eoropall
28-01-2007, 16:30
Anno Giudiziario 2006: la relazione del Presidente della Corte di Cassazione
PROLOGO
Nell'esporre in forma sintetica il rendiconto annuale sull'amministrazione della giustizia risparmierò alla loro paziente attenzione quelle fastidiose sequenze di rilevazioni statistiche, talvolta imprecise e non sempre idonee a rappresentare adeguatamente la realtà, per soffermarmi, invece, sui risultati che la magistratura è riuscita a realizzare e sulle cause che non hanno consentito di esaudire tutte le legittime aspettative della società.
Orbene, di crisi della giustizia, in Italia come nel mondo, si parla da tempo immemorabile: se ne parlava persino nell'antica Roma, ma allora la crisi della giustizia era soltanto correlata alla sua limitata, intrinseca difficoltà di distinguere, con assoluta precisione, il lecito dal doveroso e l'uno e l'altro dall'illecito; nell'età contemporanea a questo endemico, insopprimibile limite di origine che, a sua volta si coniuga con l'impossibilità di sovrapporre la verità processuale alla verità assoluta, si è aggiunta una costante che, progredendo nel tempo, ha abbandonato gli angusti confini dell'eccezionalità per diventare una vera e propria componente fisiologica dell'amministrazione della giustizia: la sua lentezza.
A ciò si aggiunga che rispetto a tutti gli altri Paesi l'Italia ha due primati che, da soli, forniscono le dimensioni della crisi: noi disponiamo del maggior numero di giudici e, ciò nonostante conserviamo, sia pure con qualche lieve differenza rispetto al passato, il primato del maggior tempo nella definizione dei processi, sia civili che penali.
Ed è a tutti noto come la esasperata lentezza della giustizia si traduca, nel campo civile, in una vera e propria denegata giustizia che danneggia chi un torto ha già subito e, nel campo penale, nella neutralizzazione della sanzione, quando addirittura in un così tardivo riconoscimento dell'innocenza da vanificarne gli effetti.
La legge n. 89 del 24 marzo 2001, lungi dall'aver risolto questo problema, ha avuto un solo risultato, quello di trasferire dalla Corte Europea alle Corti di Appello e da queste alla Cassazione il contenzioso relativo al risarcimento dei danni determinati dall'irragionevole durata dei processi, con la conseguenza che chi questi danni asserisce di aver subito deve ora attendere altri anni per ottenere quello cui ha diritto. Peraltro quella legge non è neppure riuscita nell'intento di porci al riparo dagli interventi della Corte Europea, perché il settore di maggiore contatto tra la giurisdizione italiana e la Corte di Strasburgo continua ad essere proprio la materia dell'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo, non foss'altro perché, a differenza di quanto accade in Italia, la Corte Europea, nello stabilire l'importo dell'indennizzo del danno non patrimoniale, tiene conto dell'intera durata del processo e non soltanto del periodo che eccede la sua durata ragionevole. Pertanto, una legge che doveva servire a semplificare il procedimento ed a rendere più sollecita la riparazione del danno, si è tramutata in un espediente utile soltanto ad aumentare il contenzioso ed i tempi della sua definizione.
In questa materia è stata altamente meritoria l'attività svolta dalla Corte di Cassazione che non si è limitata alla scelta di una corsia preferenziale per una sollecita definizione dei relativi ricorsi, ma attraverso un'importante pronuncia delle Sezioni Unite civili, ha riconosciuto come il diritto alla ragionevole durata del processo ha la sua piena rilevanza costituzionale dopo la riforma dell'art. 111 della Costituzione e come la sua tutela sia sovrapponibile a quella offerta dall'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo ed ha altresì stabilito che allorquando è superata la ragionevole durata vi è una presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale conseguente alla violazione di tale diritto, presunzione che può essere vinta solo se si è in grado di provare l'insussistenza del danno. Ed è questo un tipico esempio di come la nostra giurisprudenza si sia adeguata a quella elaborata dalla Corte di Strasburgo.
E non può certo suscitare meraviglia o sorpresa il recentissimo intervento del Consiglio d'Europa che ha denunciato come l'Italia continui ad essere autrice di numerose violazioni alle prescrizioni della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, perché all'ingente numero di processi pendenti corrisponde una durata media della loro definizione che è pari a 35 mesi per il giudizio di primo grado ed a 65 mesi per quello d'appello.
La relazione per intero l'ha trovate qui..
http://www.altalex.com/index.php?idnot=10320
PROLOGO
Nell'esporre in forma sintetica il rendiconto annuale sull'amministrazione della giustizia risparmierò alla loro paziente attenzione quelle fastidiose sequenze di rilevazioni statistiche, talvolta imprecise e non sempre idonee a rappresentare adeguatamente la realtà, per soffermarmi, invece, sui risultati che la magistratura è riuscita a realizzare e sulle cause che non hanno consentito di esaudire tutte le legittime aspettative della società.
Orbene, di crisi della giustizia, in Italia come nel mondo, si parla da tempo immemorabile: se ne parlava persino nell'antica Roma, ma allora la crisi della giustizia era soltanto correlata alla sua limitata, intrinseca difficoltà di distinguere, con assoluta precisione, il lecito dal doveroso e l'uno e l'altro dall'illecito; nell'età contemporanea a questo endemico, insopprimibile limite di origine che, a sua volta si coniuga con l'impossibilità di sovrapporre la verità processuale alla verità assoluta, si è aggiunta una costante che, progredendo nel tempo, ha abbandonato gli angusti confini dell'eccezionalità per diventare una vera e propria componente fisiologica dell'amministrazione della giustizia: la sua lentezza.
A ciò si aggiunga che rispetto a tutti gli altri Paesi l'Italia ha due primati che, da soli, forniscono le dimensioni della crisi: noi disponiamo del maggior numero di giudici e, ciò nonostante conserviamo, sia pure con qualche lieve differenza rispetto al passato, il primato del maggior tempo nella definizione dei processi, sia civili che penali.
Ed è a tutti noto come la esasperata lentezza della giustizia si traduca, nel campo civile, in una vera e propria denegata giustizia che danneggia chi un torto ha già subito e, nel campo penale, nella neutralizzazione della sanzione, quando addirittura in un così tardivo riconoscimento dell'innocenza da vanificarne gli effetti.
La legge n. 89 del 24 marzo 2001, lungi dall'aver risolto questo problema, ha avuto un solo risultato, quello di trasferire dalla Corte Europea alle Corti di Appello e da queste alla Cassazione il contenzioso relativo al risarcimento dei danni determinati dall'irragionevole durata dei processi, con la conseguenza che chi questi danni asserisce di aver subito deve ora attendere altri anni per ottenere quello cui ha diritto. Peraltro quella legge non è neppure riuscita nell'intento di porci al riparo dagli interventi della Corte Europea, perché il settore di maggiore contatto tra la giurisdizione italiana e la Corte di Strasburgo continua ad essere proprio la materia dell'equa riparazione per l'irragionevole durata del processo, non foss'altro perché, a differenza di quanto accade in Italia, la Corte Europea, nello stabilire l'importo dell'indennizzo del danno non patrimoniale, tiene conto dell'intera durata del processo e non soltanto del periodo che eccede la sua durata ragionevole. Pertanto, una legge che doveva servire a semplificare il procedimento ed a rendere più sollecita la riparazione del danno, si è tramutata in un espediente utile soltanto ad aumentare il contenzioso ed i tempi della sua definizione.
In questa materia è stata altamente meritoria l'attività svolta dalla Corte di Cassazione che non si è limitata alla scelta di una corsia preferenziale per una sollecita definizione dei relativi ricorsi, ma attraverso un'importante pronuncia delle Sezioni Unite civili, ha riconosciuto come il diritto alla ragionevole durata del processo ha la sua piena rilevanza costituzionale dopo la riforma dell'art. 111 della Costituzione e come la sua tutela sia sovrapponibile a quella offerta dall'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo ed ha altresì stabilito che allorquando è superata la ragionevole durata vi è una presunzione di sussistenza del danno non patrimoniale conseguente alla violazione di tale diritto, presunzione che può essere vinta solo se si è in grado di provare l'insussistenza del danno. Ed è questo un tipico esempio di come la nostra giurisprudenza si sia adeguata a quella elaborata dalla Corte di Strasburgo.
E non può certo suscitare meraviglia o sorpresa il recentissimo intervento del Consiglio d'Europa che ha denunciato come l'Italia continui ad essere autrice di numerose violazioni alle prescrizioni della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, perché all'ingente numero di processi pendenti corrisponde una durata media della loro definizione che è pari a 35 mesi per il giudizio di primo grado ed a 65 mesi per quello d'appello.
La relazione per intero l'ha trovate qui..
http://www.altalex.com/index.php?idnot=10320