<Straker>
08-02-2007, 10:16
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=2371&ID_sezione=&sezione=CHIARA SARACENO
Tra i tanti temi che potrebbero dare scandalo dal punto di vista religioso - la povertà, livelli di disuguaglianza tra i più alti nel mondo sviluppato e più stabili nel passaggio da una generazione all’altra, la persistenza di zone franche per la criminalità organizzata, l’uso sfacciato di qualsiasi posizione di potere, e così via elencando - la Chiesa cattolica italiana in tutte le sue gerarchie ha deciso di fare del (non) riconoscimento delle unioni di fatto la questione insieme politica e religiosa su cui giocare il tutto per tutto.
È inutile controbattere che fondare questa ostilità sulla base dell’assunto che esista una famiglia vuoi «naturale», vuoi «definita da Dio» è un nonsenso (anche biblico). Storia e antropologia sono lì a mostrarci come gli esseri umani, le civiltà, le norme abbiano continuamente costruito e ridefinito ciò che è «famiglia». La sua «unicità irripetibile» di istituzione monogamica fondata sul matrimonio ai fini di dare una discendenza (innanzitutto ai padri) è un dato storico circoscritto nel tempo e nello spazio ancorché culturalmente potente.
Il fatto stesso che gli Stati dell’Unione Europea difendano gelosamente le loro prerogative in questo campo segnala come, nello stesso spazio europeo, non ci sia consenso su ciò che viceversa la gerarchia cattolica ci propone e impone come universale. Altrettanto inutile è segnalare come società che appartengono, appunto, alla nostra stessa area storico-culturale abbiano proceduto - in forme diverse - al riconoscimento delle coppie di fatto, anche omosessuali, senza per questo aver minato le proprie fondamenta, o essere diventati meno solidali, meno capaci di prendersi cura gli uni degli altri, di riprodursi. Al contrario, molte di queste società hanno livelli di solidarietà pubblica più elevati del nostro, comportamenti riproduttivi più generosi, livelli di diseguaglianza sociale più contenuti.
Viceversa, senza cadere nella retorica del «familismo amorale», non si può non constatare come nel nostro Paese la difesa a oltranza della famiglia fondata sul matrimonio come unica forma legalmente e moralmente legittima di legame non si è accompagnata allo sviluppo di una forte cultura civica e neppure a una forte sensibilità per la giustizia sociale e per i diritti di libertà. Forse, ma non sta a me dirlo, non si è neppure accompagnata ad una forte cultura religiosa. E sempre meno sembra consentire e motivare la formazione di famiglie nelle generazioni più giovani.
Ripeto, non credo che queste argomentazioni scalfiscano l’orgogliosa sicurezza di chi - gerarchia e politici cattolici schierati - è convinto che sulla definizione di famiglia si giochi la fondamentale partita religiosa in Italia e per questo è disposto a far cadere il governo e più in generale destabilizzare il Paese. Prendo atto che chi critica il fondamentalismo di altre religioni e la sua pretesa di regolare per via legale le scelte di chi non ne condivide i valori e le norme non è altrettanto attento al proprio. Ed è disposto a instaurare una sorta di Stato confessionale nel nostro Paese, quando si tratta di questioni che hanno a che fare con i rapporti di affetto, sesso, solidarietà tra le persone.
Perché una cosa deve essere chiara: riconoscere in qualche forma le coppie di fatto non mina alcun fondamento della vita sociale, non mette a repentaglio la libertà e la dignità di nessuno, al contrario. Non mina neppure il matrimonio, che come istituzione si è già indebolito da sé, man mano che è divenuto l’esito di una scelta tra persone libere. Solo un ritorno al matrimonio combinato, al controllo della parentela e della comunità sugli sposi, alla disuguaglianza, anche legale, tra uomini e donne, alla discriminazione tra figli naturali e legittimi, oltre che alla messa alla gogna degli omosessuali, può restituire forza al matrimonio come istituzione obbligata e che dura per sempre.
Se non vogliamo questo, dobbiamo affidarlo alla fragile, ma indispensabile, navicella della libertà individuale, alla voglia di stare assieme, alla capacità di assunzione di responsabilità, non alla condanna all’inesistenza sociale di altri rapporti liberi e responsabili. In questo sono d’accordo con la gerarchia. Siamo davanti a un passaggio cruciale, che riguarda tutti, non solo i conviventi. Perché è in gioco sia la laicità dello Stato che la libertà dei cittadini.
Tra i tanti temi che potrebbero dare scandalo dal punto di vista religioso - la povertà, livelli di disuguaglianza tra i più alti nel mondo sviluppato e più stabili nel passaggio da una generazione all’altra, la persistenza di zone franche per la criminalità organizzata, l’uso sfacciato di qualsiasi posizione di potere, e così via elencando - la Chiesa cattolica italiana in tutte le sue gerarchie ha deciso di fare del (non) riconoscimento delle unioni di fatto la questione insieme politica e religiosa su cui giocare il tutto per tutto.
È inutile controbattere che fondare questa ostilità sulla base dell’assunto che esista una famiglia vuoi «naturale», vuoi «definita da Dio» è un nonsenso (anche biblico). Storia e antropologia sono lì a mostrarci come gli esseri umani, le civiltà, le norme abbiano continuamente costruito e ridefinito ciò che è «famiglia». La sua «unicità irripetibile» di istituzione monogamica fondata sul matrimonio ai fini di dare una discendenza (innanzitutto ai padri) è un dato storico circoscritto nel tempo e nello spazio ancorché culturalmente potente.
Il fatto stesso che gli Stati dell’Unione Europea difendano gelosamente le loro prerogative in questo campo segnala come, nello stesso spazio europeo, non ci sia consenso su ciò che viceversa la gerarchia cattolica ci propone e impone come universale. Altrettanto inutile è segnalare come società che appartengono, appunto, alla nostra stessa area storico-culturale abbiano proceduto - in forme diverse - al riconoscimento delle coppie di fatto, anche omosessuali, senza per questo aver minato le proprie fondamenta, o essere diventati meno solidali, meno capaci di prendersi cura gli uni degli altri, di riprodursi. Al contrario, molte di queste società hanno livelli di solidarietà pubblica più elevati del nostro, comportamenti riproduttivi più generosi, livelli di diseguaglianza sociale più contenuti.
Viceversa, senza cadere nella retorica del «familismo amorale», non si può non constatare come nel nostro Paese la difesa a oltranza della famiglia fondata sul matrimonio come unica forma legalmente e moralmente legittima di legame non si è accompagnata allo sviluppo di una forte cultura civica e neppure a una forte sensibilità per la giustizia sociale e per i diritti di libertà. Forse, ma non sta a me dirlo, non si è neppure accompagnata ad una forte cultura religiosa. E sempre meno sembra consentire e motivare la formazione di famiglie nelle generazioni più giovani.
Ripeto, non credo che queste argomentazioni scalfiscano l’orgogliosa sicurezza di chi - gerarchia e politici cattolici schierati - è convinto che sulla definizione di famiglia si giochi la fondamentale partita religiosa in Italia e per questo è disposto a far cadere il governo e più in generale destabilizzare il Paese. Prendo atto che chi critica il fondamentalismo di altre religioni e la sua pretesa di regolare per via legale le scelte di chi non ne condivide i valori e le norme non è altrettanto attento al proprio. Ed è disposto a instaurare una sorta di Stato confessionale nel nostro Paese, quando si tratta di questioni che hanno a che fare con i rapporti di affetto, sesso, solidarietà tra le persone.
Perché una cosa deve essere chiara: riconoscere in qualche forma le coppie di fatto non mina alcun fondamento della vita sociale, non mette a repentaglio la libertà e la dignità di nessuno, al contrario. Non mina neppure il matrimonio, che come istituzione si è già indebolito da sé, man mano che è divenuto l’esito di una scelta tra persone libere. Solo un ritorno al matrimonio combinato, al controllo della parentela e della comunità sugli sposi, alla disuguaglianza, anche legale, tra uomini e donne, alla discriminazione tra figli naturali e legittimi, oltre che alla messa alla gogna degli omosessuali, può restituire forza al matrimonio come istituzione obbligata e che dura per sempre.
Se non vogliamo questo, dobbiamo affidarlo alla fragile, ma indispensabile, navicella della libertà individuale, alla voglia di stare assieme, alla capacità di assunzione di responsabilità, non alla condanna all’inesistenza sociale di altri rapporti liberi e responsabili. In questo sono d’accordo con la gerarchia. Siamo davanti a un passaggio cruciale, che riguarda tutti, non solo i conviventi. Perché è in gioco sia la laicità dello Stato che la libertà dei cittadini.