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View Full Version : 11 settembre, la memoria sprecata


<Straker>
10-09-2006, 13:06
http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/girata.asp?ID_blog=25&ID_articolo=1641&tp=C
IL QUINTO ANNIVERSARIO
11 settembre, la memoria sprecata
10/9/2006
di Barbara Spinelli

INIZIATA da George W. Bush subito dopo l'attacco alle Torri di New York, la guerra contro il terrorismo non accenna a finire e già è durata molto tempo: cinque anni, più della prima guerra mondiale, poco meno della seconda. E nessuna vittoria in vista, nessuna indicazione su come l'impresa potrebbe andare a finire, ma anzi un proliferare di guerre etnico-religiose, di aggressioni terroriste in vari punti del globo, di disarticolazioni dei poteri statali in Medio Oriente, nel Golfo, in Afghanistan, in Pakistan, in India, nelle Filippine. Disarticolazione è un vocabolo terrorista, le Brigate Rosse si ripromettevano simile risultato quando attaccavano «il cuore dello Stato». Oggi la disarticolazione è epidemia planetaria e non sono le democrazie e neppure l'America ad avvantaggiarsene, anche se traumi come quello del 2001 in America non si sono riprodotti. Un grafico di Foreign Policy illustra l'approdo cui siamo giunti a cinque anni dall'11 settembre: fra il 2002 e il 2005 gli attacchi terroristici contro l'America sono scesi da 62 a 51 rispetto al ‘98-2001, e i morti sono diminuiti drasticamente (2991 fra il 1998 e il 2001, 3 fra il 2002 e il 2005). L'America è al momento risparmiata ma non l'Asia centrale e sud-orientale, l'Africa, e in primis il Medio Oriente (10.615 morti e 5517 attentati nel 2002-2005, contro 609 morti e 1376 attentati nel 1998-2001).

Alcuni esperti americani si consolano con queste cifre: l'avversario non è in grado di nuocere come nel 2001 e in fondo si torna al pre-11 settembre. Ma un'America che si protegge dal mondo mettendo a repentaglio il mondo non può sentirsi né vittoriosa né sicura. Il suo governo s'è lanciato in guerre mondiali con la pretesa di imitare il coinvolgimento Usa nei conflitti europei del '900, ma il suo disegno è per la verità isolazionista, autarchico. I critici di Bush impiegano un termine calzante, quando ne riassumono i difetti: lo chiamano incurious. La persona incurious è priva di curiosità, di desiderio di conoscere, d'apprendere: ignora volontariamente le cose attorno a sé, è disattenta, distratta, prigioniera di sue astratte fantasie. La politica della memoria, nelle mani dell'incurious, produce danni perché è disordinata, procede a casaccio, dunque è inservibile. La sua tentazione è la self-fulfilling prophecy, la profezia che si auto-realizza e che di regola non è affatto una profezia ma una falsa definizione dei fatti: le conseguenze di tali definizioni sono diabolicamente reali, ma non per questo è reale anche l'originaria definizione.

Lo stesso vale per la memoria, che è una profezia sui generis: ogni giorno Bush evoca le guerre antitotalitarie del '900, ma quasi si direbbe che non sa quel che evoca. La lotta odierna contro il terrore ha temporaneamente protetto gli americani in America (il tempo di vincere questa o quella elezione), ma ha frantumato l'influenza statunitense nel pianeta. Per cinque anni è stata condotta senza pensare il mondo, addirittura ignorandone la fattura. È stata ed è fatta con vista breve, con conoscenza nulla, con ricordi storici storti. È perduta in Iraq, può naufragare in Afghanistan. Con le guerre Usa nel '900 ha poco a che vedere. Allora il centro dell'Occidente era forte. Oggi i mondi attorno all'America franano e il centro non tiene. Come nell'oracolo poetico di Yeats: «Things fall apart; the centre cannot hold; Mere anarchy is loosed upon the world», pura anarchia si rovescia sul mondo. Nonostante questo precipitare i discorsi ufficiali restano eguali a se stessi, e non solo in America: sono ripetitivi, vacui, annunciano offensive globali contro terrori globali senza riconoscere che il terrorismo ha preso forme ormai locali, nazionali, distinte. Gli slogan sul conflitto globale sono un regalo che ogni giorno facciamo a Bin Laden, aggrappato a quest'immagine che lusinga la sua potenza e nasconde le sue spossatezze. È vero, dopo l'11 settembre gli occidentali e parte dell'Islam (innanzitutto sciita) solidarizzarono con l'America e la missione afghana. Ma continuare a invocare l'iniziale unità senza domandarsi quel che nel frattempo è accaduto sul terreno è poco sensato. I talebani sono di ritorno da molto tempo in numerose province nel Sud e nell'Est (compresa la zona assegnata agli italiani) ed è impressionante come le due cose s'intreccino: la ripetitività dei discorsi occidentali e la negligenza dei fatti. Son ripetitivi non solo i governanti Usa ma anche la Nato, gli europei. In questi giorni lo stupore li ha assaliti, di fronte alla forza talebana che si consolida nelle zone trasferite dagli Usa alla Nato - è «sorpreso» il generale James Jones, comandante delle truppe atlantiche in Europa, s'è detto «sorpreso» il segretario alla Difesa Rumsfeld, a Kabul nel dicembre 2005: sono anni che in Afghanistan siamo sempre più esterrefatti. Neppure ci siamo accorti che sradicare le colture di oppio senza rassicurare i suoi diseredati coltivatori è consegnare questi ultimi ai talebani. Quando una sorpresa dura troppo a lungo c'è qualcosa che non va: il buon senso sta svanendo. La potenza che aveva ambizioni imperiali, a forza di sorprendersi, si perde. Forse ha ragione lo storico Niall Ferguson: gli imperi moderni, Usa in testa, durano ben poco, molto meno degli antichi.

Il fatto è che la guerra in Afghanistan non è solo lotta al terrorismo come sostiene il ministro della Difesa Parisi. Per ottenere risultati pratici deve conquistare anche cuori e anime delle popolazioni, dar loro la sicurezza che manca, aiutare lo Stato centrale a ridivenire autorevole. Se fosse solo lotta al terrorismo la missione in Afghanistan dovrebbe terminare, tanto somiglia - sempre più - all'esiziale intervento sovietico. D'altronde il terrorismo talebano è già stato in parte indebolito, non con la guerra bensì con interventi su flussi bancari e con l'intelligence. Per questo è utile esaminare le nostre sconfitte e imparare da esse, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan: questa è vera memoria, non quella che ogni minuto evoca Hitler e Churchill. Se usano questa memoria viva, pratica, i responsabili italiani ed europei potranno rinegoziare con la Nato la missione, correggendo gli errori Usa. Altrimenti avranno ragione Fini e coloro che non vedono differenza alcuna, fra le scelte di Prodi e quelle di Berlusconi dopo l'11 settembre.

Eppure le differenze ci sono, innumerevoli. Oggi è l'ora dell'Europa ed è grande merito di Prodi, di D'Alema, averlo intuito presentandosi come custodi-sentinelle della tregua in Libano. Il conflitto libanese è stato cruciale perché ha evidenziato proprio questo: è il momento dell'Europa, del multilateralismo, dell'Onu, perché l'impero Usa periclita. L'impero non garantisce più sicurezza mondiale, non garantisce neppure più il punto nevralgico che è Israele. Negli Stati Uniti si moltiplicano le polemiche contro la lobby ebraica, in Israele aumentano le voci di chi considera l'America non più parte della soluzione ma del problema: lo studioso Jason Gitlin, su Haaretz di venerdì, sostiene che «gli Stati Uniti non sono più una risorsa nella regione ma un peso». Israele scopre l'importanza dell'Onu, cerca contatti e aiuti in Europa, in Italia. È una novità che tanti analisti Usa trascurano quando sostengono che nulla è realmente cambiato dopo l'11 settembre. Anche Berlusconi vorrebbe cancellare la novità, opponendosi all'operazione libanese.

L'Europa ha vantaggi notevoli, se i governi volenterosi congiungono le proprie forze: è capace di maggiore attenzione alle situazioni locali, e per esperienza storica sa i pericoli dei nazionalismi ideologici-millenaristi. Non globalizza tutto, generalizzando. Ma soprattutto è più restia a usare la memoria come arma politico-elettorale, come ancor oggi fanno Bush, Cheney, Rumsfeld. La memoria è una delle grandi vittime di questi cinque anni. È stata usata a sproposito, manipolata, sprecata. Si è parlato di Hitler e del cedimento democratico che va sotto il nome di appeasement con leggerezza stupefacente. Per questa via Bin Laden ha guadagnato lo statuto di possente avversario, contro il quale l'Occidente schiera eserciti. Forse la prima cosa da fare è dimenticare questi paragoni, smetterli per un po', comunque approfondirli. Non descrivono le situazioni effettive, non aiutano. L'Iran che cerca spazio nell'universo musulmano somiglia alla Prussia dell'800 più che a Hitler: secondo Vali Nasr, studioso degli sciiti, Teheran aspira a divenire una potenza regionale come la Germania di Bismarck, e della disputa atomica si serve a tale scopo. È impregnato di messianesimo, ma quel che cerca è una resa dei conti con i regimi sunniti, non uno scontro democrazia-dittatura né la rovina d'Israele. La democrazia è anzi strumento privilegiato dagli sciiti: il loro peso nella regione aumenta enormemente, se ovunque è applicata la regola democratica «un uomo, un voto». Comunque la voce iraniana s'è fatta grossa perché le guerre Usa hanno magnificato il suo peso, innalzando gli sciiti in Iraq e indebolendo i sunniti talebani in Afghanistan (Vali Nasr, The Shia Revival, La Rinascita Sciita, Norton 2006).

Negoziare con l'Iran è inevitabile, con o senza sanzioni, e chi è preveggente in Israele lo vede: Shlomo Ben Ami, negoziatore a Camp David nel 2000, consiglia su Haaretz la «distensione con l'Iran», e la sua «integrazione in una politica di stabilità regionale prima che la bomba sia acquisita». Gideon Samet, sullo stesso quotidiano, spera nei mediatori europei e chiede che Olmert cambi la strategia nucleare: «Perché Israele non consente ad abbandonare la politica ormai antiquata dell'ambiguità (ammettere e non ammettere il possesso della bomba), e non accetta supervisioni del proprio programma nucleare in cambio di supervisioni internazionali in Iran?». Ma per far tutte queste cose urge mutare linguaggio, ripensare la storia passata, connetterla meglio col presente, rimeditare parole come democrazia, profezia, impero. L'Europa può farlo, se non sarà incurious come l'America di Bush.

Scoperchiatore
10-09-2006, 13:56
La stampa? :mbe:

<Straker>
10-09-2006, 14:21
La stampa? :mbe:Perche'? :confused:

CliveSt
10-09-2006, 15:46
BAH!!! George Bush aveva dopo l'11/09 una immensa occasione. Riproporre gli USA come "faro" della Civilita' (della Democrazia no, quella io non me la faccio insegnare da nessuno, siamo molto piu' democratici noi Italiani) o quantomeno guida essendo giocoforza la Nazione piu' potente al momento sul piano Economico-Militare :stordita: invece come sempre hanno fatto finire tutto in vacca :doh: con le solite stronzate tipiche degli Yankees, united we stand e bla bla bla, hanno bombardato l'Afghanistan non ricavandone nulla perche' i campi di papaveri d'oppio sono ancora tutti li' e la droga che ne verra' fuori servira' a finanziare la rinascita (?????) del Paese in mano al galoppino Karzai, mentre al Sud sebbene con ingenti perdite i Talebani stanno facendo il culo ad Inglesi, Canadesi Neo Zelandesi ed Australiani supportati dalle retrovie da Tedeschi,Italiani e Spagnoli.

Tanti errori di strategia, un aggressione ad un paese retto si' da una Dittatura ma innocente dal punto di vista della guerra al terrorismo, ovvero l'Iraq ed infine non hanno capito un cazzo di come si sarebbero dovuti comportare in medio oriente. Aaaah tra l'altro hanno fatto una guerra per rovesciare Saddam ch'era Sunnita, per mandare cosi' al potere con elezioni democratiche (????????) gli Sciiti :doh: che sono legati guarda caso a doppio filo con l'Iran che ora vorrebbero tanto rimpicciolire :mbe: che massa de cojioni :doh:

von Clausewitz
11-09-2006, 01:38
http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/girata.asp?ID_blog=25&ID_articolo=1641&tp=C

umh capisco, mi rendo conto che articoli del genere, provenendo da una rispettabile, riconosciuta e anche apprezzata (ma non sempre e non da tutti) studiosa di affari internazionali, sono quelli che possono far andare in sollucchero, che dico sollucchero, brodo di giuggiole qualche antiamericano del forum (non so se questo sia lo stato d'animo col quale hai postato l'articolo, certo è che sei antiamericano e in effetti l'unico motivo per il quale lo hai postato è il tuo acceso antiamericanismo, se putacaso l'articolo invece di avere un taglio decisamente antiamericano lo avesse avuto al contrario filoamericano, per te l'articolo in questione sarebbe equivalso a qualche strappo di un rotolo di carta igienica e mai e poi mai lo avresti postato, al massimo avresti tirato lo sciacquone :D :sofico: )
a parte gli scherzi ;) , l'articolo in questione mi sembra si presti a diverse osservazioni
parte da una semplice constatazione: l'attuale disordine mondiale, ma di quel disordine mi sembra amplifichi i connottati e omette di dire che un certo disordine in quelle aree è sempre esistito da decenni in misura minore o anche maggiore, a seconda dei casi, anzi a partire dal 1945 un certo disordine escluse l'area europa occidentale-USA e quella del pacifico Giappone-Australia è sempre stata caratteristica di gran parte di asia e africa (con l'eccezione della Cina e del blocco eurasiatico sovietico il cui "ordine" era garantito da potenti apparati comunisti repressivi) soprattutto per il fiorire di nuove istanze nazionali o anche sovranazionali (leggi religiose) nel passaggio spesso convulso dal colonialismo (che dopotutto un certo ordine lo garantiva) a un postcolonialismo (che quell'ordine non lo poteva garantire più) dai contorni incerti o mal definiti
soprattutto rinfaccia all'america di non riuscire a garantirne uno alternativo per poi accusarla, in modo contraddittorio, di fare una politica isolazionista e responsabilizzando il solo governo americano deresponsabilizza allo stesso tempo tutti gli altri, che siano pachistani o jhiadisti di al quaeda, africani come afghani ecc.
in proseguo passa a improbabili paragoni con le brigate rosse italiane (che come fenomeno terroristico al cospetto di quelli attuali farebbe ridere) per sentenziare che all'amministrazione Bush siano degli "incurious" con le accezioni che tale termine implica (la Rice incurious? mah, forse visto la sua cultura in materia come la tribuna dalla quale opera che è quella del Dipartimento di Stato americano, qualche lezioncina di geopolitica mondiale e delle sue implicazioni, io dico che alla sig.ra Spinelli la Rice sarebbe in grado d'impartirle, n.d.r.)
fa anche improbabili paragoni storici fra la Prussia di Bismarck e l'Iran attuale che come la Prussia di allora aspira al ruolo di potenza regionale (ma che paragoni peregrini, la Prussia potenza regionale ai tempi di Bismarck lo era già, semmai il problema di Bismarck fu quello rappresentato dall'ineludibile unificazione tedesca e dalle modalità con le quali arrivarci) e a supporto di queste considerazioni porta le annotazioni di tale Vali Nasr, studioso e professore in materia in una delle tante università americane (che sarebbe a quanto ho capito la diramazione confessionale sciita dell'islam)
ma non sarà che suddetto professore, per quanto illustre, per il fatto di essere iraniano, di coltivare lo sciismo (almeno come materia nella sua vita privata non saprei) è quantomeno naturalmente orientato in questa direzione? :confused:
e poi dove sta scritto che come sugello al suo "nuovo" ruolo regionale l'Iran debba avere anche la patente di potenza atomica col beneplacito di tutti, dei sunniti in primis?
e allora perchè non si da il via libera anche all'atomica saudita, a quella egiziana ecc.?
perchè questi paesi al pari dell'Iran non dovrebbero dotarsene?
e poi chi l'ha detto che le opinioni di Vali Nasr debbano costiture la bibbia per qualcuno?
al massimo sarà la bibbia per la sig.ra Spinelli
la stessa che afferma nell'articoloche con l'Iran bisogna "negoziare"
ma se sono anni e anni e anni che con l'Iran nno si fa altro che "negoziare"? :confused:
talmente si "negozia" e si continua a "negoziare" che per ora si continua a escludere anche misure blande come le sanzioni
bella anche la chiosa sul nuovo "ruolo" dell'Europa, dipinta dalla Spinelli in modo così diverso per non dire opposto rispetto a quella vile e amorale oggetto delle sue invettive ai tempi delle guerre cecene di Putin o quelle balcaniche di Milosevic
questo in effetti è la cartina di ronasole più tangibile del cambiamento di rotta della sig.ra Spinelli di questi ultimi anni, che abbandonate le vecchie invettive, ormai "sale in cattedra", come spesso succede agli esperti e studiosi "internazionali" europei sempre pronti a impartire lezioni a mo' di vezzo(da quale scranno e da che pulpito poi proprio non si capisce), solo per lanciare strali sempre più acidi (sarà la menopausa? visto che tale argomento è stato usato spesso per la Fallaci sua coetanea, lo si può scomodare anche per lei) contro i soliti USA e Israele
ma lo fa non solo in modo acido, ma spesso con argomentazioni discutibili o addirittura false come descritto in questi articoli che riporto (solo alcuni, ma sul sito informazione corretta ve ne sarebbero altri che la riguardano):

http://www.informazionecorretta.com/main.php?sez=180&id=86

11/3/02 Sul caso Spinelli...
Riflessione di Angelo Pezzana


Apparentemente il caso sembrerebbe chiuso. Una illustre editorialista fa dire ad un ministro israeliano che "vorrebbe sterminare i palestinesi" quando lui non l'ha mai detto. Quasi obbligata dalle lettere di protesta che La Stampa riceve, chiarisce che è tutto vero, la frase l'ha tratta da un editoriale in inglese pubblicato su un giornale israeliano (quindi non è una frase del Ministro Landau, da virgolettare come Spinelli ha fatto, ma un'opinione di un altro editorialista che, tra l'altro non virgoletta un bel niente, che Landau la pensi così è quindi solo una sua opinione). Ma per Spinelli fa poca differenza. Per lei la cosa finirebbe lì, con quella precisazione che non chiarisce un bel niente. Ma non finisce lì per i lettori della Stampa che, insoddisfatti, inondano La Stampa di lettere di protesta. A questo punto Barbara Spinelli è obbligata ad inventare una scusa, in altre parole ad ammettere che si è inventata tutto.

Naturalemnete trova una scusa, si inventa un omonimo Landau, che sarebbe stato un ex addetto ai servizi di sicurezza e che sarebbe stato lui a dire quelle parole. Una trovata patetica e incredibile.

Dopodichè due scuse ai lettori per "essersi sbagliata". Della diffamazione del ministro Uzi Landau manco a parlarne.

Può finire qui un fatto così grave, e soprattutto così indicativo del malcostume giornalistico che è la norma di quasi tutti i nostri mezzi di informazione?

Voglio sperare di no.

C'è qualcuno fra i nostri lettori che esercita la professione forense e che ha voglia di fare un bel po'di citazioni per casi come quello di Barbara Spinelli?

Informazione Corretta è disponibile a fare da propulsore all'iniziativa.

Aspettiamo risposte.

http://www.informazionecorretta.it/main.php?mediaId=6&sez=110&id=14752

Barbara Spinelli vorrebbe spiegarci come combattere dei terroristi che però preferisce chiamare "insorti"
conferendo loro una legittimazione morale

Testata: La Stampa
Data: 05 dicembre 2005
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «L’intelligence senza intelligenza»



Domenica 4 dicembre a pag. 1 e a pag. 10, il quotidiano "La Stampa" pubblica un articolo di Barbara Spinelli intitolato "L’intelligence senza intelligenza". In questo testo troviamo il sacrosanto e legittimo dibattito sull’utilizzo della tortura da parte dell’intelligence. Ma sembra che l’intenzione della giornalista non sia tanto la denuncia dei metodi utilizzati dai servizi segreti, quanto la legittimazione di episodi da lei definiti di "guerriglia" (leggesi terrorismo). Ma procediamo per ordine. Pubblichiamo l’articolo e commentiamo sotto.

Ecco il testo:
Prima di accapigliarsi sull'uso dell'intelligence nella lotta al terrorismo, prima di condannare la distinzione che alcuni magistrati italiani fanno tra terrorismo e guerriglia. Conviene forse guardare da vicino i fatti che abbiamo davanti. Guardare i fatti serve per capire un po' meglio la situazione che viviamo, la guerra che si sta facendo contro il terrore, l'utilità dei mezzi che in questa guerra vengono non sporadicamente ma ormai ripetutamente usati. Tener conto dei fatti impedisce all'opinione di divenire astratta, ideologica, e infine controproducente dal punto di vista pratico. Basate sulla descrizione e l'analisi dei fatti, le opinioni contrastanti non giungeranno certo alla medesima conclusione ma diverranno più solide, più ricche, e di conseguenza più istruttive.

Vediamo dunque i fatti. L'uso dei servizi americani o europei per fronteggiare il terrorismo, su cui oggi si discute non solo in Italia ma nel mondo, non avviene in alternativa alla guerra iniziata da Washington e i suoi alleati dopo l'11 settembre 2001. È un uso che avviene dentro la guerra, che è un suo complemento, e che ha mutato volto nel momento in cui dalla tregua si è passati all'offensiva militare. Ciò di cui si discute non è l'opportunità o meno di ricorrere all'intelligence - e a una cooperazione stretta, riservata, tra occidentali - ma è il metodo che l'intelligence Usa predilige da quattro anni, gli ordini che le sono impartiti dal potere politico, la natura della cooperazione fra occidentali, e gli effetti che tutto ciò ha sulla battaglia antiterrorista e sulla sua efficacia.

L'ordine che l'amministrazione Usa impartì ai servizi era chiaro, fin da quando fu deciso di rispondere al terrorismo con una guerra totale e indefinita. Si trattava di «concentrarsi sulla parte buia del lavoro d'intelligence», disse il vicepresidente Dick Cheney cinque giorni dopo l'attacco alle Torri. Si trattava di rivoluzionare vecchie consuetudini: «Tutto quel che dovete sapere è che esiste un prima 11 settembre e un dopo. Dopo l'11 settembre ci si è tolti i guanti», spiegò il 26 settembre 2002 Kofer Black, ex agente Cia, alla commissione intelligence della Camera e del Senato. Così è nato quel che in America vien chiamato Nuovo Paradigma, nella lotta al terrore. Un paradigma messo a punto dal consigliere legale di Bush, Alberto Gonzales (oggi ministro delle Giustizia) e che contemplava: l'infrazione voluta di convenzioni internazionali che vietano la tortura, il maltrattamento di prigionieri di guerra, il trasferimento di detenuti verso Paesi che non rispettano i diritti dell'uomo e applicano la tortura. I risultati del Nuovo Paradigma sono conosciuti. Nel 2003 scoppia lo scandalo delle torture a Abu Ghraib. Il 14-21 febbraio 2005 il New Yorker rivela l'esistenza di un reticolato mondiale di Abu Ghraib, edificato sulla base di trasferimenti sistematici di sospetti verso Paesi che praticano la tortura: trasferimenti chiamati eufemisticamente «consegne straordinarie» (extraordinary rendition), e che di fatto sono deportazioni. Alle consegne si dà anche un nome imprestato dall'economia: outsourcing, ovvero affidamento in appalto (esternalizzazione) di interrogatori con tortura difficilmente eseguibili in democrazie. In questi giorni infine si è appreso che interrogatori e tortura sono affidati in appalto anche all'Europa: in particolare all'Est dell'Unione, appena uscito dal comunismo. I prigionieri trasferiti sono decine, forse centinaia. I voli degli aerei Cia in Europa sono almeno 300. Lo ha rivelato il 2 novembre il Washington Post, e Human Rights Watch ha specificato che i Paesi potrebbero essere Polonia e Romania. Il nuovo paradigma esisteva anche prima dell'11 settembre, ma dopo divenne routine, burocrazia. È quanto afferma l'ex agente Fbi Dan Coleman, da tempo inviso all'amministrazione Usa perché fautore di interrogatori non brutali e a suo parere più fruttuosi (basati sulla persuasione, sulla creazione di rapporti personali tra interrogato e interrogante). Coleman non è di sinistra, né pacifista. È un uomo di macchina nell'intelligence. Solo dopo l'11 settembre protestò contro l'extraordinary rendition, perché le deportazioni «erano completamente fuori controllo». Disse ancora: «La brutalità non funziona, lo vediamo bene negli interrogatori. A parte il fatto che così facendo perdiamo l'anima». Coleman ha rivelato altri fatti: egli partecipò agli interrogatori di Ibn al-Shaikh al-Libi, addestratore di Al Qaeda arrestato nell'inverno 2001-2002 dai pakistani, consegnato alla Cia, e trasferito per interrogatori-torture in Egitto. Le confessioni strappategli furono alla base delle dichiarazioni di Colin Powell - all'Onu nel febbraio 2003 - che giustificarono la guerra (Saddam avrebbe messo a disposizione di Al Qaeda armi chimiche e biologiche). Le confessioni erano false, come accertato dalla Commissione parlamentare Usa sull'11 settembre.

I Paesi cui vengono dati in appalto gli interrogatori senza guanti sono Stati noti per praticare la tortura e violare i diritti dell'uomo: in prima linea Egitto, Siria, Uzbekistan. E ancora: Giordania, Marocco, Yemen, Afghanistan, Pakistan, Thailandia. Adesso alla lista s'aggiunge il nostro continente, che di queste usanze s'è forse reso complice - in violazione della Convenzione europea sui diritti dell'uomo - consentendo a trasferimenti e a sequestri illegali di persone sospette sul proprio territorio. Il commissario Frattini, responsabile per libertà, sicurezza e giustizia, ha detto che i Paesi dell'Unione che dovessero aver ricevuto in appalto interrogatori e torture rischiano la perdita dei diritti di voto nei consigli dei ministri, come rischiò a suo tempo l'Austria di Haider. Si vedrà se tale posizione sarà ribadita in occasione della visita in Europa di Condoleezza Rice.

Un altro fatto da tenere a mente è il tipo di tortura, cui si ricorre abitualmente. La più frequente e nuova è il water-boarding o submarino: il sospettato viene legato e immerso nell'acqua fino a sfiorare l'annegamento. Ricorrente è anche l'uso dei cani: un avvocato americano ha dichiarato al New Yorker che Mamdouh Habib, prigioniero australiano di origine egiziana preso in Pakistan e poi trasferito in Egitto, fu minacciato di stupro anale per mezzo dei cani, se non avesse confessato d'appartenere a Al Qaeda. In Uzbekistan è usuale il water-boarding, ma con acqua bollente: la bollitura di una mano o un braccio è abituale, sostiene Craig Murray, ambasciatore britannico in Uzbekistan dimessosi perché inascoltato da Londra. Due prigionieri, così bolliti, sono morti.

Tutti questi detenuti son chiamati prigionieri fantasma, perché sottratti a ogni spazio giuridico. Non hanno diritto all'habeas corpus, il che significa: non possono comparire davanti a una corte per sapere di che sono imputati. Non possono incontrare avvocati, e i familiari non sanno dove siano. Gli agenti della Cia rapiscono infine i sospetti senza badare alla sovranità degli alleati. Si dirà che la cessione parziale di sovranità è necessaria a una cooperazione fra intelligence. Ma la cessione è richiesta solo all'Europa, mentre Washington la rifiuta perentoriamente. È per questo che la cooperazione antiterrorista funziona molto male: essa vede l'Unione europea complice di una strategia che non controlla.

Se questo è l'uso che si fa dell'intelligence, conviene porsi in Europa almeno due questioni. La prima riguarda la cooperazione tra servizi. Essa è indispensabile, in guerra e pace. Ma così come viene praticata è non solo inutile, ma dannosa. Il risentimento viene acuito, negli estremisti violenti. I torturati non dicono verità affidabili, e diventano inoltre del tutto inservibili nei processi per terrorismo che si fanno in Europa e Usa: per questo Washington si rifiuta di cooperare con i magistrati europei che invocano la comparsa in aula dei detenuti, come testimoni. Infine, i sequestri di presunti terroristi nei territori dell'Unione: una pratica deleteria cui ricorre la Cia, visto che i rapiti non vengono consegnati alla giustizia ma a irreperibili spazi di non diritto. È il caso dell'imam di Milano, trasferito e torturato in Egitto. È il caso del tedesco Khaled al Masri: sequestrato dalla Cia, poi trasferito e torturato in una cella afghana. Non fa scandalo che la Cia abbia interrogato il sospetto Daki assieme al pubblico ministero Dambruoso. Fa scandalo che in Italia si collabori col Nuovo Paradigma e con i suoi metodi senza ammetterlo, e senza che il governo dica cosa facciamo in Iraq: se siamo in guerra o in pace, se contrastiamo terroristi o insorti. È gravissimo che Daki sostenga gli insorti iracheni contro gli occupanti, vivendo in Italia e sapendo che ci sono italiani tra gli occupanti. Ma per biasimare le sue parole bisognerebbe non mentire, sulla nostra partecipazione alla guerra.

La seconda questione riguarda l'utilità di questi nuovi paradigmi e gli effetti che possono produrre. Sono effetti che rischiano d'annientare lo scopo che la guerra idealmente e ideologicamente si propone: l'estensione nel mondo di democrazia e diritti. Facendo affidamento su Paesi che praticano la tortura, non s'estende alcunché ma si spinge anzi questi Stati a preservare abitudini brutali rivelatesi così preziose per l'occidente. I mezzi inquinano il fine irrimediabilmente, come già s'è visto in altri totalitarismi. È ormai appurato che il terrorismo si nutre e cresce in concomitanza sia con la guerra in Iraq, sia con i costumi dell'intelligence americana. È chiaro che ambedue complicano la definizione del terrorismo, aprendo spazi a guerriglie che si presentano come battaglie per la liberazione e anche l'onore. È difficile per i magistrati decidere, in simili condizioni. In fondo, giudici come Clementina Forleo hanno come bussola «solo la coscienza e le leggi vigenti», se non vogliono cedere alla politica della paura e a quello che viene chiamato il comune sentire (Alessandro Silj, Corriere della Sera, 4-2-05).

È una strategia non pratica, quella odierna dell'intelligence: non intelligente, tarda di cervello, non è neppure vincente. Non lo dicono solo i pacifisti e parte delle nostre sinistre. Lo dicono democratici vicini alle forze armate come John Murtha, senatori repubblicani come John McCain, e gran parte dell'esercito americano e degli stessi servizi.
La giornalista sottolinea il fatto che l’uso dell’intelligence non avviene in "alternativa" alla guerra ma "dentro la guerra". Come mai ? Sicuramente se per assurda ipotesi gli Stati Uniti d’America avessero deciso di utilizzare solamente l’intelligence come arma contro il terrorismo, e non la destabilizzazione delle dittature e la democrazia tanto contestata dai "pacifisti", il problema di come utilizzare i servizi segreti si sarebbe posto ugualmente.
L’articolo sfrutta poi il tema delle torture vere o presunte (comprese quelle inflitte in Uzbekistan, un paese il cui regime è oggi sostenuto solo dalla Russia) e dei duri interrogatori cui sono sottoposti i sospetti terroristi per giungere a delle assurde conclusioni. Infatti si chiede se stiamo contrastando "terroristi o insorti". E’ curioso vedere che la giornalista risponde con certezza sposando la seconda opzione, senza spiegare minimamente il perché. Nella frase successiva infatti si legge di sostegno agli "insorti", dando per certo che questi personaggi non siano terroristi. Ma perché la giornalista non descrive le azioni che lei considera "di guerriglia" compiuta da questi "insorti"? E soprattutto perché non elenca i nomi, e dice almeno chi ha rivendicato questi episodi da "guerriglia"?
Ad esempio uno degli ultimi attacchi contro i convogli dell’esercito americano è stato rivendicato dall’ "Esercito islamico in Iraq". Si tratta della stessa organizzazione che ha rapito e ucciso il giornalista italiano Enzo Baldoni, oltre a molti altri civili: difficile continuare a chiamarla "gruppo guerrigliero". Per tacere dell’attentato a Falluja organizzato e rivendicato dal gruppo di Al Zarqawi, braccio destro di Bin Laden in Iraq. Il giordano Al Zarqawi, numero due di Al Queda, per la Spinelli diverrebbe un guerrigliero?
Ma la giornalista non si ferma, e si spinge oltre: cerca in qualche modo una giustificazione del terrorismo, sostenendo che la guerra e i "costumi dell’intelligence americana" aumentano gli episodi di terrorismo come se fossero essi stessi la causa e non uan risposta. Inoltre si considera tutto ciò "appurato" e dato per certo senza citare nessuna fonte e nessuno studio al riguardo.
Il tentativo è quello di indurre il lettore a pensare che il terrorista agisce per difesa, e soprattutto, cosa ancora più sconvolgente, per "la liberazione e anche per l’onore". Il concetto di "liberazone" è molto opinabile, perché sappiamo che si tratta di una guerra, quella scatenata dal terrorismo, che ha oggi come principale bersaglio la popolazione civile irachena. Ma ancor più discutibile è il concetto di "onore". Come si fa a considerare i sequestratori e i tagliatori di gole, persone che agiscono per onore? Come si fa a considerare i mandatari dei kamikaze contro civili innocenti delle persone che agiscono per onore?
Ma verso la fine dell’articolo arriviamo all’assurdo. I governi democratici nel loro modo di agire "non intelligente" e "tardo di cervello" fanno crescere e producono il terrorismo, e i terroristi, nel contempo non si devono chiamare tali.
All’inizio l’articolo sembrava voler discutere le varie opzioni per fronteggiare il terrorismo ma se Al Zarqawi diviene un "guerrigliero", se Arafat non è mai stato un terrorista, se Hamas, Al Aqsa e Jihad sono semplicemente "gruppi radicali", chi sono i terroristi oggi?

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La crisi in Medio Oriente ? E' colpa di Bush
la fantasiosa analisi di Barbara Spinelli

Testata: La Stampa
Data: 16 luglio 2006
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «Il nuovo grande gioco»



In un editoriale pubblicato dalla STAMPA del 16 luglio 2006 Barbara Spinelli attribusce alla strategia americana di democratizzazione del Medio Oriente il precipitare dell'attuale crisi.
Ma le colpesono della strateg o del fatto che non è stata perseguita fino in fondo con sufficiente coerenza?
Del fatto che si è permesso la partecipazione alle elezioni libanesi e palestinesi di partiti totalitari, antisemiti e terroristi come Hamas ed Hezbollah, senza ottenerne il disarmo?
Al fatto che si è trattato e si è legittimato un brigante come l'iracheno Moqtada Sadr invece di affrontarlo?
Al fatto che si è tollerata la sopravvivenza di un regime come quello siriano, gemello, nella brutalità, nell'ideologia baathista e nell'odio per l'Occidente, di quello iracheno?
Al fatto che con l'Iran si è scelta la via del "realismo" e del "dialogo" anzichè quella del cambio di regime?
Conviene ricordare che l'aggressione jihadista contro Israele e contro l'Occidente, come pure il consenso di massa al fondamentalismo, precedono di molto la guerra in Iraq.
Hezbollah non ha mai cambiato i suoi piani, il suo sogno di distruggere Israele lo accompagna dalla fondazione.
Lo stesso si può dire di Hamas e del regime degli ayatollah in Iran
Il punto è semmai che in troppi per molto tempo, non hanno voluto prendere atto della realtà e della necessità di rispondere all'offensiva jihadista.
Ammettendo che Israele deve difendersi Barbara Spinelli sembra forse essere uscita dal novero di questi ultimi, ma la sua ricostruzione retrospettiva della storia degli ultimi anni comporta ancora un'incomprensione di fondo della gravità , della radicalità e dell'aggressività della sfida posta dal terrorismo islamista

Ecco il testo:


QUANDO l’amministrazione Bush decise di rispondere con due guerre all’attentato terrorista dell’11 settembre, non furono pochi in America coloro che pensarono, attraverso le scelte del Presidente, di rifare in pochi anni il Medio Oriente e tutta l’area circostante cui venne dato il nome di Grande Medio Oriente. Immaginarono di poterlo finalmente democratizzare, e dunque pacificare in maniera stabile. Immaginarono un’ampia zona composta di Stati amici dell’America e in pace con Israele: una zona che dalla Palestina s’estendeva fino agli Stati petroliferi, nel Golfo; e fino ai margini dell’Asia centrale, in Afghanistan. Ci furono momenti in cui sembrò che un vecchio sogno abitasse le menti del governo Usa: il sogno di far rivivere il Patto di Baghdad (l’organizzazione denominata Cento), che Washington stipulò nel 1955 con Iraq, Turchia, Pakistan, Iran, ai fini di contenere l’espansione sovietica e di creare in Asia centrale una Nato parallela. Il patto si rivelò futile, anche perché concepito senza ripensamento alcuno sui colonialismi passati: tre anni dopo fallì - quando il partito Baath rovesciò la monarchia irachena - e nel ’79 venne definitivamente sepolto dalla rivoluzione iraniana. Quel che accadde dopo, gli Stati Uniti non solo non l’hanno mai accettato. Non l’hanno neppure capito, non hanno intuito l’emergere degli integralismi islamici, e di conseguenza non hanno saputo edificare una politica verso i nuovi attori di Medio Oriente e Golfo. Le loro sole armi furono, lungo i decenni, prima il corteggiamento di dittatori come Saddam poi la guerra distruttiva contro lo stesso Saddam. Una guerra che doveva appunto ricostruire il Grande Medio Oriente e garantire la potenza amica che è lo Stato d’Israele, forte dell’atomica ma incapsulato in uno spazio arabo sempre più islamizzato e radicale.
Quel che sta accadendo in questi giorni, con le truppe israeliane che si trovano a dover bombardare e occupare di nuovo il Libano per fronteggiare le aggressioni di Hezbollah contro il proprio territorio, è segno che il nuovo Grande Gioco Usa è fallito, trasformandosi in dannazione per Israele stesso. Due guerre e l’assenza di politica statunitense hanno avuto come risultato il radicalizzarsi del mondo arabo, la creazione in Iraq di una vasta base terrorista, l’ascesa di Hamas in Palestina, la decisione di Hamas e Hezbollah di unire le forze e stringere Israele in una tenaglia. Sullo sfondo, infine, hanno facilitato l’emergere impavido della Siria e quello mortifero di Ahmadinejad in Iran. La stessa rivoluzione dei cedri in Libano, che Washington e gli europei hanno tanto caldeggiato senza avere una sola idea su come farla riuscire, ha partorito uno Stato inetto, fintamente indipendente da Siria e Iran, incapace di esercitare sul proprio territorio il monopolio della violenza: il potere di Hezbollah nel Sud libanese è stato tollerato dagli occidentali e dagli europei che le rivoluzioni magari le favoriscono, ma non sanno comprenderle né gestirle, anche quando l’Onu impone risoluzioni e ordina, come in Libano, il disarmo di milizie incontrollate.
Il risultato - pessimo per gli Stati Uniti - è catastrofico per Israele. Il suo esercito resta il più potente nel Grande Medio Oriente, e si sente protetto in extremis dall’atomica. Ma la sua forza di dissuasione è compromessa gravemente e i suoi punti deboli son conosciuti e sfruttati dall’avversario. La guerra mondiale contro il terrore ha rafforzato i nemici di Israele, ha acutizzato il loro estremismo, ha liberato la loro parola, le loro provocazioni. È quello che molti amici di Israele, anche in Italia, sottovalutano. Non vedono come sia stato esiziale puntare tutto sulla strategia antiterrorista Usa. Non vedono i compiti immani che ha davanti Israele: il tempo oggi davvero lavora contro di lui, il ritiro da tutti i territori e un negoziato con Hamas diventano sempre più urgenti. Non vedono neppure quel che l’Europa può fare, per darsi una politica alternativa a quell’americana senza però abbandonare a se stesso Israele. Chi accusa Israele di avere una reazione sproporzionata (lo sostiene la maggioranza del centrosinistra in Italia) giudica assennatamente ma non guarda lontano e soprattutto non ripercorre con spirito critico quel che è successo negli ultimi anni: uno Stato così accerchiato, con la dissuasione a pezzi, ha poche alternative quando vede che perfino le azioni ragionevoli - ritiro dal Libano nel 2000, ritiro da Gaza nel 2005, volontà sia pur ambigua di ritirarsi da parte della Cisgiordania - non calmano l’avversario ma ne eccitano i trionfalismi distruttivi.
La dissuasione israeliana è pericolante perché il suo alleato, l’America, è al suo fianco solo verbalmente e chissà per quanto tempo ancora. L’America di Bush non esce rafforzata ma indebolita dalla lotta globale al terrore: non può fare politica, in questa zona che per l’Occidente è essenziale per motivi storici ed economici. Non può aiutare Israele a uscire dal pantano, non può inviare emissari-mediatori capaci di convincere gli avversari di Israele, perché gli Stati Uniti sono invisi nel mondo arabo come di rado in passato. Non può neppure contare su Egitto e Giordania, due moderati oggi impotenti. Al suo stesso interno, infine, cresce l’insofferenza verso una politica che negli ultimi anni si è alleata senza discernimento a Israele, condividendone gli errori e permettendo che si diffondesse in America stessa la paura di una lobby ebraica troppo influente, esigente. La voce di Bush in queste ore è forte nel difendere il diritto di Israele a esistere e difendersi. È flebile, drammaticamente non dissuasiva, sul piano dell’azione politica e diplomatica.
Anche la voce degli Europei è flebile, nonostante il loro prestigio sia più forte nell’area araba e nonostante le pressioni esercitate da anni su Israele, perché negozi più speditamente il ritiro completo dai territori. Ma anche essi non hanno fatto politica. In particolare, hanno fatto pochissimo per stabilizzare il Sud del Libano e permettere al governo di Beirut di liberarsi delle milizie terroriste. Anche la Chiesa ha pesanti responsabilità. Quando Benedetto XVI critica la natura sproporzionata del contrattacco israeliano e denuncia la violazione della sovranità libanese, nasconde una verità che pure conosce: non è sovrano uno Stato che governa i propri confini attraverso una milizia terrorista, manovrata e finanziata da Siria e Iran. I cristiani libanesi che in cambio di potere hanno stretto patti con Hezbollah, accettando che governasse le frontiere e le trasformasse in una ferita purulenta, sono partecipi delle odierne derive.
C’è qualcuno che guarda ai recenti avvenimenti con palese soddisfazione, o comunque con la certezza di poter profittare del presente vuoto di potere. Questo qualcuno, corteggiato nelle ultime ore a San Pietroburgo, è l’anfitrione del vertice dei Paesi industrializzati Vladimir Putin. Il Presidente russo ha in mano molte armi. Ha scommesso sul fallimento del Grande Gioco americano, coltivando al contempo rapporti con radicali e integralisti: con Hamas, Hezbollah, Siria, Iran. Può parlare con loro, cosa che Bush non può e che gli Europei non tentano: non è lontano il giorno in cui il Cremlino diverrà il nostro rappresentante-garante nel Golfo e Medio Oriente. Ma soprattutto, Putin ha in mano l’arma assoluta: il petrolio e il gas, di cui può divenire fornitore esclusivo, alternativo, tanto più capriccioso politicamente. I prezzi alti del greggio non son dovuti solo alla crisi nel Medio Oriente ma non sono senza rapporti con le sue patologie, e il petrolio venduto a carissimo prezzo è nell’interesse non solo economico ma strategico e politico di Mosca. È attraverso il petrolio che la Russia di Putin sta ridiventando superpotenza, in un’epoca che vede scricchiolare la dissuasione nucleare e politica degli occidentali.
Con questa Russia l’Europa dovrà ora trattare, ma essendo cosciente che i disegni del Cremlino non puntano necessariamente alla stabilità: né economica, né politica. Dovrà trattare sapendo che non basta sposare le tesi di Putin in ogni circostanza, a cominciare da quel che Mosca dice sulle reazioni sproporzionate di Israele in Libano. Sapendo che la lotta al terrorismo è stata brutale e fallimentare anche in Russia, come dimostra la Cecenia. Avere Mosca come garante della stabilità internazionale è una tentazione forte, per il nostro continente. Ma non è un’alternativa rassicurante, finché gli europei continueranno a cercare con il Cremlino speciali rapporti bilaterali, e rinvieranno il momento in cui l’Unione si dà una politica estera, militare ed energetica comune. È stata Washington a far uscire il mondo fuori dai cardini, ma per gli europei la consolazione è magra. Spetta a loro cominciare ora a far politica, senza aspettare che sia un’altra potenza come quella moscovita, non ancora democratica e esistenzialmente interessata agli odierni sconquassi, a far politica al posto nostro e in nostro nome.


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La contorta logica e le molte dimenticanze di Barbara Spinelli
la portano a vedere negli Stati Uniti un pericolo per Israele

Testata: La Stampa
Data: 06 agosto 2006
Pagina: 1
Autore: Barbara Spinelli
Titolo: «Il sonno dogmatico»



La STAMPA del 6 agosto 2006 pubblica in prima pagina un editoriale di Barbara Spinelli che riportiamo di seguito, con i nostri commenti:

Gli israeliani lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno, da quando il 12 luglio si son trovati nell’obbligo di rispondere a un attacco Hezbollah che non ha più come scusa i territori occupati, ma è un’aggressione che minaccia esistenzialmente Israele ed è al contempo laboratorio di uno scontro Iran-Usa: in questa guerra libanese sono in realtà soli, nonostante le attestazioni solidali che vengono da Bush e Blair. Non si sentono rassicurati neppure dall’accordo, ambiguo, che si delinea fra Parigi e Washington al Consiglio di sicurezza Onu. Quella congerie di stati cui viene dato il nome falso di comunità internazionale si agita, domanda la «piena cessazione di ostilità», ma non osa chiedere che essa sia «immediata» e simultanea. Nell’immediato devono cessare gli attacchi Hezbollah e le operazioni offensive israeliane: una formula che consente a Israele di restare in Libano per operazioni difensive, ma che non gli risparmierà aggressioni. Difficilmente infatti Hezbollah - non sconfitto - accetterà la tregua. Alcuni governi europei son pronti a schierare soldati per aiutare l’esercito libanese a conquistare il monopolio della violenza ai confini meridionali, ma è improbabile che intervengano finché la tregua sarà ambigua: un’ambiguità cui l’amministrazione Usa non sembra rinunciare.

Quel che Bush desidera è la continuazione della guerra contro Hezbollah, fatta da Israele o da altri: gli strumenti impiegati possono cambiare ma non l’obiettivo, e l’obiettivo è una guerra-test con l’Iran, con la Siria, per interposte persone. È come se l’amministrazione volesse proprio quello che sta accadendo: lo stato d’Israele sprofondato in un conflitto che sta perdendo, il Libano che è stato scardinato e offeso, l’Iran e la Siria che manovrando Hezbollah son divenuti attori di primo piano in Medio Oriente e nell’Islam, e in quanto tali vengono messi in guardia e minacciati.

E' difficile capire la logica contorta di queste righe, probabilmente impossibile.
Israele, constata la Spinelli, è aggredita, la sua esistenza è messa in discussione. Gli Stati Uniti rifiutano una risoluzione Onu che, "imponendo" un cessate il fuoco immediato, senza affrontare la minaccia di Hezbollah, sarebbe il preludio di nuove guerre. Insistono sul diritto all'autodifesa di Israele. La Spinelli ne ricava la conclusione che non vogliono che l'aggressione di Hezbollah finisca e che Israele sia sicuro.
Come se l'esistenza del "Partito di Dio" e dei suoi razzi katyusha dipendesse da quello che si trova scritto sui pezzi di carta dell'Onu.
Ci si scrive "cessate il fuoco immediato" (come proponeva la Francia, nota amica per la pelle di Israele) e i katyusha spariscono. Ci si scrive "diritto di difesa" (come hanno voluto gli Stati Uniti) ei katyusha ricompaiono...


Poi c’è il conflitto in Iraq, da cui l’odierna catastrofe discende e che il Libano ha obnubilato: anche qui, è forte l’impressione di un voluto ampliamento dei disastri. Ogni giorno muoiono 100 civili in Iraq, ma è la guerra in Libano che occupa le prime pagine dei giornali. In America, lo spazio televisivo dedicato a Baghdad è caduto del 60 per cento fra il 2003 e questa primavera. Una manna, per il governo americano: fin quando dura la piaga libanese, Washington non dovrà rispondere del caos suscitato - tramite Iraq - in Medio Oriente e nel mondo.

Non son pochi gli israeliani che cominciano a intuire il terribile ingranaggio in cui rischiano di restar impigliati: un ingranaggio che fa del loro Paese il tassello della strategia Usa di esportazione della democrazia e di mondiale guerra antiterrorista, e che ha finito col debilitare Israele anziché proteggerlo. Una strategia che ha tutta l’aria di trattare Israele come un mezzo, non un fine come Bush pretendeva. Lo storico Tom Segev s’indigna sulle colonne di Haaretz, denunciando una politica americana che lascia solo Israele, che lo aizza in guerre perdenti, che ha perduto ogni autorità nel mondo. Daniel Levy che ha partecipato a numerosi negoziati di pace (Oslo, Taba, accordi di Ginevra) scrive che Israele non può continuare a subire una linea dettata fin dal ’96 da neoconservatori come Richard Perle e Douglas Feith (Haaretz 4-8-06). E ricostruisce quella linea, che i neocon suggerirono all’allora Premier Netanyahu e che aveva come scopo la fine delle trattative di pace e una rivoluzione nei rapporti tra Israele e Usa. Oggi, essi adoperano la guerra libanese per rifarsi della bancarotta irachena.

Molti (Tom Segev, Avi Schlaim sull’Herald Tribune) sostengono che l’America non aiuta più Israele, dal momento che l’aizza invece di disciplinarlo: «Mai nella nostra storia è accaduto che Washington ci spronasse così poco all’autocontrollo», scrive Schlaim, ed è il motivo per cui gli Stati Uniti «sono ormai parte del problema e non della sua soluzione». Segev sospetta che le modalità della guerra libanese nascano da un coordinamento con Washington e ricalchino il modello Iraq, con effetti perniciosi: anche questa guerra sembrava facilissima, anch’essa era tassello d’una vasta lotta contro l’asse del male, e la degenerazione insidia anche lei. Uscire dall’Asse del Bene, ritrovare la realtà di questioni e guerre che hanno origini locali: è questa l’opportunità, per i critici dell’America in Israele, di uscire dal sonno dogmatico che l’alleanza esclusiva con Washington impone agli israeliani.

Il sonno dogmatico sacrifica l’esperienza, sull’altare di concetti generali e globalizzanti; non vede il particolare, dunque il reale. Secondo Levy, questo è il vizio dei neoconservatori che da un decennio propugnano un Nuovo Medio Oriente, una rottura netta con le passate politiche israeliane (così s’intitola il documento del ’96, A Clean Break). Il loro obiettivo: spingere i governi israeliani ad abbandonare la strategia di restituzione dei territori; incitarli a regolare i conti con Siria, Iran, Autorità palestinese; convincerli a cercare un’autosufficienza che spezzi le pratiche del contenimento e della cooperazione internazionale tornando ai vecchi equilibri di potenza.

La Spinelli dimentica clamorosamente che Israele si è ritirata da Gaza e che il governo Olmert è stato eletto per effettuare anche il disimpegno dalla Cisgiordania, già previsto da Sharon.
Le operazioni in Libano e a Gaza, come ha ben spiegato Yossi Klein Halevi, sono perfettamente coerenti con questa strategia,diversa da quella di Perle e Feith, perché mira a ristabilire la capacità di deterrenza di Israele.
Lo scopo della guerra contro Hezbollah è quello di comunicare con chiarezza ai nemici di Israele, che hanno interpretato il ritiro da Gaza come un segnale di debolezza e non come un'opportunità di pace che dovranno sempre pagare un prezzo elevato per le loro aggressioni

La cosa più esiziale è stata quando questa visione s’è intrecciata con quella degli evangelicali, in cui Bush si riconosce. Gli evangelicali americani sono filo-israeliani solo in apparenza. Nei loro affreschi messianici la nazione ebraica deve disporre di territori possibilmente vasti, per poter accogliere il secondo avvento di Cristo. Un avvento non promettente per gli ebrei: nei Tempi Finali Israele sarà convertito, distrutto. Anche per gli evangelicali Israele è un mezzo, non un fine.

Chi aspira all’uscita dal sonno dogmatico chiede passi politici sostanziali anche se scabrosi, per il Libano. Chiede che si negozi col nemico (fu Rabin a dirlo, dopo gli accordi di Oslo nel ’93: «Con chi dobbiamo negoziare, se non con il nemico? La pace non si fa con gli amici!»). Chiede il ritorno alla diplomazia, alla restituzione delle terre, e se la guerra è necessaria: che sia la continuazione di una politica, non di una non-politica. L’uso americano d’Israele è un male che può rivelarsi grande, ed è la ragione per cui Segev e altri sperano disperatamente nell’Europa: «La spinta su Israele perché eserciti autocontrollo non viene più da Washington, ma dagli europei». Il senso delle realtà locali sono gli europei ad averlo. Bisogna negoziare con Iran, con Siria: gli europei ne sono convinti e sapranno farlo. La maniera in cui Israele viene adoperato (come non-persona) è utile a tutti coloro che si sentono orfani di lotte ideologiche fra bene e male, fra destra e sinistra. Israele è pedina dispensabile, in quest’ordine del giorno interamente occidentale.

«Anche se l’America conquistasse l’Iran, a Israele resterà pur sempre l’obbligo di vivere accanto ai palestinesi», spiega Segev. Il che vuol dire: Israele deve capire di cosa è fatto l’odio Hezbollah in Libano, deve distinguerlo da quello di Hamas nelle terre occupate, deve tener conto che la Siria reclama con ragione la restituzione delle alture del Golan. Hezbollah è una malattia difficilmente estirpabile perché non è solo una cellula terrorista: in Libano è al governo e ha un’agenda politica, si occupa di sanità e scuola in regioni povere, è profondamente scontento per come gli sciiti sono emarginati, nonostante l’alta loro forza demografica (40-50 per cento della popolazione. Gli equilibri attuali si basano sul censimento del 1932, che premiava sunniti e cristiani). Secondo Robert Pape, studioso di terrorismo a Chicago, il partito di Dio è proteiforme, raccoglie tutti coloro che hanno combattuto i 18 anni d’occupazione israeliana. Nel suo libro sul terrorismo, ha studiato da vicino il profilo di 38 Hezbollah kamikaze: «Ho scoperto che solo 8 erano fondamentalisti islamici. 27 appartenevano a gruppi di sinistra (Partito comunista, Unione socialista araba), 3 erano cristiani, tutti erano libanesi» (New York Times 3-8-06. Il libro s’intitola: Dying to Win - Morire per Vincere, Usa 2005):

Davvero un segno che le richieste di Hezbollah siano "politiche" e negoziabili e non piuttosto delle diffusione del totalitarsmo jihadista e antisemita e della mistica del martirio che caratterizzano il gruppo ben al di là dei confini della comunità sciita libanese?

Studiare più da vicino e non da lontano: uscire dai sonni dogmatici comincia così, aiutando davvero Israele. Ed è significativo che siano studiosi di terrorismo come Pappe a mostrare la strada. O come Jessica Stern, che suggerisce di non mescolare Iraq e Libano, guerra globale anti-terrore e guerre locali: «Gli errori fatti su un fronte guastano l’efficacia nell’altro, anche perché gli eventi (Guantanamo, Abu Ghraib, Cana) vengono filmati, confermando l’idea che l’Occidente stia combattendo una guerra contro l’Islam» (The Boston Globe, 1-8-06). Da questo punto di vista, scrive Stern, i terroristi hanno vinto. Il Gihàd è divenuto una «moda globale», non diversa dai violenti ritmi del gangsta rap: si nutre di bambini morti, di risentimento, pervadendo le zone di conflitto come le città d’Occidente. Ignorare questi pericoli è sonno dogmatico.

Lo dice Thomas Friedman, che approvò la guerra in Iraq e ora invita a riconoscerne il fiasco. Essa ha moltiplicato il terrorismo, ha irrobustito l’Iran suscitando negli sciiti una sete di rivincita mondiale, e ha lasciato solo Israele. Dunque oggi non resta che trattare con l’Iran oltre che con la Siria, «così come la Casa Bianca trattò nel 2003 con la Libia» (New York Times 2-8-06). Non si può ottenere da Ahmadinejad la rinuncia all’atomica, e al tempo stesso tenere l’Iran sotto tiro. Bisogna dargli precise garanzie di sicurezza, simili a quelle date a Gheddafi. Bisogna instaurare con Teheran una guerra fredda, fondata sul suo contenimento anziché sul suo arretramento forzato (roll-back). Si dirà che il comunismo sovietico non colpiva come oggi vengon colpiti Israele e Occidente. Ma l’Urss non aggrediva alla maniera di Hezbollah perché contenimento e dissuasione avevano funzionato, non perché esistessero buone condotte da premiare.

L'URSS non aveva, però la visione apocalittica e la mistica del martirio di Ahmadinejad.
I suoi dirigenti ragionavano in termini di "rapporti di forza", non di doveri religiosi e attese messianiche.
Inoltre, la guerra fredda si è conclusa, vittoriosamente per l'Occidente, con una serie di mosse che non furono di "contenimento": dalla sfida tecnologica e militare del progetto "scudo spaziale", al sostegno ai dissidenti, fino al sostegno alla guerriglia afgana.

La Spinelli dimentica anche che la strategia della democratizzazione del mondo arabo segue all'evidente fallimento delle politiche "realistiche", incentrate sui rapporti con i regimi, tentate in precedenza.
Fallimento divenuto palese per ciò che riguarda gli Stati Uniti, l'11 settembre 2001.
Analogamente, dimentica che il processo di pave di Oslo e la politica "pace in cambio di territori", si sono rivelate fallimentari per Israele, con l'aggressione terroristica subita dopo che Arafat abbandonò il negoziato di Camp David.

CliveSt
11-09-2006, 05:56
Senti bel rapporto sulle cretinate di stampa ma..................non ti sembra di aver fatto un post un "tantinello" lungo? :)

Gemma
11-09-2006, 08:47
io a dirla tutta mi sono anche bella che rotta di leggere "antiamericano" di qua, "antiamericano" di là, eh.
Ci vorrebbe una modifica al regolamento per questo.

La storia dell'antiamericanismo ha definitivamente strabordato.

sider
11-09-2006, 08:51
io a dirla tutta mi sono anche bella che rotta di leggere "antiamericano" di qua, "antiamericano" di là, eh.
Ci vorrebbe una modifica al regolamento per questo.

La storia dell'antiamericanismo ha definitivamente strabordato.

Lo puoi dire forte. Porsi semplicemente delle domande ti fa passare per "antiamericano" "antisemita" ecc.ecc.

prio
11-09-2006, 10:15
che massa de cojioni :doh:

E vabbe'.. :rolleyes:

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