dantes76
17-11-2006, 21:40
Cose di Casa Nostra.
Scritto da Leonardo Bianchi
venerdì 17 novembre 2006
Finalmente, a soli sette mesi dal voto, si è insediata la commissione antimafia. Già a luglio, ad ogni modo, si erano ricevuti segnali decisamente incoraggianti sulla sua possibile e concreta effettività. In un dibattito parlamentare di mezza estate, alcuni deputati (Napoli, Lumia, Licandro e altri) presentarono una serie di emendamenti volti ad evitare lo spiacevole inconveniente che, per caso, si intende, un inquisito, imputato o condannato per reati di mafia potesse prendere parte ai lavori della commissione antimafia.
Pareva, infatti, decisamente troppo limitare in maniera così violenta e pervicace le «prerogative del Parlamento», nonchè il «mandato dei parlamentari». Un deputato del PRC, Forgione, strabuzzava gli occhi al fatto che «un avvocato che difende metà della cupola mafiosa di Cosa nostra» può accedere ai lavori della commissione, mentre un rinviato a giudizio per mafia no. Ma stiamo scherzando?
Alla perplessità manifestata dalla classe politica, i più non sapevano, nè potevano, darsi una risposta convincente; non capivano, molto semplicemente, che una simile discriminazione ledeva, alle fondamenta, la sacralità delle prerogative parlamentari. Fortunosamente, Forgione è stato nominato Presidente della commissione.
Per Lorenzo Diana, diessino, la sua nomina (insieme a quella di Lumia) rappresenta una «una garanzia». Effettivamente, lo è anche per noi. Sapere che costui ha come punto di riferimento morale il monsignor Bregantini, vescovo di Locri, e non Al Capone, fa presagire per il meglio.
Il toto-scommesse scatenatosi su quale dei rinviati a giudizio per mafia potesse essere eletto, purtroppo, è saltato. I candidati erano i soliti noti: Mannino, Dell'Ultri, Cuffaro, Giudice e altri. Peccato. Dev'essere stato, sicuramente, qualche giustizialista, che, evidenziando la sconvenienza del gesto, ha fatto bloccare il tutto. Che si vergogni.
Al loro posto, proprio per non farsi mancare nulla, gli alti vertici della Casta hanno pensato bene di piazzare due preclare figure, due «professionisti della politica», che tanto hanno dato, ma soprattutto preso, a quest'ultima. Sono Paolo Cirino Pomicino e Alfredo Vito, i due Vicerè di Napoli, quelli che facevano parte del famigerato «comitato d’affari», che era uso spartirsi allegramente appalti, tangenti e quant'altro potesse creare ricchezza. I due hanno, d'altronde, una cosa in comune: sono entrambi pregiudicati per corruzione, requisito, a quanto pare di vedere, ormai ritenuto imprescindibile per svolgere l'attività parlamentare in commissione antimafia.
Cirino Pomicino è condannato, in maniera definitiva, ad un anno e otto mesi di carcere per la maxi-tangente Enimont, e ha patteggiato una pena di due mesi per i fondi neri Eni. L'ex Vicerè, però, assicura che la lotta che porterà alla mafia sarà «totale». Vito, detto anche "Mister centomila preferenze" per la formidabile macchina clientelare che sorreggeva la sua attività politica, ha patteggiato due anni di carcere per corruzione, confessando appena ventidue episodi di tangenti, restituendo poi cinque miliardi di lire sull'unghia (poi serviti a realizzare "parco Mazzetta", un parco così ribattezzato dalla fantasia popolare), giurando solennemente di non mettere mai più piede in politica.
Addirittura, supplicò i suoi colleghi di partito, inquisiti o persino semplicemente raggiunti da un avviso di garanzia, a farsi da parte per permettere un ricambio generazionale, reputato dallo stesso «necessario». Poi, però, cambiò idea, corse ad arruolarsi nelle file di Forza Italia, e tornò, coerentemente, a fare politica attiva.
Solo due corrotti, però, parevano poco. Dopo aver negato alla pericolosa incensurata Angela Napoli di AN, che si occupa seriamente, per sua sfortuna, di questioni inerenti la criminalità organizzata, l'ufficio di vicepresidenza, le alte sfere hanno solermente provveduto a rimpinguare la già esausta credibilità della commissione in questione, con Carlo Vizzini, già miracolato dal processo per il finanziamento illecito di 300 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi, e con Franco Malvano.
Quest'ultimo, ex-questore a Napoli, trombato alle comunali dalla Iervolino (il che è tutto dire), nel 2005 risultava essere indagato per concorso esterno in associazione camorristica. Poi la sua posizione venne archiviata, ma rimane, vero o falso, quello che diceva di lui un boss pentito, Luigi Giuliano, secondo il quale Malvano era stato «nella mani della camorra» per diverso tempo. Peccato che non fosse stato indagato quest'anno, altrimenti, come dice Travaglio, ci sarebbe stato il primo rimedio parlamentare omeopatico: un iniezione di mafia in commissione antimafia, per combattere la mafia. Alchè, di fronte a tutto ciò, Diana alza il ditino e accusa il centrodestra, reo di non aver colto «l’alto ruolo di questo organismo». Ma, evidentemente, non si rende conto di quanto stia dicendo.
Se per «alto ruolo» si intende organizzare l'attività parlamentare per combattere seriamente la piaga della criminalità organizzata di stampo mafioso, non siamo d'accordo. Se è per cancellare i rapporti tra mafia e politica e stravolgere completamente la sentenza della Suprema Corte riguardo alla partecipazione del senatore Andreotti al sodalizio mafioso Cosa Nostra («concretamente ravvisabile», nonchè motivo di «rafforzamento per l'organizzazione criminale»), allora siamo d'accordo sulla definizione. Il pacioso Governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, con tanto di coppola in testa, ammoniva la platea di "Annozero" sul fatto che la mafia dev'essere «smitizzata». In effetti, ha ragione, lui che parla in una posizione di sicuro intenditore, avendo, suo malgrado, conosciuto dei mafiosi o presunti tali. Bisogna smetterla, una volta per tutte, con questo mito dell'intreccio tra mafia e politica. Bisogna smetterla, anzi, di sostenere l'esistenza stessa della mafia. Non esiste. E, anche qualora esistesse, con essa «bisogna conviverci», come ci è stato autorevolmente detto anni fa. Notiamo, pertanto, con rinnovato piacere, che gli umori della popolazione sono stati perfettamente recepiti dalla massima istituzione rappresentativa della sovranità popolare, il Parlamento. Come, del resto, sovente accade.
http://inpolitica.net/index.php?option=com_content&task=view&id=180&Itemid=9
Scritto da Leonardo Bianchi
venerdì 17 novembre 2006
Finalmente, a soli sette mesi dal voto, si è insediata la commissione antimafia. Già a luglio, ad ogni modo, si erano ricevuti segnali decisamente incoraggianti sulla sua possibile e concreta effettività. In un dibattito parlamentare di mezza estate, alcuni deputati (Napoli, Lumia, Licandro e altri) presentarono una serie di emendamenti volti ad evitare lo spiacevole inconveniente che, per caso, si intende, un inquisito, imputato o condannato per reati di mafia potesse prendere parte ai lavori della commissione antimafia.
Pareva, infatti, decisamente troppo limitare in maniera così violenta e pervicace le «prerogative del Parlamento», nonchè il «mandato dei parlamentari». Un deputato del PRC, Forgione, strabuzzava gli occhi al fatto che «un avvocato che difende metà della cupola mafiosa di Cosa nostra» può accedere ai lavori della commissione, mentre un rinviato a giudizio per mafia no. Ma stiamo scherzando?
Alla perplessità manifestata dalla classe politica, i più non sapevano, nè potevano, darsi una risposta convincente; non capivano, molto semplicemente, che una simile discriminazione ledeva, alle fondamenta, la sacralità delle prerogative parlamentari. Fortunosamente, Forgione è stato nominato Presidente della commissione.
Per Lorenzo Diana, diessino, la sua nomina (insieme a quella di Lumia) rappresenta una «una garanzia». Effettivamente, lo è anche per noi. Sapere che costui ha come punto di riferimento morale il monsignor Bregantini, vescovo di Locri, e non Al Capone, fa presagire per il meglio.
Il toto-scommesse scatenatosi su quale dei rinviati a giudizio per mafia potesse essere eletto, purtroppo, è saltato. I candidati erano i soliti noti: Mannino, Dell'Ultri, Cuffaro, Giudice e altri. Peccato. Dev'essere stato, sicuramente, qualche giustizialista, che, evidenziando la sconvenienza del gesto, ha fatto bloccare il tutto. Che si vergogni.
Al loro posto, proprio per non farsi mancare nulla, gli alti vertici della Casta hanno pensato bene di piazzare due preclare figure, due «professionisti della politica», che tanto hanno dato, ma soprattutto preso, a quest'ultima. Sono Paolo Cirino Pomicino e Alfredo Vito, i due Vicerè di Napoli, quelli che facevano parte del famigerato «comitato d’affari», che era uso spartirsi allegramente appalti, tangenti e quant'altro potesse creare ricchezza. I due hanno, d'altronde, una cosa in comune: sono entrambi pregiudicati per corruzione, requisito, a quanto pare di vedere, ormai ritenuto imprescindibile per svolgere l'attività parlamentare in commissione antimafia.
Cirino Pomicino è condannato, in maniera definitiva, ad un anno e otto mesi di carcere per la maxi-tangente Enimont, e ha patteggiato una pena di due mesi per i fondi neri Eni. L'ex Vicerè, però, assicura che la lotta che porterà alla mafia sarà «totale». Vito, detto anche "Mister centomila preferenze" per la formidabile macchina clientelare che sorreggeva la sua attività politica, ha patteggiato due anni di carcere per corruzione, confessando appena ventidue episodi di tangenti, restituendo poi cinque miliardi di lire sull'unghia (poi serviti a realizzare "parco Mazzetta", un parco così ribattezzato dalla fantasia popolare), giurando solennemente di non mettere mai più piede in politica.
Addirittura, supplicò i suoi colleghi di partito, inquisiti o persino semplicemente raggiunti da un avviso di garanzia, a farsi da parte per permettere un ricambio generazionale, reputato dallo stesso «necessario». Poi, però, cambiò idea, corse ad arruolarsi nelle file di Forza Italia, e tornò, coerentemente, a fare politica attiva.
Solo due corrotti, però, parevano poco. Dopo aver negato alla pericolosa incensurata Angela Napoli di AN, che si occupa seriamente, per sua sfortuna, di questioni inerenti la criminalità organizzata, l'ufficio di vicepresidenza, le alte sfere hanno solermente provveduto a rimpinguare la già esausta credibilità della commissione in questione, con Carlo Vizzini, già miracolato dal processo per il finanziamento illecito di 300 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi, e con Franco Malvano.
Quest'ultimo, ex-questore a Napoli, trombato alle comunali dalla Iervolino (il che è tutto dire), nel 2005 risultava essere indagato per concorso esterno in associazione camorristica. Poi la sua posizione venne archiviata, ma rimane, vero o falso, quello che diceva di lui un boss pentito, Luigi Giuliano, secondo il quale Malvano era stato «nella mani della camorra» per diverso tempo. Peccato che non fosse stato indagato quest'anno, altrimenti, come dice Travaglio, ci sarebbe stato il primo rimedio parlamentare omeopatico: un iniezione di mafia in commissione antimafia, per combattere la mafia. Alchè, di fronte a tutto ciò, Diana alza il ditino e accusa il centrodestra, reo di non aver colto «l’alto ruolo di questo organismo». Ma, evidentemente, non si rende conto di quanto stia dicendo.
Se per «alto ruolo» si intende organizzare l'attività parlamentare per combattere seriamente la piaga della criminalità organizzata di stampo mafioso, non siamo d'accordo. Se è per cancellare i rapporti tra mafia e politica e stravolgere completamente la sentenza della Suprema Corte riguardo alla partecipazione del senatore Andreotti al sodalizio mafioso Cosa Nostra («concretamente ravvisabile», nonchè motivo di «rafforzamento per l'organizzazione criminale»), allora siamo d'accordo sulla definizione. Il pacioso Governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, con tanto di coppola in testa, ammoniva la platea di "Annozero" sul fatto che la mafia dev'essere «smitizzata». In effetti, ha ragione, lui che parla in una posizione di sicuro intenditore, avendo, suo malgrado, conosciuto dei mafiosi o presunti tali. Bisogna smetterla, una volta per tutte, con questo mito dell'intreccio tra mafia e politica. Bisogna smetterla, anzi, di sostenere l'esistenza stessa della mafia. Non esiste. E, anche qualora esistesse, con essa «bisogna conviverci», come ci è stato autorevolmente detto anni fa. Notiamo, pertanto, con rinnovato piacere, che gli umori della popolazione sono stati perfettamente recepiti dalla massima istituzione rappresentativa della sovranità popolare, il Parlamento. Come, del resto, sovente accade.
http://inpolitica.net/index.php?option=com_content&task=view&id=180&Itemid=9