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View Full Version : [R.I.P.] Robert Altman


Hitman47
21-11-2006, 23:37
LOS ANGELES - E' morto Robert Altman. Il grande regista, nato a Kansas City, Missouri, il 20 febbraio del 1925, si è spento ieri sera in un ospedale di Los Angeles. La notizia è stata data dalla sua compagnia di produzione, Sandcastle 5 Productions.

Tra i suoi film di maggior successo Mash (1970), Il lungo addio (1973), Nashville (1975) 3 donne (1977), Quintet (1978). Fino ad America oggi (1993), Gosford Park (2001) e Radio America (2006).

Quest'anno era stato premiato con l'Oscar alla carriera. Era la prima volta che Hollywood gli tributava il prestigioso riconoscimento. Tante invece le nomination per la regia: ben cinque, l'ultima per Gosford Park. Nessun regista ne ha mai avute di più senza vincere neppure una volta, anche se come numero di candidature Altman è alla pari con Alfred Hitchcock, Martin Scorsese, Clarence Brown e King Vidor.

Proprio in coincidenza con l'Oscar alla carriera, nel marzo scorso, il regista aveva rivelato di essere stato sottoposto a trapianto di cuore una decina d'anni fa.

La cifra di Altman è una satira caustica e irriverente che aveva spesso "rivisitato" i generi classici di Hollywood, dal western al noir al giallo, sempre dissacrandoli. Stilisticamente, le sue opere si caratterizzano per l'impiego di cast molto nutriti, l'improvvisazione, i dialoghi serrati e la sovrapposizione di scene con passaggi veloci da un personaggio all'altro.

Dopo Mash, la commedia nera contro la guerra che lo portò al successo, lavorò senza sosta. Tutta la sua carriera è stata segnata da un rapporto altalenante, di amore-odio, con il pubblico e con la critica. E la sua immagine è sempre stata quella di un gentiluomo del Sud ma anche di anarchico solitario e lucido intellettuale. Uno di quei registi statunitensi considerati grandissimi in Europa e spesso misconosciuto dall'America di cui sottolineò e interpretò le contraddizioni e i miti culturali.

Altman aveva studiato dai gesuiti. Si era laureato in ingegneria. Al cinema, come molti altri, era arrivato per caso, dopo aver combattuto nell'aviazione Usa durante la seconda guerra mondiale. Prima aveva scritto testi per la radio e per una società che produceva film industriali. Da regista aveva cominciato come documentarista e sceneggiatore. La svolta era arrivata quando un gestore di sale cinematografiche gli aveva offerto i soldi per un film: nel 1955 aveva diretto I delinquenti e poi La storia di James Dean, passati quasi inosservati. Era stato uno fra i primi a scoprire il potenziale della televisione, che considerava la sua vera palestra fra la serie Bonanza e gli episodi prodotti da Hitchcock.

Al cinema era tornato nei tardi anni '60 con Countdown e Quel freddo giorno nel parco. Nel 1969 aveva vinto la palma d'oro a Cannes con Mash. In seguito tanti successi, spesso più di critica che di pubblico. E un rapporto speciale, coltivato nel tempo, con il cinema italiano. Fino a Un matrimonio, con l'indimenticabile duetto comico Gassman-Proietti, e a Pret-a-porter con Marcello Mastroianni e Sophia Loren.

Di sé e del suo lavoro diceva: "Nessun altro regista ha avuto un mix migliore del mio. Sono stato molto fortunato nella mia carriera. Non ho mai dovuto dirigere un film che non avevo scelto o sviluppato. Il mio amore per il cinema mi ha dato una chiave d'accesso al mondo e alla condizione umana".

(21 novembre 2006)
Repubblica.it (http://www.repubblica.it/2006/11/sezioni/spettacoli_e_cultura/morto-altman/morto-altman/morto-altman.html)


Dolore e rimpianto per questa enorme perdita :( :(

SquallSed
21-11-2006, 23:48
:(

rip

Nicky
22-11-2006, 00:07
Caspita..

SPhinX
22-11-2006, 01:20
rip :(

mysteryman
22-11-2006, 01:27
:(

Adric
22-11-2006, 07:47
Il suo 'Short Cuts' (in italiano 'America Oggi') è uno dei film più significativi degli anni 90.

Adric
26-11-2006, 07:32
Mercoledì 22 Novembre 2006

Lui e Hollywood sempre così lontani

di FLAVIO POMPETTI

New York

IL regista americano Robert Altman si è spento nella notte tra lunedì e martedì in un ospedale losangelino nel quale era ricoverato da alcuni giorni, ma la notizia del decesso è stata data nella mattinata di ieri a New York da un portavoce della società di produzione cinematografica Sandcastle 5 che lo stesso regista aveva fondato 23 anni fa.
L’enorme distanza geografica tra le due città non è casuale, ma è un segno della estraneità di Altman all’establishment delle majors di Hollywood, le quali hanno tollerato la sua scomoda presenza nella maggior parte dei casi, per abbracciarlo con entusiasmo le rare volte in cui i suoi film si sono tradotti in un grande successo commerciale.
Non era certo il carattere mercuriale del regista a preoccupare l’ambiente del cinema americano: la passione per l’alcool, il gioco d’azzardo, e la curiosità per alcuni aspetti della cultura malavitosa sono caratteri diffusi nell’ambiente, e ben tollerati. La sua era piuttosto una diversità radicale, una opposizione critica all’industria e ai sui riti, che si traduceva in uno stile di lavoro ugualmente fuori dai canoni, e difficilmente conciliabili con quelli delle majors.
La sua non era una faccia popolare in America, e molti film da lui diretti hanno raccolto un successo critico e di pubblico superiore fuori dal paese. La sua apparizione al Kodak Theatre lo scorso febbraio per ricevere l’Oscar alla carriera ha rivelato a molti spettatori il volto sconosciuto di un anziano signore spettinato e affaticato, che ha colto l’occasione per confessare di avere ricevuto un trapianto di cuore undici anni fa, e per parlare della morte.
«Non capisco come la cosa possa sfuggire a tanti, ma l’intero film ha come soggetto la morte», Altman aveva ripetuto spesso in tempi recenti a commento della sua più recente pellicola: Radio America , che racconta le ultime ore di vita di uno spettacolo musicale itinerante sui palcoscenici d’America.
Eppure la vita lo possedeva ancora con passione: dopo il debutto di Radio America , uscito nelle sale statunitensi lo scorso maggio, aveva già iniziato a lavorare al progetto di Hands on Hard Body , un film che avrebbe girato con Billy Thornton e Hilary Swank.

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di FABIO FERZETTI

L’uomo era imponente, cordialissimo, l’occhio azzurro divertito, il pizzetto che ricordava Buffalo Bill, finto eroe e vero cialtrone in uno dei suoi film più sferzanti. Il regista era meno facile da incasellare e anche se il suo gusto per le storie affollate e caotiche aveva finito per creare una specie di formula, ogni film era diverso, ogni personaggio specie quelli femminili un microcosmo.
Nato a Kansas City, Missouri, il 20 febbraio 1925, in una famiglia che discendeva dai pellegrini del Mayflower, il giovane Altman studiò dai gesuiti, combatté in aviazione pilotando i bombardieri B-24 e arrivò al cinema solo dopo aver fatto molta radio, pubblicità e soprattutto tv (erano suoi molti episodi di Bonanza e della serie Alfred Hitchcock presenta : ma già qui, per esigenza di libertà, iniziarono le liti con i produttori). Facile individuare in questo percorso i germi del suo stile futuro: la ricchezza lussureggiante delle sue colonne sonore, il gusto per gli intrecci paralleli, la tendenza a concentrare il mondo intero in un luogo preciso.
E’ la struttura dei suoi film più celebri, dall’ospedale militare di Mash (primo grande successo) alla stazione radiofonica di Radio America , passando naturalmente per la kermesse politico-canora di Nashville . Senza dimenticare la folle festa di nozze di Un matrimonio , le sale da gioco di California Poker , i locali jazz di Kansas City , la villa aristocratico-delittuosa di Gosford Park , il circo della moda di Prêt-à-Porter . E l’amata-odiata Hollywood, che riuscì a sbeffeggiare e al tempo stesso a celebrare nell’oliatissimo I Protagonisti .
Ma proprio questo film (in originale The Player , titolo più ambiguo e rivelatore) ci porta al cuore del cinema di Altman. Che arriva alla realtà sempre partendo dal suo riflesso, o meglio scava nel profondo cercandolo in superficie, perché dalla conquista del West in poi l’America è un paese di immagini (di mitologie), e molti film di Altman sono in sostanza l’analisi, la confutazione, a volte il semplice rovesciamento di queste immagini sedimentate nel cuore di ogni spettatore del mondo. Pensiamo naturalmente al Marlowe imbranato e crepuscolare disegnato da Elliot Gould nello struggente Il lungo addio , ai giocatori malinconici di California Poker (Altman conosceva di persona il demone del gioco), all’ideologico e sfortunato Popeye , ai Bonnie e Clyde anti-glamour di Gang , al West affaristico, sordido e violento dei Compari .
Col tempo questa tendenza si sarebbe cristallizzata facendosi a tratti meccanica e prevedibile. Ma con l’incalzare dell’età da una decina d’anni, come aveva rivelato solo di recente, Altman viveva con il cuore di un altro qualcosa era cambiato. Ai toni ironici e sferzanti di una volta si era sovrapposta una curiosità, una disponibilità nuova. Quello sguardo da entomologo che in America oggi aveva raggiunto il punto di non ritorno, sembrava quasi illanguidirsi in un rinnovato interesse per il genere umano, o almeno per alcuni dei suoi esponenti. Come sarebbe apparso evidente nell’inattesa e magistrale elegia del suo ultimo lavoro, A Prairie Home Companion , ribattezzato Radio America per usare un titolo “alla Altman” quando era invece un film completamente diverso dagli altri, fatta salva la solita struttura corale.
Una differenza che salta addirittura agli occhi paragonando i due grandi affreschi. Qua, in Radio America , il rimpianto per un mondo al tramonto, l’omaggio inatteso alla grande cultura popolare americana, la nostalgia per valori semplici e antichi che paradossalmente sembrano sopravvivere solo in quel polveroso avamposto radiofonico. Là, in America oggi , lo sguardo distaccato ma ostentatamente sgradevole posato su un’umanità che sembra aver smarrito ogni pietà, fra cadaveri ignorati per non guastare una partita a pesca, mogliettine che lavorano per i sex phone, adulteri compiuti per rabbia più che per libidine, delitti assurdi e distratti (nonché impuniti naturalmente), e via degenerando.
Un campionario di orrori quotidiani che avrebbe finito per eclissare la parte più segreta e forse preziosa, alla distanza, dell’opera di Altman. Quella che va da Tre donne a Follia d’amore passando per Jimmy Dean, Jimmy Dean . Film “minori”, spesso di origine teatrale, ma segnati dagli stessi scontri con i produttori che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Senza drammatizzare però, perché, come amava ripetere, «loro vendono scarpe, io fabbrico guanti».
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«Esploro i colori del mondo»

di LEONARDO JATTARELLI
L’ULTIMA volta che l’abbiamo incontrato, in videoconferenza da New York, Altman conservava intatta quella naturale, signorile intellettualità che era sempre disponibile a rimettere in gioco. Anzi, in qualche modo amava essere contraddetto: «Non ho messaggi da comunicare, né troppo da raccontare - sorrideva -, mi limito come sempre a mettere nei miei film i sentimenti e le visioni che ho». In quel caso si trattava del mondo della danza, superbamente descritto in The Company : «I ballerini sono grandi atleti, delicati come gli ingranaggi di un orologio e forti come sollevatori di pesi. Gente incasinata come tanti di noi, attenta al proprio corpo ma che fuma una sigaretta dopo l’altra e manda giù decine di caffè». Aveva un progetto da realizzare, Paint , sul mondo dell’arte moderna a New York: «Perché a me interessa esplorare i colori del mondo più che narrare storie. E’ un universo che sono ansioso di conoscere da vicino. Sarà un melodramma nel cuore della Grande Mela oggi dominata dalla videoarte». La politica? Lo sottolineava ancora una volta, lui, l’irriverente che aveva fumato marijuana davanti a Blair: «Dobbiamo liberarci da Bush, per il bene di tutti», e in arte storceva il naso davanti allo strapotere delle major: «Non siamo in guerra l’uno contro l’altro, ma loro vendono scarpe mentre io confeziono guanti».
Altman l’avventuriero, l’elegante ritrattista di generi, tendenze, mode le più diverse, ai suoi esordi era stato folgorato dalla radio: «Il mio primo interesse per i drammi viene da lì. L’ascoltavo steso sul pavimento, da bambino, e mi bevevo le storie di Norman Corwin». Lo sguardo, invece, venne ammaliato dal nostro cinema: «Tutti abbiamo imparato da registi come De Sica e il suo Ladri di biciclette , da Gillo Pontecorvo e dalla sua Battaglia di Algeri ». Il suo testamento artistico? Sta in questa frase: «Guardatevi dalla cupidigia umana che ha trasformato il nostro secolo in una bolgia di violenza e crudeltà. Non va trattata come tragedia ma raccontata come una fiaba, come si potrebbe leggere un fumetto. Togliendole ogni colore cupo, tingendola di sferzante ironia».


(Il Messaggero)