IpseDixit
15-10-2007, 18:35
Qualcosa sta cambiando
Almeno quattro sono le spinte emerse finora dall'interminabile campagna elettorale americana e una di queste, in particolare, tocca l'area euro in genere e l'Italia in modo più che sensibile. Questo perché l'Europa della moneta unica ha negli Stati Uniti di gran lunga il primo partner commerciale in assoluto per l'export (la Cina ha battuto gli Usa nel gennaio-maggio 2007 per l'import) e l'Italia in particolare ha negli Stati Uniti con oltre 12 miliardi di euro nel periodo gennaio-giugno 2007 il terzo mercato di sbocco dopo Germania e Francia, e il primo extra-Ue.
I quattro segnali lanciati finora dagli umori americani dicono che la politica estera e soprattutto le azioni militari saranno più caute; che ci sarà una qualche forma di assicurazione medica aperta anche ai quasi 50 milioni che oggi , stabilmente o ciclicamente, ne sono esclusi; che l'immigrazione sarà più difficile; e, segnale emerso più chiaro di tutti finora, che gli Stati Uniti stanno maturando una decisa spinta protezionistica.
L'umore nazionale dice che le merci straniere, di cui l'America è stata finora un ingordo consumatore, saranno probabilmente in futuro meno benvenute. E il motivo di fondo è chiaro: poiché il 90% degli americani ritiene di aver compiuti passi indietro economicamente o di essere rimasto fermo o comunque lontano da una ragionevole partecipazione all'accresciuta ricchezza nazionale, e poiché causa fondamentale di questo secondo molta opinione pubblica è che le imprese americane preferiscono produrre all'estero o acquistare dall'estero, l'estero sarà accolto meno bene.
La tendenza è in atto da tempo (si veda "Gli Usa dei neo-protezionisti", Il Sole 24 Ore, edizione a stampa del 25 novembre 2006, a pagina 11), ma sta pericolosamente accelerando e il termometro migliore è stata la conversione del candidato favorito, Hillary Clinton, schierata ormai molto chiaramente su posizioni ben diverse da quelle che furono le linee-guida del marito Bill Clinton, da lei attivamente a suo tempo sostenuto. Bill si batté senza esitazioni per il Nafta (l'accordo di libero scambio con Canada e Messico) nel 1993. Adesso Richard Gephardt, l'ex deputato del Missouri che cercò nel 2004 la nomination democratica su una piattaforma economica protezionisa e fu battuto da John kerry, è un importante consigliere economico di Hillary Clinton. Gephardt può essere considerato insieme a Ross Perot, l'indipendente che nel '92 corse per la Casa Bianca con un programma anti-Nafta, il padre del neo-protezionismo americano. Esi vede. Hillary parla ora di "riesaminare" il Nafta, di bloccare ogni nuovo accordo commerciale fino a quando tutta la politica dell'import non sarà rivista,di inserire e far rispettare clausole sociali (paghe, lavoro minorile, dumping) in tutti gli accordi.
L'obiettivo specifico non è l'Europa, ma l'Asia e l'America Latina. La marea montante però è di tali proporzioni, e gli strumenti legislativi del codice Usa del commercio così efficaci e ben oliati per una guerriglia commerciale (soprattutto le sezioni 201 e 301 della Trade law), da non potere essere sottovalutata, anche dall'Europa. Qualcosa è cambiato dalla fine del secolo scorso quando, ha detto Hillary Clinton, "il commercio era a saldo positivo per l'America e il lavoratore Americano" e ora "occorre su tutto una riflessione molto seria". La stessa Hillary affermava nel 97:: "Il fatti evidente è questo: che i Paesi del liberoscambio hanno performances superiori". Non ha più ripetuto, e già dal 2005, elogi del genere.
Gli Stati Uniti hanno perso almeno 3 milioni di posti di lavoro industriali dal 2000 e soprattutto c'è la stagnazione dei redditi da parte di chi un posto l'ha mantenuto o ritrovato. Da tempo la risposta è stata in programmi di riqualificazione , e in sussidi. "Ma che cosa si racconta a un lavoratore di 55 anni che perde il posto - dice John Edwards, il più populista, protezionista e vicino al sindacato dei candidati democratici), che lo rieduchiamo? E a fare che?".
E' vero che la campagna elettorale spinge a coltivare le "estreme" mentre una volta insediato il partito che ha vinto cerca in genere di moderarne gli eccessi. Ma la sfiducia nel liberoscambio è ormai crescente da quindici anni almeno, profonda, e risponde a un senso così vivo di disorientamento che non può, nemmeno dall'Europa, essere sottovalutata. Il Paese che più di tutti ha avuto un ruolo nella liberalizzazione dei mercati, dalle lontane prime mosse di Franklin Roosevelt nel 1934 agli accordi di Bretton Woods fatti per garantire i commerci più ancora che le monete al Naft alla creazione del Wto, sta cambiando pelle. E il fatto che siano i democratici, partito a lungo e storicamente liberoscambista, a dire oggi quello che i repubblicani dicevano alcuni decenni fa, è più preoccupante ancora.
I candidati del partito repubblicani - assai mal messo e in netta crisi - difendono il liberoscambio, a ruoli storifamente inveriti, ma non possono ignorare la realtà. Un sondaggio recentissimo del Wall Street Journal dice che in varia misura due elettori repubblicani su tre ritengono l'apertura dei mercati dannosa o comunque problematica. Già a gennaio un altro sondaggio Bloomberg indicava nel 40% dell'opinione pubblica americana i sostenitori del neo-protezionismo, che naturalmente non si chiama così ma fair-trade, commercio giusto.
Nel '92 il voto popolare raccolto da Ross Perot fu pari al 19% e quello può essere considerato il nocciolo duro di allora. Oggi siamo a ben oltre il doppio. E il voto del 2008, fra poco più di un anno, potrebbe indicare che i neo protezionisti negli Stati Uniti sono diventati maggioranza. A quel punto non potremo non accorgercene, anche nelle nostre esportazioni.
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Esteri/2007/10/america-protezionista.shtml?uuid=19b4949e-7993-11dc-9381-00000e25108c&DocRulesView=Libero
Almeno quattro sono le spinte emerse finora dall'interminabile campagna elettorale americana e una di queste, in particolare, tocca l'area euro in genere e l'Italia in modo più che sensibile. Questo perché l'Europa della moneta unica ha negli Stati Uniti di gran lunga il primo partner commerciale in assoluto per l'export (la Cina ha battuto gli Usa nel gennaio-maggio 2007 per l'import) e l'Italia in particolare ha negli Stati Uniti con oltre 12 miliardi di euro nel periodo gennaio-giugno 2007 il terzo mercato di sbocco dopo Germania e Francia, e il primo extra-Ue.
I quattro segnali lanciati finora dagli umori americani dicono che la politica estera e soprattutto le azioni militari saranno più caute; che ci sarà una qualche forma di assicurazione medica aperta anche ai quasi 50 milioni che oggi , stabilmente o ciclicamente, ne sono esclusi; che l'immigrazione sarà più difficile; e, segnale emerso più chiaro di tutti finora, che gli Stati Uniti stanno maturando una decisa spinta protezionistica.
L'umore nazionale dice che le merci straniere, di cui l'America è stata finora un ingordo consumatore, saranno probabilmente in futuro meno benvenute. E il motivo di fondo è chiaro: poiché il 90% degli americani ritiene di aver compiuti passi indietro economicamente o di essere rimasto fermo o comunque lontano da una ragionevole partecipazione all'accresciuta ricchezza nazionale, e poiché causa fondamentale di questo secondo molta opinione pubblica è che le imprese americane preferiscono produrre all'estero o acquistare dall'estero, l'estero sarà accolto meno bene.
La tendenza è in atto da tempo (si veda "Gli Usa dei neo-protezionisti", Il Sole 24 Ore, edizione a stampa del 25 novembre 2006, a pagina 11), ma sta pericolosamente accelerando e il termometro migliore è stata la conversione del candidato favorito, Hillary Clinton, schierata ormai molto chiaramente su posizioni ben diverse da quelle che furono le linee-guida del marito Bill Clinton, da lei attivamente a suo tempo sostenuto. Bill si batté senza esitazioni per il Nafta (l'accordo di libero scambio con Canada e Messico) nel 1993. Adesso Richard Gephardt, l'ex deputato del Missouri che cercò nel 2004 la nomination democratica su una piattaforma economica protezionisa e fu battuto da John kerry, è un importante consigliere economico di Hillary Clinton. Gephardt può essere considerato insieme a Ross Perot, l'indipendente che nel '92 corse per la Casa Bianca con un programma anti-Nafta, il padre del neo-protezionismo americano. Esi vede. Hillary parla ora di "riesaminare" il Nafta, di bloccare ogni nuovo accordo commerciale fino a quando tutta la politica dell'import non sarà rivista,di inserire e far rispettare clausole sociali (paghe, lavoro minorile, dumping) in tutti gli accordi.
L'obiettivo specifico non è l'Europa, ma l'Asia e l'America Latina. La marea montante però è di tali proporzioni, e gli strumenti legislativi del codice Usa del commercio così efficaci e ben oliati per una guerriglia commerciale (soprattutto le sezioni 201 e 301 della Trade law), da non potere essere sottovalutata, anche dall'Europa. Qualcosa è cambiato dalla fine del secolo scorso quando, ha detto Hillary Clinton, "il commercio era a saldo positivo per l'America e il lavoratore Americano" e ora "occorre su tutto una riflessione molto seria". La stessa Hillary affermava nel 97:: "Il fatti evidente è questo: che i Paesi del liberoscambio hanno performances superiori". Non ha più ripetuto, e già dal 2005, elogi del genere.
Gli Stati Uniti hanno perso almeno 3 milioni di posti di lavoro industriali dal 2000 e soprattutto c'è la stagnazione dei redditi da parte di chi un posto l'ha mantenuto o ritrovato. Da tempo la risposta è stata in programmi di riqualificazione , e in sussidi. "Ma che cosa si racconta a un lavoratore di 55 anni che perde il posto - dice John Edwards, il più populista, protezionista e vicino al sindacato dei candidati democratici), che lo rieduchiamo? E a fare che?".
E' vero che la campagna elettorale spinge a coltivare le "estreme" mentre una volta insediato il partito che ha vinto cerca in genere di moderarne gli eccessi. Ma la sfiducia nel liberoscambio è ormai crescente da quindici anni almeno, profonda, e risponde a un senso così vivo di disorientamento che non può, nemmeno dall'Europa, essere sottovalutata. Il Paese che più di tutti ha avuto un ruolo nella liberalizzazione dei mercati, dalle lontane prime mosse di Franklin Roosevelt nel 1934 agli accordi di Bretton Woods fatti per garantire i commerci più ancora che le monete al Naft alla creazione del Wto, sta cambiando pelle. E il fatto che siano i democratici, partito a lungo e storicamente liberoscambista, a dire oggi quello che i repubblicani dicevano alcuni decenni fa, è più preoccupante ancora.
I candidati del partito repubblicani - assai mal messo e in netta crisi - difendono il liberoscambio, a ruoli storifamente inveriti, ma non possono ignorare la realtà. Un sondaggio recentissimo del Wall Street Journal dice che in varia misura due elettori repubblicani su tre ritengono l'apertura dei mercati dannosa o comunque problematica. Già a gennaio un altro sondaggio Bloomberg indicava nel 40% dell'opinione pubblica americana i sostenitori del neo-protezionismo, che naturalmente non si chiama così ma fair-trade, commercio giusto.
Nel '92 il voto popolare raccolto da Ross Perot fu pari al 19% e quello può essere considerato il nocciolo duro di allora. Oggi siamo a ben oltre il doppio. E il voto del 2008, fra poco più di un anno, potrebbe indicare che i neo protezionisti negli Stati Uniti sono diventati maggioranza. A quel punto non potremo non accorgercene, anche nelle nostre esportazioni.
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Attualita%20ed%20Esteri/Esteri/2007/10/america-protezionista.shtml?uuid=19b4949e-7993-11dc-9381-00000e25108c&DocRulesView=Libero