Il titolo rispecchia l’ambiguità di un’Italia incapace di inviare truppe in teatri operativi senza etichettare le missioni come "di pace" o "umanitarie" anche se i contingenti rivestono compiti prettamente militari e si trovano coinvolti in azioni di guerra. Certo, si tratta di conflitti a bassa intensità o di operazioni di contro-insurrezione, ma pur sempre belliche.
Esiste una "Italian Way of War"? Se sì, qual è?
Purtroppo esiste ed è fondata su un’ambiguità politica che si riflette anche nell’organizzazione e nell’impiego dei contingenti. L’Italian Way of War è il modo tutto nostro di partecipare ai conflitti negando di fare la guerra, schierando le truppe ma limitando impegno bellico e l’esposizione politica. L’Italia ha spesso messo in campo truppe e mezzi insufficienti che hanno lasciato i contingenti esposti a miliziani e terroristi. Basti pensare alla Battaglia dei ponti di Nassiryah combattuta senza disporre dei mezzi più moderni ed efficaci come i carri Ariete, i cingolati Dardo e gli elicotteri Mangusta lasciati in Italia per non far sembrare troppo "aggressiva" la missione. Mezzi che poi sono stati inviati a Nassiryah in fasi successive e tra mille polemiche.
Lo stesso è accaduto in Afghanistan, dove per anni i nostri soldati hanno potuto disporre solo di veicoli leggeri VM 90 e Puma. In altri casi, come in Libano, sono state messe in campo forze potenti ma non autorizzate a combattere dalla natura stessa del mandato.
Per non parlare dei "caveat" imposti dalla politica che impediscono ai nostri soldati di snidare il nemico, di impiegare le armi più pesanti o di aiutare forze alleate in difficoltà nelle aree più esposte al fuoco nemico. Scelte dettate dall’esigenza di essere al fianco dei nostri alleati pur senza correre i rischi politici derivanti da un reale ruolo bellico. Ambiguità che hanno esposto l’Italia a brutte figure con gli alleati senza riuscire a risparmiarci i lutti e le conseguenze dei conflitti.
La guerra è la prova d’esame di un Paese e delle sue forze armate. Perché mantenerle se il concetto stesso è tabù?
A dire il vero mi pare che la leadership italiana non abbia un’idea precisa del significato delle Forze Armate. Basti pensare che si stanno pianificando riduzioni da 190.000 a 160.000 effettivi non in base a mutate esigenze strategiche ma all’inadeguatezza delle risorse finanziarie. Uno Stato dovrebbe stabilire prima interessi ed esigenze militari, pianificare i livelli di forze necessari e provvedere poi a finanziare lo strumento, non il contrario. La parola guerra è stata rimossa dalla politica perché non porta consensi e fa perdere voti. Due governi, di diverso colore politico, hanno cercato di coprire la realtà dei combattimenti utilizzando la retorica umanitaria, nascondendo scontri e battaglie ma rifilando all’opinione pubblica solo notizie di scuole ricostruite e orfani sfamati con una censura mediatica senza precedenti in una democrazia occidentale. Il concetto di soldati impiegati per tutto tranne che per la guerra, ormai radicatosi nella società italiana, porta poi a conseguenze indecorose come i genieri dell’Esercito chiamati oggi a fare il lavoro degli spazzini a Napoli.
Il libro si concentra sugli impegni recenti, ma c’è continuità o discontinuità tra Prima e Seconda Repubblica, o con le epoche precedenti?
L’esame della partecipazione militare italiana alle guerre scoppiate dopo l’11 settembre non nasconde che la tendenza a mistificare la realtà della guerra conta molti precedenti nella storia recente. Vi sono quindi ampi riferimenti a tutte le missioni italiane degli anni ‘90 e in particolare ai conflitti in Somalia e Kosovo, quando il ruolo di primo piano ricoperto dall’Aeronautica Militare venne tenuto nascosto dal governo. Così come non mancano informazioni e valutazioni sull’operazione più recente, quella in Libano nell’ambito dei caschi blu di UNIFIL. Nel confronto con il passato è paradossale notare che i governi dell’Italia democratica, legittimati dal voto popolare, hanno sempre gestito con difficoltà la partecipazione alle operazioni multinazionali. La Seconda Repubblica ha poi superato ogni record di ipocrisia spacciando per "operazione di pace" persino l’Operazione Nibbio del 2003, cioè la partecipazione ad Enduring Freedom in Afghanistan.
Esiste ancora la "paura di vincere" di cui parlò anni fa un fortunato libro del gen. Luigi Calligaris?
Temo che oggi le cose siano peggiorate e si dovrebbe parlare di "paura di combattere". Basti notare che nei comunicati ufficiali emessi dalla Difesa in occasione di attacchi contro i nostri militari gli aggressori non vengono mai chiamati con il loro nome, cioè "nemici" o "talebani". Se il nemico non c’è o non ha un nome non c’è neppure la guerra. Ma senza l’uso della parola "guerra" come può esserci la vittoria? E se non c’è la vittoria per cosa combattiamo? Per quale scopo spendiamo un miliardo di euro all’anno e mettiamo a rischio migliaia di vite italiane ?
Quanto di questa analisi si fonda sulla teoria e quanto sull’esperienza sul campo?
Gli aspetti teorici costituiscono un background indispensabile per l’analisi ma non c’è dubbio che senza l’esperienza maturata in quasi venti anni di reportage nelle aree di crisi questo libro non avrei mai potuto scriverlo. Sul terreno vedi i problemi reali, tocchi con mano le situazioni e acquisisci fonti dirette e di prima mano.
Come direbbe Gigi Marzullo, si faccia una domanda e si dia una risposta …
Mi chiedo dove ci porterà l’incapacità dell’Italia, ma anche di parte dell’Europa, di accettare il concetto stesso di guerra e di affrontare le perdite che un conflitto inevitabilmente comporta. Purtroppo mi rispondo che questi limiti condizionano inesorabilmente la nostra politica estera e di Difesa portandoci sempre di più ai margini dell’Occidente.
Finalmente uno che parla con cognizione di causa....