dantes76
13-01-2007, 21:35
La questione dell'ineleggibilità
La mai abrogata legge n.361 del 1957 all'articolo 10 afferma: "Non sono eleggibili (...) coloro che (...) risultino vincolati con lo Stato (...) per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica". Dati i numerosi possedimenti in campo mediatico, edilizio e assicurativo della famiglia Berlusconi, Silvio Berlusconi risulterebbe perciò tuttora ineleggibile per la legge italiana.
Tuttavia, la Giunta per le elezioni, anche grazie ad una parte degli esponenti del PDS del neo-segretario Massimo D'Alema, decide nel luglio 1994 di rigettare il ricorso presentato da alcuni esponenti di centro sinistra, permettendo l'ascesa politica di Berlusconi
Da Wikipedia
Dal sito Internet www.antoniodipietro.org
COMUNICATO N. 50 del 15 settembre 2000
L'ineleggibilità di Berlusconi e la commedia di D'Alema
(di Antonio Di Pietro e Elio Veltri)
Berlusconi, in quanto concessionario dello stato per le Tv, era ineleggibile. Non è stato così, grazie anche alla regia di D'Alema.
Massimo D'Alema alla festa dell'Unità di Bologna ha dichiarato che Berlusconi in quanto concessionario dello stato per le tv era ineleggibile e che la decisione della Giunta per le elezioni è stata una finzione.
Evitiamo il teatrino della politica e non prendiamoci in giro. D'Alema sa bene come stanno le cose ed è stato il vero regista della "finzione" e della vittoria di Berlusconi.
1. Infatti nella giunta delle elezioni, il 17 Ottobre 1996, in pieno clima di inciucio il centro sinistra che aveva la maggioranza per dichiarare Berlusconi ineleggibile, ha votato a favore del Cavaliere violando la legge del 1957 sulle ineleggibilità;
2. D'Alema ha fatto l'accordo sulla Bicamerale per fare di Berlusconi un padre costituente pur essendo il Cavaliere ineleggibile e, quindi, un abusivo di palazzo Montecitorio;
3. D'Alema e i DS non hanno nemmeno voluto mettere allíordine del giorno la nostra proposta di legge sulla ineleggibilità di Berlusconi dicendo che si faceva il suo gioco;
D'Alema sa bene che la maggioranza che ha guidato ha lavorato per Berlusconi e ora ne paga le conseguenze che, purtroppo, ricadono su tutto il paese.
Noi siamo stufi della politica annuncio che disorienta i cittadini e, soprattutto, dei comportamenti disinvolti di questa classe dirigente partitocratica. In queste condizioni chiederci accordi e fare appelli è solo patetico e fa il gioco di Berlusconi.
Antonio Di Pietro ed Elio Veltri
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La proprietà di emittenti televisive determina ineleggibilità parlamentare, non solo incompatibilità nelle cariche di governo
di Alessandro Pace
(p.o. di diritto costituzionale nella facoltà di giurisprudenza dell'Università di Roma La Sapienza)
(11 marzo 2002)
Scrivevo anni fa su "La voce" (28 ottobre 1994) -e ho successivamente più volte ribadito (in un saggio pubblicato in "Democrazia e cariche pubbliche" a cura di S. Cassese, Il Mulino, Bologna, 1996, e in un "forum" organizzato dalla "Rivista di diritto costituzionale", 1998)- che l'aver spostato, dalla problematica dell'ineleggibilità parlamentare a quella dell'incompatibilità nelle cariche di governo, l'angolo visuale dal quale considerare i problemi del conflitto di interessi dell'on. Silvio Berlusconi, è stata una mossa abilissima, il cui merito va tutto al Comitato di Tre Saggi istituito dallo stesso Berlusconi ai tempi del suo primo governo.
Infatti, una volta impostato il problema in termini di incompatibilità nelle cariche di Governo (come appunto fa anche il d.d.l. n. 1707 Berlusconi-Frattini-La Loggia di recente approvato alla Camera, così come il precedente d.d.l. a suo tempo votato anche dai partiti di centro-sinistra), il noto problema del conflitto d'interessi viene unilateralmente impostato alla luce (esclusiva) degli artt. 51, 42 e 41 Cost.
In altre parole, posta così la questione, chi esamina il problema finisce per preoccuparsi soltanto del diritto di elettorato passivo del cittadino Silvio Berlusconi, e del pregiudizio che egli verrebbe a subire nel suo diritto d'iniziativa economica e nel suo diritto di proprietà, qualora la permanenza nella carica di governo fosse condizionata alla dismissione della sua proprietà azionaria nelle note imprese televisive, pubblicitarie, di produzione e distribuzione cinematografiche, assicurative ecc.
Ora, a parte il fatto che una dismissione in favore dei figli non eviterebbe ovviamente la permanenza del conflitto d'interessi (anche...l'on. Berlusconi "tiene famiglia"!); e a parte il fatto che il cd. blind trust può ovviamente funzionare solo quando la proprietà sia esclusivamente mobiliare e quando al proprietario (e cioè, nella specie, a Berlusconi) sia inibita la conoscenza dei titoli che il fiduciario designato per legge (il cd. trustee) acquista e vende in vece sua... deve essere ancora una volta sottolineato che, essendo, il mutamento di prospettiva operato dal Comitato di Tre Saggi, radicalmente sbagliato, una soluzione pacificatrice non potrà mai essere rinvenuta, se si continua su quella strada.
E' bensì vero che di recente, sulla stampa, sia Andrea Manzella ("Repubblica"), sia Franco Debenedetti ("Il sole-24 ore"), sia il Presidente del Senato Marcello Pera ("Corriere della sera") hanno, nell'ordine, lamentato che gli interessi mediatici di Berlusconi non vengono affatto evidenziati nel d.d.l. approvato dalla Camera, laddove meriterebbero una specifica attenzione. E' tuttavia altrettanto vero che si continuerebbe "a menar il can per l'aia" se non si facesse un ulteriore passo in avanti e non si centrasse il vero problema, il quale è bensì connesso alla proprietà delle imprese titolari di concessioni televisive ma non è tanto quello dell'incompatibilità di questa proprietà con l'esercizio delle funzioni di governo, quanto l'abnorme influenza che essa effettivamente determina sul comportamento degli elettori: un abnorme influenza che non può non essere fatta risalire a chi è sostanzialmente il proprietario di ben tre emittenti nazionali ed è quindi in grado di condizionare, anche per il tramite della scelta dei direttori e dei collaboratori, la linea editoriale dell'emittente.
In altre parole, il vizio di fondo che pregiudica l'impostazione del d.d.l. approvato dalla Camera, è di non considerare che la nostra forma di governo è tuttora quella parlamentare, nella quale i membri del Governo dovrebbero, in linea di principio, essere dei parlamentari. Pertanto, prima di individuare la base costituzionale di specifiche incompatibilità governative, dovrebbero essere saggiate le potenzialità interpretative dell'art. 65 Cost., che appunto prevede l'esistenza di ineleggibilità parlamentari, oltre che di incompatibilità. Un discrimine, tra le une e le altre, che va individuato in ciò, che mentre le cause di incompatibilità si preoccupano -per finalità di "moralizzazione" della funzione pubblica- di evitare conflitti di interessi tra due cariche pubbliche ovvero tra una carica pubblica e una carica privata, le cause di ineleggibilità -come ripetutamente statuito dalla Corte costituzionale- perseguono lo scopo di evitare "un'indebita influenza sulla libera manifestazione di volontà dell'elettore" ovvero "una capacità di influenza incompatibile con le regole del sistema democratico".
Ed è appunto per tale ragione che, per primo, Pier Alberto Capotosti, nei primi mesi del 1994, invocò l'art. 10 del d. P. r. 30 marzo 1957 n. 361 per sostenere l'ineleggibilità di Silvio Berlusconi, e tale argomento fu ripreso nel successivo ottobre 1994 da Giuliano Amato e da me in due articoli apparsi su "La voce". E mentre io sostenevo -e tuttora sostengo- che l'art. 10, già così com'è scritto, nel combimato disposto del primo e del terzo comma, implicava ed implica l'immediata ineleggibilità di coloro che hanno la proprietà d'imprese private titolari di concessioni amministrative di notevole entità economica, Amato più prudentemente sosteneva che sarebbe stata necessaria una modifica a quella disposizione (e cioè l'estensione del divieto a "coloro che anche indirettamente controllano imprese televisive" ) per determinare, nelle successive elezioni, l'ineleggibilità di Berlusconi.
* * *
Mi sono indotto a scrivere queste note -e l' ho fatto di malavoglia, perché so bene che i politici non vi presteranno attenzione non solo per la scarsa autorevolezza di chi scrive, ma anche per l'argomento del "cosa fatta capo ha"...- perché ritengo che noi costituzionalisti, quali che siano le nostre opzioni politiche, abbiamo comunque il dovere morale di dare un contributo, quanto meno di chiarezza lessicale, alla soluzione di un problema grave come quello del conflitto d'interessi in cui si dibatte il nostro Presidente del Consiglio.
E scrivo queste note nella speranza che almeno si smetta di dire -come ho letto ancora di recente- che "l'elettorato non ha ritenuto rilevante il conflitto d'interessi" perché altrimenti non avrebbe votato Berlusconi... Argomento, questo, che è il classico serpente che si mangia la coda, al quale si può ben rispondere che le ragioni dell'ineleggibilità dell'on. Berlusconi stanno anzi proprio lì, e cioè nell'essere egli riuscito a farsi eleggere grazie all'influenza elettorale esercitata per il tramite delle sue televisioni, e pur ammettendo pubblicamente il proprio conflitto di interessi, ma sulla base della mera promessa che in futuro l'avrebbe risolto...
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/dibattiti/conflitto/pace.html
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IL RUGGITO DELL'INCIUCIO di Marco Travaglio
Sostiene D'Alema, intervistato da Panorama, che risolvere finalmente il conflitto d'interessi di Berlusconi è una priorità per il centrosinistra nella prossima legislatura. Giusto.
E che il Cavaliere dovrà scegliere tra l'attività politica e la proprietà delle televisioni. Perfetto. E' un doppio passo avanti rispetto al fastidio con cui Piero Fassino, rispondendo a una provocazione di Piero Ricca a Torino due domeniche fa, aveva risposto che il conflitto d'interessi verrà risolto, ma senza fretta, perché "non è una priorità".
O almeno così pare. Giuliano Ferrara, il più attento e occhiuto custode della bottega berlusconiana che lautamente lo remunera da anni, salta subito su per strillare alla legge "illiberale" che "impedirà a Berlusconi di rifarsi" dall'eventuale sconfitta e "liquiderà il principio dell'alternanza liberale". Allarme subito rilanciato da Pierluigi Battista, che sul Corriere mette in guardia l'Unione da "rappresaglie ai danni dello sconfitto con provvedimenti ad personam" (sic).
Di solito, quando Ferrara e Battista strepitano, è perché Berlusconi rischia. Ma stavolta è tutta panna montata. Purtroppo la soluzione D'Alema è tutta fumo e niente arrosto. Due passi avanti a parole, due passi indietro nei fatti. Saldo finale: la stasi, lo status quo.
Non cambierà nulla. La ricetta indicata dal presidente Ds all'house organ berlusconiano, che all'apparenza sembra modificare tutto, in concreto lascerà le cose esattamente come stanno.
E' un replay riveduto e corretto (ma nemmeno poi tanto) della famigerata visita a Mediaset nell'aprile '96, alla vigilia della prima vittoria di Prodi, quando l'allora segretario del Pds assicurò negli studi di Stranamore Fedele Confalonieri, il Gabibbo, dirigenti e maestranze che "Mediaset è un grande patrimonio del Paese" (fingendo di ignorare che il patrimonio del Paese sono le frequenze pubbliche date in concessione dallo Stato, mentre l'azienda concessionaria è un grande patrimonio del suo azionista). Vediamo perché.
"Mi sembra logico – dichiara D'Alema - che il presidente del Consiglio non possa essere proprietario di aziende di comunicazione che operano in regime di concessione dello Stato. Per chi si trova in queste condizioni, saranno previste forme di blind trust, come accade nei paesi civili. E ci saranno anni per mettersi in regola.
Ma alla fine non si potrà più aggirare la norma che c'è già nel Codice civile e che Berlusconi ha aggirato con la sua candidatura, sostenendo che il concessionario è il povero Confalonieri".
Ma i conti non tornano. Anzitutto perché la legge del '57 sull'ineleggibilità dei concessionari pubblici non è stata aggirata solo da Berlusconi, nel '94 e nel 2001, ma anche dal centrosinistra nel '96, quando la giunta per le elezioni della Camera, a maggioranza Ulivo, dichiarò eleggibile il Cavaliere in barba alla legge (con il solo voto contrario di Luigi Saraceni) e ineleggibile Confalonieri e il suo avvocato (che naturalmente non si erano mai candidati). E, a dar retta a D'Alema, anche stavolta l'Unione non ha alcuna intenzione di applicare quella legge dello Stato.
Secondo. D'Alema dimentica che il conflitto d'interessi persiste anche se il pubblico concessionario siede in Parlamento nelle file dell'opposizione: per questo la legge del '57 stabilisce l'ineleggibilità assoluta, non la semplice incompatibilità con incarichi di governo.
Dunque il problema non riguarda le elezioni del 2011. Riguarda la legislatura che si apre dopo il 9-10 aprile, quando avremo per la seconda volta un leader dell'opposizione proprietario di tre reti tv (oltrechè, tramite parenti e prestanomi vari, di un centinaio di giornali, fra i quali il più venduto settimanale politico, Panorama, e due quotidiani di attualità come Il Giornale e Il Foglio), più metà della Rai (se l'Unione non si deciderà ad approvare una riforma che la liberi dal controllo dei partiti). Un concentrato di potere mediatico che, con l'aggiunta di un patrimonio di 15 miliardi di euro, della principale agenzia di pubblicità, di una bancassicurazione, di varie società cinematografiche, del Milan e tutto il resto, farà di lui l'uomo più potente d'Italia e il politico più potente del mondo.Molto più potente dell'eventuale capo del governo Prodi.
Terzo. Il blind trust ("fondo cieco") vale per aziende "neutre" per le regole democratiche come possono essere le società di costruzioni, di meccanica, di manifattura. Non certo per tv e giornali: se il pacchetto azionario di controllo Mediaset e Mondadori finisce in un fondo cieco, direttori e giornalisti continuano a vederci benissimo: sanno chi è il loro editore di riferimento e si comportano di conseguenza. Un conto è la tv di Bloomberg, costretto a ricorrere al blind trust prima di diventare sindaco di New York: l'emittente si limita a trasmettere asettici listini di Borsa.
Tutt'altra faccenda sono le tv generaliste Mediaset e i giornali Mondadori. E' evidente – come ha riconosciuto più volte lo stesso Confalonieri – che il conflitto d'interessi di Berlusconi si risolve solo ed esclusivamente con l'incompatibilità totale fra il possesso di quote azionarie nel settore mediatico e la carriera politica. Cioè con l'alternativa secca fra ineleggibilità e vendita delle quote entro una scadenza precisa: se Berlusconi vende, resta in Parlamento; se non vende, scaduto il termine della norma transitoria, decade dal mandato parlamentare.
Conosciamo l'obiezione: Berlusconi potrebbe tenersi le tv, scatenare il piagnisteo contro i comunisti che lo vogliono espropriare, giocarci tutta la campagna elettorale del 2011, proporsi come leader ineleggibile e dunque non candidarsi al Parlamento ma comunque, in caso di vittoria, affidare provvisoriamente Palazzo Chigi a un Gianni Letta qualunque, giusto il tempo necessario per far abrogare la norma sull'incompatibilità e tornare subito dopo alla guida del governo, come premier non parlamentare.
Tutto vero. Ma lo stesso scenario si configurerebbe in caso di blind trust: chi o che cosa impedirà, nel 2011, a Berlusconi di ricandidarsi alle elezioni e, subito dopo, di cancellare l'inutile fondo cieco per rimettere anche direttamente le mani sulle sue aziende e, contemporaneamente, su Palazzo Chigi? Niente e nessuno.
Per questo la prima priorità del dopo-10 aprile non è tanto modificare la legge Frattini, quanto smantellare ipso facto la legge Gasparri che, con la truffa del Sic, dilata all'infinito la soglia antitrust. E fissare subito un tetto rigorosissimo che nessun privato può superare nel settore televisivo (e, conseguentemente, pubblicitario). In Spagna il massimo consentito è il 49% di una rete analogica terrestre. In altri paesi, come Usa, Inghilterra e Francia, è il 100% di un'emittente. Anche nell'eventualità più generosa, Berlusconi dovrebbe subito cedere due reti e restare con una: cioè Canale5. Naturalmente, anche scendendo a una, resterebbe ineleggibile e dovrebbe decadere da parlamentare.
Ma se, la volta successiva, azzerasse tutto e tornasse a Palazzo Chigi senza passare per il Parlamento, si ritroverebbe in tasca una rete su sei o sette. Non tre. E il suo conflitto d'interessi risulterebbe comunque enormemente ridotto rispetto a oggi. Senza contare che, liberando le frequenze di Rete4 e Italia1, si consentirebbe finalmente a Europa 7 di Francesco Di Stefano di disporre delle frequenze necessarie per trasmettere su scala nazionale, come avrebbe diritto a fare dal 1999, quando vinse la concessione con una regolare gara ma trovò l'etere occupata da chi, dal '94, dovrebbe spedire una rete su satellite e non l'ha mai fatto grazie alla legge-inciucio Maccanico (1998) e alla Gasparri (2004),in barba a due sentenze della Corte costituzionale. Secondo D'Alema "il problema principale non è quello delle frequenze". Invece è proprio quello delle frequenze, tantopiù con la sperimentazione del digitale terrestre in cui è partita strafavorita Mediaset, visto che il nuovo sistema le ha triplicato le frequenze che occupò nel Far West degli anni 80 a costo zero e che ora gestisce come se fossero roba sua. Mentre gli eventuali concorrenti, se vogliono partecipare, devono pagarle care e salate.
Una riforma seria dovrebbe comportare anzitutto la riappropriazione di tutte le frequenze da parte dello Stato (unico legittimo proprietario) e la loro redistribuzione equilibrata a tutti i soggetti che ne hanno diritto e titolo, in un mercato finalmente pluralista, aperto a nuovi soggetti. Ma il mercato si apre soltanto partendo da una severa antitrust televisiva, che costringa Mediaset a scendere a una rete, o addirittura a zero se Berlusconi vuole continuare a far politica. Si dirà: ma il Cavaliere farà il diavolo a quattro. Ma è ovvio che sia così: da che mondo è mondo, l'antitrust colpisce i trust. Bill Gates, costretto continuamente dall'antitrust americana a cedere rami d'azienda ogni volta che eccede i tetti previsti dalla legge, non s'è mai sognato di gridare al comunismo: vende, incassa e porta a casa.
E' la legge.
Solo a quel punto si potrà decidere quante reti dovrà conservare la Rai. Farlo subito, con la "privatizzazione di una parte della Rai" proposta da D'Alema, sarebbe pura follia, con un effetto davvero paradossale: Berlusconi, dietro la foglia di fico del blind trust, si terrebbe strette le sue tre reti sull'analogico terrestre (maramaldeggiando intanto sul digitale terrestre); e la Rai scenderebbe a due o una rete, perdendo definitivamente la partita con Mediaset. Sarebbe l'ennesimo inciucio, l'ultimo regalo a Berlusconi, per giunta mascherato da rivoluzione copernicana fra gli strepiti furbeschi dei Ferrara e dei Battista. Secondo la migliore tradizione del Gattopardo e del "facite ammuina" di borbonica memoria.
'MicroMega', 6/04/06
La mai abrogata legge n.361 del 1957 all'articolo 10 afferma: "Non sono eleggibili (...) coloro che (...) risultino vincolati con lo Stato (...) per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica". Dati i numerosi possedimenti in campo mediatico, edilizio e assicurativo della famiglia Berlusconi, Silvio Berlusconi risulterebbe perciò tuttora ineleggibile per la legge italiana.
Tuttavia, la Giunta per le elezioni, anche grazie ad una parte degli esponenti del PDS del neo-segretario Massimo D'Alema, decide nel luglio 1994 di rigettare il ricorso presentato da alcuni esponenti di centro sinistra, permettendo l'ascesa politica di Berlusconi
Da Wikipedia
Dal sito Internet www.antoniodipietro.org
COMUNICATO N. 50 del 15 settembre 2000
L'ineleggibilità di Berlusconi e la commedia di D'Alema
(di Antonio Di Pietro e Elio Veltri)
Berlusconi, in quanto concessionario dello stato per le Tv, era ineleggibile. Non è stato così, grazie anche alla regia di D'Alema.
Massimo D'Alema alla festa dell'Unità di Bologna ha dichiarato che Berlusconi in quanto concessionario dello stato per le tv era ineleggibile e che la decisione della Giunta per le elezioni è stata una finzione.
Evitiamo il teatrino della politica e non prendiamoci in giro. D'Alema sa bene come stanno le cose ed è stato il vero regista della "finzione" e della vittoria di Berlusconi.
1. Infatti nella giunta delle elezioni, il 17 Ottobre 1996, in pieno clima di inciucio il centro sinistra che aveva la maggioranza per dichiarare Berlusconi ineleggibile, ha votato a favore del Cavaliere violando la legge del 1957 sulle ineleggibilità;
2. D'Alema ha fatto l'accordo sulla Bicamerale per fare di Berlusconi un padre costituente pur essendo il Cavaliere ineleggibile e, quindi, un abusivo di palazzo Montecitorio;
3. D'Alema e i DS non hanno nemmeno voluto mettere allíordine del giorno la nostra proposta di legge sulla ineleggibilità di Berlusconi dicendo che si faceva il suo gioco;
D'Alema sa bene che la maggioranza che ha guidato ha lavorato per Berlusconi e ora ne paga le conseguenze che, purtroppo, ricadono su tutto il paese.
Noi siamo stufi della politica annuncio che disorienta i cittadini e, soprattutto, dei comportamenti disinvolti di questa classe dirigente partitocratica. In queste condizioni chiederci accordi e fare appelli è solo patetico e fa il gioco di Berlusconi.
Antonio Di Pietro ed Elio Veltri
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La proprietà di emittenti televisive determina ineleggibilità parlamentare, non solo incompatibilità nelle cariche di governo
di Alessandro Pace
(p.o. di diritto costituzionale nella facoltà di giurisprudenza dell'Università di Roma La Sapienza)
(11 marzo 2002)
Scrivevo anni fa su "La voce" (28 ottobre 1994) -e ho successivamente più volte ribadito (in un saggio pubblicato in "Democrazia e cariche pubbliche" a cura di S. Cassese, Il Mulino, Bologna, 1996, e in un "forum" organizzato dalla "Rivista di diritto costituzionale", 1998)- che l'aver spostato, dalla problematica dell'ineleggibilità parlamentare a quella dell'incompatibilità nelle cariche di governo, l'angolo visuale dal quale considerare i problemi del conflitto di interessi dell'on. Silvio Berlusconi, è stata una mossa abilissima, il cui merito va tutto al Comitato di Tre Saggi istituito dallo stesso Berlusconi ai tempi del suo primo governo.
Infatti, una volta impostato il problema in termini di incompatibilità nelle cariche di Governo (come appunto fa anche il d.d.l. n. 1707 Berlusconi-Frattini-La Loggia di recente approvato alla Camera, così come il precedente d.d.l. a suo tempo votato anche dai partiti di centro-sinistra), il noto problema del conflitto d'interessi viene unilateralmente impostato alla luce (esclusiva) degli artt. 51, 42 e 41 Cost.
In altre parole, posta così la questione, chi esamina il problema finisce per preoccuparsi soltanto del diritto di elettorato passivo del cittadino Silvio Berlusconi, e del pregiudizio che egli verrebbe a subire nel suo diritto d'iniziativa economica e nel suo diritto di proprietà, qualora la permanenza nella carica di governo fosse condizionata alla dismissione della sua proprietà azionaria nelle note imprese televisive, pubblicitarie, di produzione e distribuzione cinematografiche, assicurative ecc.
Ora, a parte il fatto che una dismissione in favore dei figli non eviterebbe ovviamente la permanenza del conflitto d'interessi (anche...l'on. Berlusconi "tiene famiglia"!); e a parte il fatto che il cd. blind trust può ovviamente funzionare solo quando la proprietà sia esclusivamente mobiliare e quando al proprietario (e cioè, nella specie, a Berlusconi) sia inibita la conoscenza dei titoli che il fiduciario designato per legge (il cd. trustee) acquista e vende in vece sua... deve essere ancora una volta sottolineato che, essendo, il mutamento di prospettiva operato dal Comitato di Tre Saggi, radicalmente sbagliato, una soluzione pacificatrice non potrà mai essere rinvenuta, se si continua su quella strada.
E' bensì vero che di recente, sulla stampa, sia Andrea Manzella ("Repubblica"), sia Franco Debenedetti ("Il sole-24 ore"), sia il Presidente del Senato Marcello Pera ("Corriere della sera") hanno, nell'ordine, lamentato che gli interessi mediatici di Berlusconi non vengono affatto evidenziati nel d.d.l. approvato dalla Camera, laddove meriterebbero una specifica attenzione. E' tuttavia altrettanto vero che si continuerebbe "a menar il can per l'aia" se non si facesse un ulteriore passo in avanti e non si centrasse il vero problema, il quale è bensì connesso alla proprietà delle imprese titolari di concessioni televisive ma non è tanto quello dell'incompatibilità di questa proprietà con l'esercizio delle funzioni di governo, quanto l'abnorme influenza che essa effettivamente determina sul comportamento degli elettori: un abnorme influenza che non può non essere fatta risalire a chi è sostanzialmente il proprietario di ben tre emittenti nazionali ed è quindi in grado di condizionare, anche per il tramite della scelta dei direttori e dei collaboratori, la linea editoriale dell'emittente.
In altre parole, il vizio di fondo che pregiudica l'impostazione del d.d.l. approvato dalla Camera, è di non considerare che la nostra forma di governo è tuttora quella parlamentare, nella quale i membri del Governo dovrebbero, in linea di principio, essere dei parlamentari. Pertanto, prima di individuare la base costituzionale di specifiche incompatibilità governative, dovrebbero essere saggiate le potenzialità interpretative dell'art. 65 Cost., che appunto prevede l'esistenza di ineleggibilità parlamentari, oltre che di incompatibilità. Un discrimine, tra le une e le altre, che va individuato in ciò, che mentre le cause di incompatibilità si preoccupano -per finalità di "moralizzazione" della funzione pubblica- di evitare conflitti di interessi tra due cariche pubbliche ovvero tra una carica pubblica e una carica privata, le cause di ineleggibilità -come ripetutamente statuito dalla Corte costituzionale- perseguono lo scopo di evitare "un'indebita influenza sulla libera manifestazione di volontà dell'elettore" ovvero "una capacità di influenza incompatibile con le regole del sistema democratico".
Ed è appunto per tale ragione che, per primo, Pier Alberto Capotosti, nei primi mesi del 1994, invocò l'art. 10 del d. P. r. 30 marzo 1957 n. 361 per sostenere l'ineleggibilità di Silvio Berlusconi, e tale argomento fu ripreso nel successivo ottobre 1994 da Giuliano Amato e da me in due articoli apparsi su "La voce". E mentre io sostenevo -e tuttora sostengo- che l'art. 10, già così com'è scritto, nel combimato disposto del primo e del terzo comma, implicava ed implica l'immediata ineleggibilità di coloro che hanno la proprietà d'imprese private titolari di concessioni amministrative di notevole entità economica, Amato più prudentemente sosteneva che sarebbe stata necessaria una modifica a quella disposizione (e cioè l'estensione del divieto a "coloro che anche indirettamente controllano imprese televisive" ) per determinare, nelle successive elezioni, l'ineleggibilità di Berlusconi.
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Mi sono indotto a scrivere queste note -e l' ho fatto di malavoglia, perché so bene che i politici non vi presteranno attenzione non solo per la scarsa autorevolezza di chi scrive, ma anche per l'argomento del "cosa fatta capo ha"...- perché ritengo che noi costituzionalisti, quali che siano le nostre opzioni politiche, abbiamo comunque il dovere morale di dare un contributo, quanto meno di chiarezza lessicale, alla soluzione di un problema grave come quello del conflitto d'interessi in cui si dibatte il nostro Presidente del Consiglio.
E scrivo queste note nella speranza che almeno si smetta di dire -come ho letto ancora di recente- che "l'elettorato non ha ritenuto rilevante il conflitto d'interessi" perché altrimenti non avrebbe votato Berlusconi... Argomento, questo, che è il classico serpente che si mangia la coda, al quale si può ben rispondere che le ragioni dell'ineleggibilità dell'on. Berlusconi stanno anzi proprio lì, e cioè nell'essere egli riuscito a farsi eleggere grazie all'influenza elettorale esercitata per il tramite delle sue televisioni, e pur ammettendo pubblicamente il proprio conflitto di interessi, ma sulla base della mera promessa che in futuro l'avrebbe risolto...
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/dibattiti/conflitto/pace.html
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IL RUGGITO DELL'INCIUCIO di Marco Travaglio
Sostiene D'Alema, intervistato da Panorama, che risolvere finalmente il conflitto d'interessi di Berlusconi è una priorità per il centrosinistra nella prossima legislatura. Giusto.
E che il Cavaliere dovrà scegliere tra l'attività politica e la proprietà delle televisioni. Perfetto. E' un doppio passo avanti rispetto al fastidio con cui Piero Fassino, rispondendo a una provocazione di Piero Ricca a Torino due domeniche fa, aveva risposto che il conflitto d'interessi verrà risolto, ma senza fretta, perché "non è una priorità".
O almeno così pare. Giuliano Ferrara, il più attento e occhiuto custode della bottega berlusconiana che lautamente lo remunera da anni, salta subito su per strillare alla legge "illiberale" che "impedirà a Berlusconi di rifarsi" dall'eventuale sconfitta e "liquiderà il principio dell'alternanza liberale". Allarme subito rilanciato da Pierluigi Battista, che sul Corriere mette in guardia l'Unione da "rappresaglie ai danni dello sconfitto con provvedimenti ad personam" (sic).
Di solito, quando Ferrara e Battista strepitano, è perché Berlusconi rischia. Ma stavolta è tutta panna montata. Purtroppo la soluzione D'Alema è tutta fumo e niente arrosto. Due passi avanti a parole, due passi indietro nei fatti. Saldo finale: la stasi, lo status quo.
Non cambierà nulla. La ricetta indicata dal presidente Ds all'house organ berlusconiano, che all'apparenza sembra modificare tutto, in concreto lascerà le cose esattamente come stanno.
E' un replay riveduto e corretto (ma nemmeno poi tanto) della famigerata visita a Mediaset nell'aprile '96, alla vigilia della prima vittoria di Prodi, quando l'allora segretario del Pds assicurò negli studi di Stranamore Fedele Confalonieri, il Gabibbo, dirigenti e maestranze che "Mediaset è un grande patrimonio del Paese" (fingendo di ignorare che il patrimonio del Paese sono le frequenze pubbliche date in concessione dallo Stato, mentre l'azienda concessionaria è un grande patrimonio del suo azionista). Vediamo perché.
"Mi sembra logico – dichiara D'Alema - che il presidente del Consiglio non possa essere proprietario di aziende di comunicazione che operano in regime di concessione dello Stato. Per chi si trova in queste condizioni, saranno previste forme di blind trust, come accade nei paesi civili. E ci saranno anni per mettersi in regola.
Ma alla fine non si potrà più aggirare la norma che c'è già nel Codice civile e che Berlusconi ha aggirato con la sua candidatura, sostenendo che il concessionario è il povero Confalonieri".
Ma i conti non tornano. Anzitutto perché la legge del '57 sull'ineleggibilità dei concessionari pubblici non è stata aggirata solo da Berlusconi, nel '94 e nel 2001, ma anche dal centrosinistra nel '96, quando la giunta per le elezioni della Camera, a maggioranza Ulivo, dichiarò eleggibile il Cavaliere in barba alla legge (con il solo voto contrario di Luigi Saraceni) e ineleggibile Confalonieri e il suo avvocato (che naturalmente non si erano mai candidati). E, a dar retta a D'Alema, anche stavolta l'Unione non ha alcuna intenzione di applicare quella legge dello Stato.
Secondo. D'Alema dimentica che il conflitto d'interessi persiste anche se il pubblico concessionario siede in Parlamento nelle file dell'opposizione: per questo la legge del '57 stabilisce l'ineleggibilità assoluta, non la semplice incompatibilità con incarichi di governo.
Dunque il problema non riguarda le elezioni del 2011. Riguarda la legislatura che si apre dopo il 9-10 aprile, quando avremo per la seconda volta un leader dell'opposizione proprietario di tre reti tv (oltrechè, tramite parenti e prestanomi vari, di un centinaio di giornali, fra i quali il più venduto settimanale politico, Panorama, e due quotidiani di attualità come Il Giornale e Il Foglio), più metà della Rai (se l'Unione non si deciderà ad approvare una riforma che la liberi dal controllo dei partiti). Un concentrato di potere mediatico che, con l'aggiunta di un patrimonio di 15 miliardi di euro, della principale agenzia di pubblicità, di una bancassicurazione, di varie società cinematografiche, del Milan e tutto il resto, farà di lui l'uomo più potente d'Italia e il politico più potente del mondo.Molto più potente dell'eventuale capo del governo Prodi.
Terzo. Il blind trust ("fondo cieco") vale per aziende "neutre" per le regole democratiche come possono essere le società di costruzioni, di meccanica, di manifattura. Non certo per tv e giornali: se il pacchetto azionario di controllo Mediaset e Mondadori finisce in un fondo cieco, direttori e giornalisti continuano a vederci benissimo: sanno chi è il loro editore di riferimento e si comportano di conseguenza. Un conto è la tv di Bloomberg, costretto a ricorrere al blind trust prima di diventare sindaco di New York: l'emittente si limita a trasmettere asettici listini di Borsa.
Tutt'altra faccenda sono le tv generaliste Mediaset e i giornali Mondadori. E' evidente – come ha riconosciuto più volte lo stesso Confalonieri – che il conflitto d'interessi di Berlusconi si risolve solo ed esclusivamente con l'incompatibilità totale fra il possesso di quote azionarie nel settore mediatico e la carriera politica. Cioè con l'alternativa secca fra ineleggibilità e vendita delle quote entro una scadenza precisa: se Berlusconi vende, resta in Parlamento; se non vende, scaduto il termine della norma transitoria, decade dal mandato parlamentare.
Conosciamo l'obiezione: Berlusconi potrebbe tenersi le tv, scatenare il piagnisteo contro i comunisti che lo vogliono espropriare, giocarci tutta la campagna elettorale del 2011, proporsi come leader ineleggibile e dunque non candidarsi al Parlamento ma comunque, in caso di vittoria, affidare provvisoriamente Palazzo Chigi a un Gianni Letta qualunque, giusto il tempo necessario per far abrogare la norma sull'incompatibilità e tornare subito dopo alla guida del governo, come premier non parlamentare.
Tutto vero. Ma lo stesso scenario si configurerebbe in caso di blind trust: chi o che cosa impedirà, nel 2011, a Berlusconi di ricandidarsi alle elezioni e, subito dopo, di cancellare l'inutile fondo cieco per rimettere anche direttamente le mani sulle sue aziende e, contemporaneamente, su Palazzo Chigi? Niente e nessuno.
Per questo la prima priorità del dopo-10 aprile non è tanto modificare la legge Frattini, quanto smantellare ipso facto la legge Gasparri che, con la truffa del Sic, dilata all'infinito la soglia antitrust. E fissare subito un tetto rigorosissimo che nessun privato può superare nel settore televisivo (e, conseguentemente, pubblicitario). In Spagna il massimo consentito è il 49% di una rete analogica terrestre. In altri paesi, come Usa, Inghilterra e Francia, è il 100% di un'emittente. Anche nell'eventualità più generosa, Berlusconi dovrebbe subito cedere due reti e restare con una: cioè Canale5. Naturalmente, anche scendendo a una, resterebbe ineleggibile e dovrebbe decadere da parlamentare.
Ma se, la volta successiva, azzerasse tutto e tornasse a Palazzo Chigi senza passare per il Parlamento, si ritroverebbe in tasca una rete su sei o sette. Non tre. E il suo conflitto d'interessi risulterebbe comunque enormemente ridotto rispetto a oggi. Senza contare che, liberando le frequenze di Rete4 e Italia1, si consentirebbe finalmente a Europa 7 di Francesco Di Stefano di disporre delle frequenze necessarie per trasmettere su scala nazionale, come avrebbe diritto a fare dal 1999, quando vinse la concessione con una regolare gara ma trovò l'etere occupata da chi, dal '94, dovrebbe spedire una rete su satellite e non l'ha mai fatto grazie alla legge-inciucio Maccanico (1998) e alla Gasparri (2004),in barba a due sentenze della Corte costituzionale. Secondo D'Alema "il problema principale non è quello delle frequenze". Invece è proprio quello delle frequenze, tantopiù con la sperimentazione del digitale terrestre in cui è partita strafavorita Mediaset, visto che il nuovo sistema le ha triplicato le frequenze che occupò nel Far West degli anni 80 a costo zero e che ora gestisce come se fossero roba sua. Mentre gli eventuali concorrenti, se vogliono partecipare, devono pagarle care e salate.
Una riforma seria dovrebbe comportare anzitutto la riappropriazione di tutte le frequenze da parte dello Stato (unico legittimo proprietario) e la loro redistribuzione equilibrata a tutti i soggetti che ne hanno diritto e titolo, in un mercato finalmente pluralista, aperto a nuovi soggetti. Ma il mercato si apre soltanto partendo da una severa antitrust televisiva, che costringa Mediaset a scendere a una rete, o addirittura a zero se Berlusconi vuole continuare a far politica. Si dirà: ma il Cavaliere farà il diavolo a quattro. Ma è ovvio che sia così: da che mondo è mondo, l'antitrust colpisce i trust. Bill Gates, costretto continuamente dall'antitrust americana a cedere rami d'azienda ogni volta che eccede i tetti previsti dalla legge, non s'è mai sognato di gridare al comunismo: vende, incassa e porta a casa.
E' la legge.
Solo a quel punto si potrà decidere quante reti dovrà conservare la Rai. Farlo subito, con la "privatizzazione di una parte della Rai" proposta da D'Alema, sarebbe pura follia, con un effetto davvero paradossale: Berlusconi, dietro la foglia di fico del blind trust, si terrebbe strette le sue tre reti sull'analogico terrestre (maramaldeggiando intanto sul digitale terrestre); e la Rai scenderebbe a due o una rete, perdendo definitivamente la partita con Mediaset. Sarebbe l'ennesimo inciucio, l'ultimo regalo a Berlusconi, per giunta mascherato da rivoluzione copernicana fra gli strepiti furbeschi dei Ferrara e dei Battista. Secondo la migliore tradizione del Gattopardo e del "facite ammuina" di borbonica memoria.
'MicroMega', 6/04/06