majin mixxi
16-11-2006, 21:43
ODO GELLI FAR FESTA
Tratto da “Licio Gelli – Parola di Venerabile”, di Sandro Neri, Aliberti Editore
Introduzione di Sandro Neri
Sulla loggia massonica Propaganda 2 e sul suo venerabile maestro, dal 1981, anno della perquisizione che portò alla scoperta degli elenchi degli iscritti e all’esplodere dello scandalo che causò le dimissioni del governo in carica e la sostituzione di tutti i vertici delle forze armate e dei servizi di sicurezza, sono uscite molte pubblicazioni. Alcune delle quali dettagliatissime e interessanti. Molti dei segreti legati all’attività della P2 e del suo artefice attendono però ancora di essere svelati. Venticinque anni sono un tempo sufficiente per tentare di rileggere alcuni accadimenti, certe connessioni, non per mettere in discussione il lavoro dei tanti che nelle diverse sedi istituzionali hanno indagato sul fenomeno, ma per cercare magari di aggiungere qualche nuovo tassello. Con l’unico obiettivo di provare a capire.
Per questo ho pensato che un primo, indispensabile passo fosse quello di tentare un confronto col protagonista assoluto di questa vicenda: Licio Gelli. Questo libro, che raccoglie la trascrizione di una lunga intervista, frutto di una serie di incontri con l’ex Venerabile della P2, nasce col proposito di scavare nella vita e nella memoria di un personaggio che, giunto all’età di 87 anni, ha conservato intatta, con la lucidità dei ricordi, l’ambiguità di certi suoi trascorsi, fedele all’immagine di misterioso burattinaio che nel periodo di massimo potere si era cucito addosso. Incontrarlo ripetutamente e a lungo nella sua residenza di Arezzo, quella Villa Wanda che un tempo ospitava vertici con banchieri e generali, mi ha dato la possibilità di misurare quanto a quell’immagine l’anziano padrone di casa sia ancora affezionato. Quasi a voler tramandare gli antichi riti che l’hanno reso famoso.
Nella ottocentesca villa sulla collina di Santa Maria delle Grazie, alla periferia di Arezzo, tutto sembra avere un ruolo immutabile e preciso. Dalle opere d’arte che intrattengono, come in un museo privato, l’ospite durante l’attesa, alla comparsa quasi teatrale del padrone di casa. Capace di fare il suo ingresso sempre dopo cinque minuti esatti: il tempo che all’ospite – seduto sul divano circolare azzurro dell’elegante salone in perenne penombra o sulle poltrone marroni del luminosissimo studio – sia stato servito un caffè o una spremuta d’arancia. Gelli, il commendatore – come il personale di servizio è abituato a chiamarlo – riceve sempre in abito gessato, i modi cordiali e sulle labbra un sorriso tra l’ironico e il gentile che soltanto le domande più scomode sembrano cancellare. Ma solo per un attimo. «Le domande», è una sua vecchia massima, «non sono mai indiscrete. Piuttosto, possono esserlo le risposte».
I sospetti di coinvolgimento in piani eversivi, l’amicizia con personaggi dal profilo oscuro o dal destino tragico, la collaborazione con i dittatori argentini, i misteri legati al delitto Moro, all’omicidio Pecorelli o all’impiccagione del banchiere Calvi fino, andando a ritroso nel tempo, ai giorni confusi e drammatici dell’occupazione tedesca e della guerra partigiana a Pistoia: non ho voluto tralasciare alcun argomento, chiedendo conto di ogni particolare o quantomeno di quelli più palesemente controversi. A onor del vero, l’interlocutore non si è mai sottratto ad alcun quesito. Anche lo studio al piano terra, con le sue poltrone di pelle e un testo di Guglielmo da Ockham, il filosofo della “regola del rasoio”, sempre aperto sulla scrivania, è lo stesso di un tempo. Proprio come il ritratto del Venerabile, omaggio del pittore Proferio, l’ amico devoto oggi scomparso, che campeggia sulla parete davanti alla porta o le immancabili caramelle sul tavolino.
È qui, nella stanza dove Gelli si intratteneva con l’allora Gran Maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani Lino Salvini e dove nel 1980 rilasciò la celebre intervista a Maurizio Costanzo sul suo ruolo di burattinaio, che buona parte di questo libro è nata. Complici una serie di lunghi, cadenzati incontri, interrotti a volte dalla visita della governante, foriera di messaggi: notizie di telefonate o dell’arrivo di nuovi ospiti, sempre appuntate su bianchi foglietti sempre serviti su un piattino d’argento. Vecchie tradizioni di casa Gelli. Come quella di garantire a ognuno la necessaria riservatezza: assolutamente impossibile che i vari ospiti della casa si incontrino al momento di entrare o di lasciare la villa. Chi è in attesa in una sala ha la porta chiusa alle sue spalle, avvolto in un silenzio irreale. Ad Arezzo c’è chi mormora di politici, sottosegretari, persino cardinali in missione riservata a Villa Wanda. Realtà o leggenda? «Ho amicizie vecchie di quarant’anni, che non ho mai perduto». E l’esercito dei piduisti? «Eravamo 962 e nessuno si è pentito. Anzi, sì: uno solo. Maurizio Costanzo». Nel salotto il vecchio telefono davanti alla finestra squilla spesso. Il pomeriggio che viene diffusa la notizia della morte di Paul Casimir Marcinkus, l’arcivescovo che fu a capo dello Ior negli anni del crack dell’Ambrosiano, suona quasi ininterrottamente: «Tutti giornalisti» abbozza Gelli sornione. La domanda, dall’altra parte del filo, è sempre la stessa. La risposta pure: «Non l’ho mai conosciuto, non gli ho mai parlato neppure per telefono».
Il commendatore consulta l’agenda prima di fissare ogni nuovo incontro. Alle 10 del mattino è già operativo. Deve leggere attentamente i quotidiani, perché al momento di sedersi in poltrona ha sempre una battuta sul fatto del giorno. La politica? «No, basta: ormai sono fuori, non so più nulla». Ma difficilmente si trattiene dall’esprimere puntualmente il suo giudizio. Molto spesso severo, quasi sempre ironico. In un momento di pausa, alla fine di novembre del 2005, gli ho chiesto un pronostico sulle elezioni politiche di primavera. «Vincerà il centrodestra». Sicuro? «Berlusconi tornerà in pista verso la metà di gennaio e gli italiani si dimenticheranno di tutto quanto gli rimproverano adesso». Rifaccio la domanda a meno di un mese dall’appuntamento alle urne. Il pronostico è cambiato: «Vincerà il centrosinistra, ma di poco». La prospettiva, giura, non lo turba. «La Prima Repubblica, quella sì che era un’altra cosa…»
Attivista del partito monarchico prima, assistente di un onorevole democristiano poi e, in seguito, in rapporti con Giulio Andreotti, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone e Francesco Cossiga, Licio Gelli l’ha conosciuta bene. E non le rimprovera neppure di averlo scaricato, all’alba dello scandalo delle liste che lo portò alla latitanza prima e al carcere poi. Per lui l“età veneranda”, come ama definire la sua vecchiaia, è tempo di riconciliazioni. A Villa Wanda ha «incontrato e abbracciato piangendo» – parole sue – i leader anarchici della Toscana contro i cui ideali si era battuto, appena diciassettenne, nella Guerra di Spagna. Nel 1993 la nemica Russia l’ha avuto come ospite, donandogli il dizionario in cui il suo nome in cirillico compare tra quelli dei più pericolosi antagonisti del comunismo e c’è chi, puntando sulla sua passione per la poesia, l’ha addirittura candidato al Premio Nobel.
Di liriche Gelli non ne compone più. Una delle più vecchie è già stata battuta all’asta, da Christie’s. All’Archivio di Stato di Pistoia sono andate la collezione di cimeli storici e buona parte delle segrete carte accumulate dall’ex maestro venerabile sin dagli anni Trenta. Appunti, schede, oggetti personali, ritagli di stampa e anche fotografie. Parte di quei documenti mi sono stati utili nella preparazione di quest’intervista. L’ho divisa in nove capitoli cercando di raggruppare le domande per temi. Andando alle radici dell’anticomunismo dichiarato di Gelli e all’origine dei suoi rapporti con uomini e strutture dei servizi segreti, ho dovuto partire dalla Guerra di Spagna, teatro del “patto di sangue” formulato sulla tomba del fratello ucciso dalle guarnigioni del Fronte popolare, per affrontare poi in Servizi segreti i nodi del suo ingaggio da parte del Sim a Cattaro e la frequentazione di ambienti politici ed ecclesiastici a Roma, negli anni della ricostruzione e poi del boom economico.
All’ingresso nella massoneria, al passaggio alla P2 e alla sua riorganizzazione è dedicato il capitolo A filo di spada; al partito del golpe e alle cosiddette trame nere degli anni Settanta Il grande vecchio. Dei rapporti con l’Argentina, la collaborazione con Perón, l’amicizia con capi di Stato esteri parla L’internazionale piduista; dei torbidi retroscena del Caso Moro, del delitto Pecorelli e della strage di Bologna il capitolo Misteri italiani. Per concludere, l’analisi del Piano di rinascita democratica (Il burattinaio), le vicende di Sindona e Calvi (Banchieri di Dio) e gli anni della latitanza e dei processi, dal 1981 a oggi (La doppia piramide). Gianfranco Piazzesi, autore di una serie di inchieste sul passato di Gelli, chiudeva un suo libro del 1996 con queste parole: «Un’intervista? Le domande non mancherebbero. Perché il compagno Italo Carobbi gli aveva affidato un salvacondotto? Perché è andato a Roma con due strani accompagnatori? Uno di loro ha detto che lei a Roma è andato a parlare addirittura con Palmiro Togliatti…» Ed è da qui che, esattamente dieci anni dopo, ho deciso di ripartire.
PATTO DI SANGUE
«Gelli, credo, agiva in buona fede per gli ideali di democrazia. Il suo errore, e glielo dissi, era che si lasciava pilotare più dalle emozioni che dalla ragione. Aveva visto uccidere suo fratello in Spagna dai comunisti, e penso che non l’avesse mai più dimenticato». Michele Sindona in Nick Tosches, Il mistero Sindona, Sugarco, 1986
SANDRO NERI: Gelli, cominciamo da lei. Da tempo si porta addosso molte etichette: il grande vecchio, il burattinaio, persino Belfagor. Ma lei chi è davvero e che definizione darebbe di se stesso?
LICIO GELLI: Io sono quello che ero prima di venire linciato, venticinque anni fa, con l’esplosione dello scandalo della P2. Da allora di me è stato detto tutto e il suo contrario. Persino che avrei ordinato l’assassinio di un Papa. Nonostante le accuse, i processi e quelli che mi hanno voltato le spalle io sono rimasto tranquillo e sereno. E lo sono soprattutto oggi che ho avuto la possibilità di vedere che quanti avevano mal giudicato hanno dovuto prendere atto di essersi sbagliati. Le sentenze sulla P2 mi hanno dato ragione.
Questa sua casa ad Arezzo nell’immaginario collettivo è diventata un po’ la villa dei misteri o quantomeno un luogo di intrighi, di manovre oscure. Lei, devo dire, non fa molto per smentirlo. In occasione del nostro primo incontro qui a Villa Wanda ha indicato il divano azzurro dove sedevo, in fondo al salone, dicendo: «Dove sta lei sono passati in molti, praticamente tutti», lasciando intendere chissà quali frequentazioni, soprattutto con personaggi potenti. Politici, banchieri, uomini dei servizi segreti. Tutti interessati a ottenere qualcosa dai lei…
Sono stato con i potenti, ma anche con i deboli. Mi piace misurare le persone sotto il profilo umano. E per molto tempo ho fatto in modo di ricevere chiunque chiedesse di incontrarmi. All’Hotel Excelsior, dove risiedevo durante i miei soggiorni romani, c’era la fila fuori della mia porta.
Soprattutto persone influenti…
Preferisco dire che mi sono fatto carico di ricevere molte persone anche per risolvere delle questioni.
Questioni politiche?
Politiche, a volte. Ma non solo. C’è ancora chi viene qui a chiedermi di aiutare il figlio a trovare un posto di lavoro.
Si occupa anche di massoneria?
Sono stato nominato da Fausto Bruni addetto al proselitismo del Rito scozzese antico e accettato, ma per me ha il valore di un titolo puramente onorifico. Inoltre, il principe Giorgio Paternò della Gran Loggia Serenissima mi ha nominato Gran Maestro onorario. Io l’ho ringraziato ma non ho voluto più occuparmi di niente. Considero la massoneria un ricordo.
Questa villa è piena di opere d’arte. Vasi, tele, sculture credo anche molto preziose. Un segno, anche questo, del suo potere?
Piuttosto una passione. Nel 1948 ho investito i miei primi guadagni nell’acquisto di una casa a Pistoia, dove vivere con mia moglie. A quell’appartamento ne sono seguiti altri, tutti acquista- ti negli anni immediatamente successivi grazie al fatto che il mio lavoro di allora cominciava a rendermi molto. Stufo di investire nel mattone, avendo raggiunto la sicurezza economica, ho potuto dedicarmi al mio hobby: sono un appassionato collezionista di opere d’arte e di cimeli storici. Una passione che mi porto dietro da quando ero ragazzo. Acquistavo, inizialmente, soprattutto scritti autografi di grandi personaggi. Acquistavo e a volte scambiavo. Facevo permute con gli antiquari che conoscevo e di cui mi fidavo. Molte opere col tempo hanno acquistato valore e rappresentano per me un grande investimento.
Libraio, rappresentante di macchine da scrivere, dirigente d’azienda, diplomatico ma anche, sostengono molti, agente segreto. E di sicuro capo di una loggia massonica che comprendeva anche ministri, sottosegretari, vertici delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Qual è stato il suo lavoro? Quale la sua funzione?
Sono sempre stato fiero di essere italiano e ho sempre voluto bene al mio paese. Non mi sono mai fatto trasportare dalle ideologie politiche, anche se ognuno ha la propria e ha il diritto di restare fedele a questa come ho fatto io. Ovviamente vedo il mondo di oggi con occhi totalmente diversi rispetto a una volta; lo trovo cambiato, sicuramente in peggio.
Perché?
I valori tradizionali non ci sono più, sono stati completamente distrutti. E con loro gli ideali. Vede, un tempo le idee erano importanti, soprattutto per i giovani. Oggi i ragazzi – basta guardare il loro modo di vestire, i loro comportamenti – sono abbandonati a se stessi. Ovvio che si lamentino perché non vedono un avvenire di fronte a loro.
Mi ha detto un attimo fa: «Ognuno ha la propria ideologia e ha il diritto di restarle fedele come ho fatto io». A quale ideale è rimasto legato?
A quello fascista. Inoltre sono sempre stato monarchico.
Ma qui siamo in democrazia, l’Italia è una repubblica e il fascismo è crollato alla metà del secolo scorso.
Benissimo, rispetto le istituzioni. Ma da monarchico, non credendo nell’ordinamento repubblicano, non vado a votare. L’ho fatto solo tre volte, per dare una mano ad alcuni amici. Ho votato per il partito liberale, perché c’era l’avvocato Bianchi, per il partito socialista, che candidava l’avvocato Michelozzi, e infine per il Movimento Sociale, avvocato Danesi. Votare, d’altronde, non è un obbligo.
È un diritto-dovere, però…
I partiti vivono solo per loro stessi e non mi sembra che si sentano così in dovere verso i cittadini.
Per i monarchici lei ha svolto anche un’attività politica. E politico, credo, sia stato anche il suo ruolo negli anni della P2. Da dove nasce il suo impegno?
Il mio impegno a lavorare per il Paese è cominciato quando ero molto giovane. Quando frequentavo le medie, a 13 anni, il pomeriggio lo trascorrevo in uno studio legale. Lo studio dell’avvocato Paganelli, a Pistoia. L’ufficio ospitava tre professionisti: oltre a Paganelli, il ragioniere Landini e l’avvocato Melani. Stare lì mi serviva per farmi aiutare a fare i compiti di scuola, ed era anche un modo per guadagnare qualcosa. Prendevo sei lire alla settimana. Era il 1933. Le racconto questo per farle capire che la mia voglia di fare parte da lontano.
Lei, ancora poco più che adolescente, si imbarca come volontario per la Guerra di Spagna. E come volontario parteciperà, anni dopo, alla campagna d’Albania. Da dove nasceva tutta questa voglia di volontarismo?
C’era l’idea. Non dimentichiamoci che in tutti i Paesi, allora, operavano gruppi di guastatori. E i guastatori erano volontari votati alla morte. Erano quelli che andavano a minare il campo nemico. La Germania aveva i piloti degli Stukas, i Giapponesi i kamikaze. Tutti combattevano, e molti morivano, per gli ideali. Veda se trova oggi un idealista…
E lei da chi aveva ereditato l’amore per gli ideali, dalla sua famiglia?
Dalla famiglia no. Mio padre Ettore, un mugnaio, ha lavorato tutta la vita ma non si è mai iscritto a un partito politico. Mi diceva sempre: «Con la farina del mulino ci si imbianca per il bene, con la farina della politica ci si sporca per il male». L’amore per gli ideali posso averlo respirato nell’epoca in cui vivevo. Molta parte l’ha avuta anche mio fratello Raffaello, più grande di me e prima di me partito volontario per la Spagna. Mi sono arruolato per raggiungerlo e sentirmi come lui. Raffaello è morto fra le mie braccia, ucciso dal nemico. E combattere il comunismo è diventata la mia battaglia.
1 - Continua
Tratto da “Licio Gelli – Parola di Venerabile”, di Sandro Neri, Aliberti Editore
Introduzione di Sandro Neri
Sulla loggia massonica Propaganda 2 e sul suo venerabile maestro, dal 1981, anno della perquisizione che portò alla scoperta degli elenchi degli iscritti e all’esplodere dello scandalo che causò le dimissioni del governo in carica e la sostituzione di tutti i vertici delle forze armate e dei servizi di sicurezza, sono uscite molte pubblicazioni. Alcune delle quali dettagliatissime e interessanti. Molti dei segreti legati all’attività della P2 e del suo artefice attendono però ancora di essere svelati. Venticinque anni sono un tempo sufficiente per tentare di rileggere alcuni accadimenti, certe connessioni, non per mettere in discussione il lavoro dei tanti che nelle diverse sedi istituzionali hanno indagato sul fenomeno, ma per cercare magari di aggiungere qualche nuovo tassello. Con l’unico obiettivo di provare a capire.
Per questo ho pensato che un primo, indispensabile passo fosse quello di tentare un confronto col protagonista assoluto di questa vicenda: Licio Gelli. Questo libro, che raccoglie la trascrizione di una lunga intervista, frutto di una serie di incontri con l’ex Venerabile della P2, nasce col proposito di scavare nella vita e nella memoria di un personaggio che, giunto all’età di 87 anni, ha conservato intatta, con la lucidità dei ricordi, l’ambiguità di certi suoi trascorsi, fedele all’immagine di misterioso burattinaio che nel periodo di massimo potere si era cucito addosso. Incontrarlo ripetutamente e a lungo nella sua residenza di Arezzo, quella Villa Wanda che un tempo ospitava vertici con banchieri e generali, mi ha dato la possibilità di misurare quanto a quell’immagine l’anziano padrone di casa sia ancora affezionato. Quasi a voler tramandare gli antichi riti che l’hanno reso famoso.
Nella ottocentesca villa sulla collina di Santa Maria delle Grazie, alla periferia di Arezzo, tutto sembra avere un ruolo immutabile e preciso. Dalle opere d’arte che intrattengono, come in un museo privato, l’ospite durante l’attesa, alla comparsa quasi teatrale del padrone di casa. Capace di fare il suo ingresso sempre dopo cinque minuti esatti: il tempo che all’ospite – seduto sul divano circolare azzurro dell’elegante salone in perenne penombra o sulle poltrone marroni del luminosissimo studio – sia stato servito un caffè o una spremuta d’arancia. Gelli, il commendatore – come il personale di servizio è abituato a chiamarlo – riceve sempre in abito gessato, i modi cordiali e sulle labbra un sorriso tra l’ironico e il gentile che soltanto le domande più scomode sembrano cancellare. Ma solo per un attimo. «Le domande», è una sua vecchia massima, «non sono mai indiscrete. Piuttosto, possono esserlo le risposte».
I sospetti di coinvolgimento in piani eversivi, l’amicizia con personaggi dal profilo oscuro o dal destino tragico, la collaborazione con i dittatori argentini, i misteri legati al delitto Moro, all’omicidio Pecorelli o all’impiccagione del banchiere Calvi fino, andando a ritroso nel tempo, ai giorni confusi e drammatici dell’occupazione tedesca e della guerra partigiana a Pistoia: non ho voluto tralasciare alcun argomento, chiedendo conto di ogni particolare o quantomeno di quelli più palesemente controversi. A onor del vero, l’interlocutore non si è mai sottratto ad alcun quesito. Anche lo studio al piano terra, con le sue poltrone di pelle e un testo di Guglielmo da Ockham, il filosofo della “regola del rasoio”, sempre aperto sulla scrivania, è lo stesso di un tempo. Proprio come il ritratto del Venerabile, omaggio del pittore Proferio, l’ amico devoto oggi scomparso, che campeggia sulla parete davanti alla porta o le immancabili caramelle sul tavolino.
È qui, nella stanza dove Gelli si intratteneva con l’allora Gran Maestro della massoneria di Palazzo Giustiniani Lino Salvini e dove nel 1980 rilasciò la celebre intervista a Maurizio Costanzo sul suo ruolo di burattinaio, che buona parte di questo libro è nata. Complici una serie di lunghi, cadenzati incontri, interrotti a volte dalla visita della governante, foriera di messaggi: notizie di telefonate o dell’arrivo di nuovi ospiti, sempre appuntate su bianchi foglietti sempre serviti su un piattino d’argento. Vecchie tradizioni di casa Gelli. Come quella di garantire a ognuno la necessaria riservatezza: assolutamente impossibile che i vari ospiti della casa si incontrino al momento di entrare o di lasciare la villa. Chi è in attesa in una sala ha la porta chiusa alle sue spalle, avvolto in un silenzio irreale. Ad Arezzo c’è chi mormora di politici, sottosegretari, persino cardinali in missione riservata a Villa Wanda. Realtà o leggenda? «Ho amicizie vecchie di quarant’anni, che non ho mai perduto». E l’esercito dei piduisti? «Eravamo 962 e nessuno si è pentito. Anzi, sì: uno solo. Maurizio Costanzo». Nel salotto il vecchio telefono davanti alla finestra squilla spesso. Il pomeriggio che viene diffusa la notizia della morte di Paul Casimir Marcinkus, l’arcivescovo che fu a capo dello Ior negli anni del crack dell’Ambrosiano, suona quasi ininterrottamente: «Tutti giornalisti» abbozza Gelli sornione. La domanda, dall’altra parte del filo, è sempre la stessa. La risposta pure: «Non l’ho mai conosciuto, non gli ho mai parlato neppure per telefono».
Il commendatore consulta l’agenda prima di fissare ogni nuovo incontro. Alle 10 del mattino è già operativo. Deve leggere attentamente i quotidiani, perché al momento di sedersi in poltrona ha sempre una battuta sul fatto del giorno. La politica? «No, basta: ormai sono fuori, non so più nulla». Ma difficilmente si trattiene dall’esprimere puntualmente il suo giudizio. Molto spesso severo, quasi sempre ironico. In un momento di pausa, alla fine di novembre del 2005, gli ho chiesto un pronostico sulle elezioni politiche di primavera. «Vincerà il centrodestra». Sicuro? «Berlusconi tornerà in pista verso la metà di gennaio e gli italiani si dimenticheranno di tutto quanto gli rimproverano adesso». Rifaccio la domanda a meno di un mese dall’appuntamento alle urne. Il pronostico è cambiato: «Vincerà il centrosinistra, ma di poco». La prospettiva, giura, non lo turba. «La Prima Repubblica, quella sì che era un’altra cosa…»
Attivista del partito monarchico prima, assistente di un onorevole democristiano poi e, in seguito, in rapporti con Giulio Andreotti, Giuseppe Saragat, Giovanni Leone e Francesco Cossiga, Licio Gelli l’ha conosciuta bene. E non le rimprovera neppure di averlo scaricato, all’alba dello scandalo delle liste che lo portò alla latitanza prima e al carcere poi. Per lui l“età veneranda”, come ama definire la sua vecchiaia, è tempo di riconciliazioni. A Villa Wanda ha «incontrato e abbracciato piangendo» – parole sue – i leader anarchici della Toscana contro i cui ideali si era battuto, appena diciassettenne, nella Guerra di Spagna. Nel 1993 la nemica Russia l’ha avuto come ospite, donandogli il dizionario in cui il suo nome in cirillico compare tra quelli dei più pericolosi antagonisti del comunismo e c’è chi, puntando sulla sua passione per la poesia, l’ha addirittura candidato al Premio Nobel.
Di liriche Gelli non ne compone più. Una delle più vecchie è già stata battuta all’asta, da Christie’s. All’Archivio di Stato di Pistoia sono andate la collezione di cimeli storici e buona parte delle segrete carte accumulate dall’ex maestro venerabile sin dagli anni Trenta. Appunti, schede, oggetti personali, ritagli di stampa e anche fotografie. Parte di quei documenti mi sono stati utili nella preparazione di quest’intervista. L’ho divisa in nove capitoli cercando di raggruppare le domande per temi. Andando alle radici dell’anticomunismo dichiarato di Gelli e all’origine dei suoi rapporti con uomini e strutture dei servizi segreti, ho dovuto partire dalla Guerra di Spagna, teatro del “patto di sangue” formulato sulla tomba del fratello ucciso dalle guarnigioni del Fronte popolare, per affrontare poi in Servizi segreti i nodi del suo ingaggio da parte del Sim a Cattaro e la frequentazione di ambienti politici ed ecclesiastici a Roma, negli anni della ricostruzione e poi del boom economico.
All’ingresso nella massoneria, al passaggio alla P2 e alla sua riorganizzazione è dedicato il capitolo A filo di spada; al partito del golpe e alle cosiddette trame nere degli anni Settanta Il grande vecchio. Dei rapporti con l’Argentina, la collaborazione con Perón, l’amicizia con capi di Stato esteri parla L’internazionale piduista; dei torbidi retroscena del Caso Moro, del delitto Pecorelli e della strage di Bologna il capitolo Misteri italiani. Per concludere, l’analisi del Piano di rinascita democratica (Il burattinaio), le vicende di Sindona e Calvi (Banchieri di Dio) e gli anni della latitanza e dei processi, dal 1981 a oggi (La doppia piramide). Gianfranco Piazzesi, autore di una serie di inchieste sul passato di Gelli, chiudeva un suo libro del 1996 con queste parole: «Un’intervista? Le domande non mancherebbero. Perché il compagno Italo Carobbi gli aveva affidato un salvacondotto? Perché è andato a Roma con due strani accompagnatori? Uno di loro ha detto che lei a Roma è andato a parlare addirittura con Palmiro Togliatti…» Ed è da qui che, esattamente dieci anni dopo, ho deciso di ripartire.
PATTO DI SANGUE
«Gelli, credo, agiva in buona fede per gli ideali di democrazia. Il suo errore, e glielo dissi, era che si lasciava pilotare più dalle emozioni che dalla ragione. Aveva visto uccidere suo fratello in Spagna dai comunisti, e penso che non l’avesse mai più dimenticato». Michele Sindona in Nick Tosches, Il mistero Sindona, Sugarco, 1986
SANDRO NERI: Gelli, cominciamo da lei. Da tempo si porta addosso molte etichette: il grande vecchio, il burattinaio, persino Belfagor. Ma lei chi è davvero e che definizione darebbe di se stesso?
LICIO GELLI: Io sono quello che ero prima di venire linciato, venticinque anni fa, con l’esplosione dello scandalo della P2. Da allora di me è stato detto tutto e il suo contrario. Persino che avrei ordinato l’assassinio di un Papa. Nonostante le accuse, i processi e quelli che mi hanno voltato le spalle io sono rimasto tranquillo e sereno. E lo sono soprattutto oggi che ho avuto la possibilità di vedere che quanti avevano mal giudicato hanno dovuto prendere atto di essersi sbagliati. Le sentenze sulla P2 mi hanno dato ragione.
Questa sua casa ad Arezzo nell’immaginario collettivo è diventata un po’ la villa dei misteri o quantomeno un luogo di intrighi, di manovre oscure. Lei, devo dire, non fa molto per smentirlo. In occasione del nostro primo incontro qui a Villa Wanda ha indicato il divano azzurro dove sedevo, in fondo al salone, dicendo: «Dove sta lei sono passati in molti, praticamente tutti», lasciando intendere chissà quali frequentazioni, soprattutto con personaggi potenti. Politici, banchieri, uomini dei servizi segreti. Tutti interessati a ottenere qualcosa dai lei…
Sono stato con i potenti, ma anche con i deboli. Mi piace misurare le persone sotto il profilo umano. E per molto tempo ho fatto in modo di ricevere chiunque chiedesse di incontrarmi. All’Hotel Excelsior, dove risiedevo durante i miei soggiorni romani, c’era la fila fuori della mia porta.
Soprattutto persone influenti…
Preferisco dire che mi sono fatto carico di ricevere molte persone anche per risolvere delle questioni.
Questioni politiche?
Politiche, a volte. Ma non solo. C’è ancora chi viene qui a chiedermi di aiutare il figlio a trovare un posto di lavoro.
Si occupa anche di massoneria?
Sono stato nominato da Fausto Bruni addetto al proselitismo del Rito scozzese antico e accettato, ma per me ha il valore di un titolo puramente onorifico. Inoltre, il principe Giorgio Paternò della Gran Loggia Serenissima mi ha nominato Gran Maestro onorario. Io l’ho ringraziato ma non ho voluto più occuparmi di niente. Considero la massoneria un ricordo.
Questa villa è piena di opere d’arte. Vasi, tele, sculture credo anche molto preziose. Un segno, anche questo, del suo potere?
Piuttosto una passione. Nel 1948 ho investito i miei primi guadagni nell’acquisto di una casa a Pistoia, dove vivere con mia moglie. A quell’appartamento ne sono seguiti altri, tutti acquista- ti negli anni immediatamente successivi grazie al fatto che il mio lavoro di allora cominciava a rendermi molto. Stufo di investire nel mattone, avendo raggiunto la sicurezza economica, ho potuto dedicarmi al mio hobby: sono un appassionato collezionista di opere d’arte e di cimeli storici. Una passione che mi porto dietro da quando ero ragazzo. Acquistavo, inizialmente, soprattutto scritti autografi di grandi personaggi. Acquistavo e a volte scambiavo. Facevo permute con gli antiquari che conoscevo e di cui mi fidavo. Molte opere col tempo hanno acquistato valore e rappresentano per me un grande investimento.
Libraio, rappresentante di macchine da scrivere, dirigente d’azienda, diplomatico ma anche, sostengono molti, agente segreto. E di sicuro capo di una loggia massonica che comprendeva anche ministri, sottosegretari, vertici delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Qual è stato il suo lavoro? Quale la sua funzione?
Sono sempre stato fiero di essere italiano e ho sempre voluto bene al mio paese. Non mi sono mai fatto trasportare dalle ideologie politiche, anche se ognuno ha la propria e ha il diritto di restare fedele a questa come ho fatto io. Ovviamente vedo il mondo di oggi con occhi totalmente diversi rispetto a una volta; lo trovo cambiato, sicuramente in peggio.
Perché?
I valori tradizionali non ci sono più, sono stati completamente distrutti. E con loro gli ideali. Vede, un tempo le idee erano importanti, soprattutto per i giovani. Oggi i ragazzi – basta guardare il loro modo di vestire, i loro comportamenti – sono abbandonati a se stessi. Ovvio che si lamentino perché non vedono un avvenire di fronte a loro.
Mi ha detto un attimo fa: «Ognuno ha la propria ideologia e ha il diritto di restarle fedele come ho fatto io». A quale ideale è rimasto legato?
A quello fascista. Inoltre sono sempre stato monarchico.
Ma qui siamo in democrazia, l’Italia è una repubblica e il fascismo è crollato alla metà del secolo scorso.
Benissimo, rispetto le istituzioni. Ma da monarchico, non credendo nell’ordinamento repubblicano, non vado a votare. L’ho fatto solo tre volte, per dare una mano ad alcuni amici. Ho votato per il partito liberale, perché c’era l’avvocato Bianchi, per il partito socialista, che candidava l’avvocato Michelozzi, e infine per il Movimento Sociale, avvocato Danesi. Votare, d’altronde, non è un obbligo.
È un diritto-dovere, però…
I partiti vivono solo per loro stessi e non mi sembra che si sentano così in dovere verso i cittadini.
Per i monarchici lei ha svolto anche un’attività politica. E politico, credo, sia stato anche il suo ruolo negli anni della P2. Da dove nasce il suo impegno?
Il mio impegno a lavorare per il Paese è cominciato quando ero molto giovane. Quando frequentavo le medie, a 13 anni, il pomeriggio lo trascorrevo in uno studio legale. Lo studio dell’avvocato Paganelli, a Pistoia. L’ufficio ospitava tre professionisti: oltre a Paganelli, il ragioniere Landini e l’avvocato Melani. Stare lì mi serviva per farmi aiutare a fare i compiti di scuola, ed era anche un modo per guadagnare qualcosa. Prendevo sei lire alla settimana. Era il 1933. Le racconto questo per farle capire che la mia voglia di fare parte da lontano.
Lei, ancora poco più che adolescente, si imbarca come volontario per la Guerra di Spagna. E come volontario parteciperà, anni dopo, alla campagna d’Albania. Da dove nasceva tutta questa voglia di volontarismo?
C’era l’idea. Non dimentichiamoci che in tutti i Paesi, allora, operavano gruppi di guastatori. E i guastatori erano volontari votati alla morte. Erano quelli che andavano a minare il campo nemico. La Germania aveva i piloti degli Stukas, i Giapponesi i kamikaze. Tutti combattevano, e molti morivano, per gli ideali. Veda se trova oggi un idealista…
E lei da chi aveva ereditato l’amore per gli ideali, dalla sua famiglia?
Dalla famiglia no. Mio padre Ettore, un mugnaio, ha lavorato tutta la vita ma non si è mai iscritto a un partito politico. Mi diceva sempre: «Con la farina del mulino ci si imbianca per il bene, con la farina della politica ci si sporca per il male». L’amore per gli ideali posso averlo respirato nell’epoca in cui vivevo. Molta parte l’ha avuta anche mio fratello Raffaello, più grande di me e prima di me partito volontario per la Spagna. Mi sono arruolato per raggiungerlo e sentirmi come lui. Raffaello è morto fra le mie braccia, ucciso dal nemico. E combattere il comunismo è diventata la mia battaglia.
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