subvertigo
02-09-2006, 02:14
corsivo -> aggiunto da me
Marco Travaglio, bravo giornalista che collabora con l'Unità, risponde al un articolo di Adriano Sofri (che scrive sul Foglio di Giuliano Ferrara/Veronica Lario) anch'esso pubblicato sull'Unità, tema l'indulto.
SOFRI: PENSIERI E RISPOSTE
di Marco Travaglio
Caro direttore, dopo aver difeso Renato Farina prezzolato dal Sisde e avermi qualificato «squadrista» sul Foglio di Giuliano Ferrara (già celebre per aver definito «omicida» l'Unità), Adriano Sofri ha riempito ieri alcune colonne dell'Unità medesima per insolentire, senza più far nomi, non solo il sottoscritto, ma tutti coloro che, anche sull'Unità, hanno contestato l'estensione dell'indulto ai reati finanziari, fiscali, societari, contro la Pubblica amministrazione, contro la vita e la salute dei lavoratori.
Ci chiama «contestatori metodici dell'indulto» e ci accusa di aver «evocato argomenti falsi» pur di tenere «decine di migliaia di miei simili boccheggianti nelle celle della Repubblica». Ma l'unico argomento falso, qui, è il suo, visto che nessuno ha contestato l'indulto: io stesso, un mese fa, scrissi sull'Unità che per sfollare le carceri, anziché l'amnistia, era preferibile un indulto di uno-due anni per i reati che incidono maggiormente sulla popolazione carceraria, esclusi dunque quelli che non vi incidono per nulla (quelli dei colletti bianchi). Ivi compreso l'omicidio, per il quale lo stesso Sofri è detenuto. Sofri scrive che avremmo dimenticato di dire che «Previti non è in carcere e non ci andrà mai più».
In realtà l'abbiamo scritto mille volte: ma abbiamo aggiunto che è ai domiciliari in virtù di una legge ad personam (la ex Cirielli) e che, con l'indulto ad personam, tornerà a piede libero. Non è forse questa la ragione per cui Forza Italia ricatta l'Unione imponendo l'inclusione della corruzione giudiziaria nei reati da condonare? Ma Sofri, a questo proposito, difende Forza Italia («l'indignazione sul ricatto di Forza Italia in pro di Previti è fuori tempo, e largamente pretestuosa e demagogica») con un triplo salto logico carpiato: secondo lui, la responsabilità delle polemiche sull'indulto non è di chi ha preteso di includervi la corruzione giudiziaria, ma di chi ha chiesto - del tutto ragionevolmente - di escluderla visto che per quel reato in carcere non c'è nessuno.
L'altro giorno ho intervistato l'avvocato Bonetto, che rappresenta 800 vittime dell'Eternit e ha appena visto sfumare la trattativa con i responsabili della multinazionale per i risarcimenti ai morti e ai malati da amianto perché la multinazionale medesima ha avuto la garanzia da Roma che entro l'anno passerà l'amnistia; l'avvocato ha poi osservato che, includendo nell'indulto anche l'omicidio colposo per i morti sul lavoro, si garantirà ai colpevoli una sostanziale impunità, visto che per quel reato è pressochè impossibile arrivare a condanne superiori ai 3 anni. In seguito a quell'intervista, uscita su Repubblica e ripresa dall'Unità, la Cgil ha chiesto di escludere dall'indulto gli omicidi colposi e gli altri reati contro la salute e l'incolumità dei lavoratori (anche per questi, non c'è nessun detenuto). Sofri qualifica queste notizie, assolutamente autentiche, verificate e mai smentite da alcuno, come «falsità assolute e ciniche». Lo invito a informarsi meglio: scoprirà che è tutto vero.
Se si informasse prima di distribuire insulti di qua e di là, scoprirebbe pure che quello che lui chiama spregiativamente «popolo dei fax» è composto da tante persone oneste e incensurate, che non hanno mai ammazzato, né frodato, né truffato, né corrotto nessuno e sognano un Paese dove gli onesti vengono premiati e i disonesti puniti. E non sono affatto disposte ad accettare l'impunità per quelli che Sofri sminuisce al rango di «marionette della tragicommedia dell'arte italiana: i Previti, i Moggi, i furbi del quartierino» e che invece la gente normale considera autori di gravissimi illeciti da sanzionare severamente e senza sconti. Questa gente onesta ha vissuto come una violenza inaudita il quinquennio del regime berlusconiano, con le sue indecenze, le sue leggi ad personam e le sue epurazioni bulgare, contro le quali non si ricordano interventi di Sofri. Questa gente onesta ha usato a ragion veduta la parola «regime», insieme all'Unità, a Montanelli, a Eco, a Sartori, a Cordero, a Flores e a tanti altri: non perché fosse caduta nell'«equivoco dell'eroismo antiberlusconista» e si fosse associata al «ritornello del berlusconismo come regime», ma perché la pensava esattamente agli antipodi di Sofri, convinto che «non occorreva coraggio per opporsi al centrodestra, non pendevano la galera o l'esilio o le bastonate sui dissidenti». Ne occorreva eccome, di coraggio, visto che chi non si allineava veniva licenziato dal premier direttamente dalla Bulgaria e poi massacrato per anni a reti unificate. Sofri, bontà sua, riconosce che essere cacciati dalla Rai «è una vergogna». Ma poi non trova di meglio che sbeffeggiare Michele Santoro perché «replicava canticchiando Bella ciao: ma non per salire in montagna, o per sbarcare a Ustica o Ventotene - piuttosto, per andare al Parlamento europeo, o da Celentano». Come se Santoro fosse andato al Parlamento europeo o da Celentano per sfizio, o per mettersi in mostra, e non - molto semplicemente - perché per cinque anni è stato impedito a lui e ai suoi collaboratori di lavorare in tutte le tv del Paese dal padrone d'Italia (che è anche l'editore di Sofri sul Foglio e su Panorama, dove Sofri si è spesso prodotto in coraggiosissime difese di Berlusconi, Mangano e Dell'Utri). E come se, nella lista nera, non fossero compresi molti altri giornalisti e artisti, da Enzo Biagi a Daniele Luttazzi, da Massimo Fini a Oliviero Beha, che non sono neppure andati a Strasburgo o a Rockpolitik e che continuano a non lavorare in virtù di quel veto.
Veramente coraggioso anche l'attacco di Sofri a Piero Ricca, trascinato in tribunale per un'innocua contestazione allo stesso padrone d'Italia e più volte malmenato e trascinato in questura solo per la sua presenza nei luoghi dov'era atteso il padrone d'Italia. Davvero molto elegante, infine, la sua denuncia contro quei «giornalisti di matrice varia, dall'estrema destra all'estrema sinistra» che hanno osato «pubblicare volumi di denuncia strenua delle malefatte e delle pagliacciate di Berlusconi, senza pagare alcun prezzo che non fosse un gran successo editoriale e di pubblico, soldi e fama». Non lo sfiora neppure l'idea che qualcuno pubblichi libri semplicemente per informare i lettori e che i lettori li acquistino semplicemente per essere informati (il fatto che poi quest'opera di informazione comporti, per chi la fa, una gragnuola di querele penali e cause civili da centinaia di miliardi ad opera dello stesso padrone d'Italia ed editore di Sofri, è un effetto collaterale del tutto secondario).
Comprendo che, chiudendo la sua articolessa, Sofri non si dia pace del fatto che nei primi anni ‘90 «Di Pietro era l'eroe popolare del Paese (è successo anche questo)». Sì, è vero, è successo anche questo. È successo che molti italiani, nel 1992-'93, si felicitassero perché finalmente la scritta «La legge è uguale per tutti» che campeggiava nei tribunali si traducesse finalmente in pratica grazie a Di Pietro, Borrelli, D'Ambrosio, Davigo, Colombo, Greco, Boccassini, Ielo e a tanti altri magistrati italiani: che, insomma, i ladri di Stato venissero finalmente trattati come gli altri. È noto che Sofri - per comprensibili motivi personali e per le sue vecchie amicizie craxiane - abbia con la magistratura milanese un rapporto, diciamo così, problematico. Ma dovrà farsene una ragione: il padrone d'Italia nonchè suo editore a Panorama e al Foglio, nonostante gli sforzi, non è ancora riuscito a spegnere in molti italiani l'idea che chi sbaglia deve pagare e che la legge è uguale per tutti.
Fonte: www.unita.it
http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=2319
Qui sotto posto anche l'articolo di Sofri al quale Travaglio risponde, che ho letto. Devo dire che mi ha colpito il tono sprezzante usato da Sofri verso le moltissime persone che considerano grave l'esclusione dei reati dei colletti bianchi...e le difese a spada tratta del suo datore di lavoro.
CATTIVI PENSIERI
di Adriano Sofri
Forse a Furio Colombo dispiacerà di aver suscitato in me, con il suo articolo di ieri («Lettera a Israele»), un pensiero scandaloso sulla sinistra italiana di oggi. Colombo tratta lealmente della propria vicinanza a Israele (da me essenzialmente condivisa) e dell'«altro giornale», rappresentato soprattutto dalle lettere dei lettori, univocamente e accanitamente ostili a Israele. Il problema è rivelatore e delicato: è ben amaro che si sia arrivati, in Italia, al capovolgimento per cui nella sinistra alligna, non solo la legittima e spesso motivata critica alla politica del governo israeliano, ma uno spirito aggressivamente e pregiudizialmente antisraeliano.
Mentre la destra discendente dal peggior antisemitismo tiene a mostrarsi come la più fervida amica e solidale di Israele.
Il paradosso ha radici antiche, che ora non occorre ripercorrere. Voglio piuttosto indicare - è l'associazione di idee che forse vi parrà scandalosa - un parallelo con ciò che succede attorno a questioni come la pace, la guerra e la polizia internazionale, e come l'indulto e la giustizia. Mi è meno difficile argomentarlo grazie alla (malaugurata) coincidenza di questi problemi in un unico e arrischiato passaggio parlamentare. Le lettere antisraeliane citate da Colombo trovano un corrispondente esatto nelle lettere sull'indulto, e in quelle sulla missione in Afghanistan. Sulla Repubblica, giornale cui mi lega una forte simpatia, la consultazione fra decine di migliaia di lettori sul tema dell'indulto ha visto una maggioranza plebiscitaria (superiore addirittura al 96 per cento) contro l'indulto. Nel qual caso la sinistra in cui io credo è in una minoranza del 3 per cento. Ora, non credo affatto che la mia posizione sull'indulto sia legata, se non in minima parte, alla mia più o meno disgraziata esperienza personale: esattamente come la mia solidarietà per Israele, esattamente come la mia avversione radicale alla guerra e il mio favore appassionato per la polizia internazionale. La mia sinistra trova una connessione stretta fra questi temi - e su altri. Del resto, che il nesso non sia casuale, lo mostra il disagio in cui viene ogni volta di nuovo a trovarsi la classe dirigente (uso il concetto così all'ingrosso) della sinistra: ostaggio apparente di una contestazione “popolare” delle proprie scelte - e di singoli e gruppi capaci e felici di esercitare un irresponsabile diritto di veto.
Sarei poco incline a interpretare la questione secondo il divario fra responsabilità dirigente e umori popolari: tanto meno secondo la categoria compiaciuta di società civile. Piuttosto chiederei quanto la classe dirigente della sinistra - non solo la professione politica, parlamentare o partitica, ma anche quella che esercita un'autorità d'opinione, anche Furio Colombo, perfino io - sia nutrice di quegli umori di cui si ritrova incresciosamente ostaggio. Di umori forcaioli, di umori “pacifisti”, di umori “antisionisti”: tutti senza se e senza ma. Resto brevemente all'indulto, avvertendo che scrivo mentre ascolto alla radio la discussione alla Camera, senza sapere come si concluderà, e paventando il peggio: essendo per me il peggio la frustrazione della speranza di decine di migliaia di miei simili boccheggianti nelle celle della Repubblica. I contestatori metodici dell'indulto, capaci di mobilitare il “popolo dei fax” e delle mail e delle lettere (assai meno, come si è visto, e meno male, le persone in piazza), hanno evocato argomenti falsi, e, peggio ancora, ne hanno taciuti altri. Hanno proclamato che mai i reati finanziari e quelli contro la pubblica amministrazione erano stati inclusi nelle misure di clemenza: era falso. È comprensibile che possano esserne ignari profani come me, o come Eugenio Scalfari: non lo è per magistrati in servizio o in carriera politica, nè per trascrittori e portavoce abituali di documenti giudiziari. In particolare, quei reati non furono esclusi nel 1989-90, quando l'ultimo ampio provvedimento di clemenza, per farsi perdonare, scelse di bruciarsi i vascelli alle spalle, deliberando che d'allora in poi occorresse, per ogni misura di clemenza, la maggioranza introvabile dei due terzi. Osservo che quei vascelli alle spalle degli autoassolti erano delle galere, e ai remi erano incatenati i famosi poveri cristi che da allora, per più di quindici anni, sperarono invano in un alleviamento delle loro condizioni sempre più disumane, fino alla condizione attuale, coi detenuti più che raddoppiati. Un'altra piccola notizia i contestatori sdegnati si erano dimenticati di fornire: che Cesare Previti non è in carcere, che Cesare Previti non ci andrà mai più, che è agli arresti domiciliari in una casa (senz'altro confortevole: un attico di 250 metri quadrati, ho letto, per l'esattezza) in una delle più belle piazze romane, che può uscire due volte al giorno per quattro ore, e che dunque, quand'anche - come non è detto - l'applicazione dell'indulto gli offrisse l'affidamento in prova ai servizi sociali, la sua situazione non cambierebbe molto, e che infine nessun indulto lo libererebbe dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Che dunque l'indignazione sul ricatto di Forza Italia in pro di Previti è fuori tempo, e largamente pretestuosa e demagogica. Dicono invece, i contestatori per rendita, che l'indulto impedirà di svolgere i processi, e addirittura che impedirà i risarcimenti alle vittime del lavoro: falsità assolute, e ciniche. (Così la notizia, ripresa dall'Unità ieri, sulla «Eternit», che se fosse vera varrebbe per ogni processo del lavoro, dunque meriterebbe che si scendesse davvero in piazza: solo che non è vera). Infine, la cosa più di fondo che non dicono è che a loro importa poco di Previti, di Moggi, dei furbi del quartierino e di altre marionette della tragicommedia dell'arte italiana: importa loro che le decine di migliaia di disgraziati restino dove sono, come hanno tante volte sostenuto in passato, e importa loro di tenere in scacco il governo e la maggioranza parlamentare, e di prendersi una gran dose di primi piani. Ieri alla Camera l'Italia dei valori (ah, il nome!), che megafonava scandalizzata nella piazza, ha tranquillamente votato insieme ad Alleanza Nazionale e alla Lega. Nel breve tempo trascorso dalla vittoria elettorale ha minacciato di uscire dalla maggioranza se non avesse avuto un ministro per gli italiani all'estero, poi ha spalleggiato un suo esponente eletto coi soli voti del centrodestra Presidente della Commissione Difesa del Senato. Questo integerrimo partito fa ballare la maggioranza di centrosinistra, illude molti cittadini della propria intransigenza, trascina nella stagione politica nuova (e breve, brevissima, di questo passo) l'equivoco dell'eroismo antiberlusconista. Il ritornello del berlusconismo come regime o no, è andato in soffitta, almeno provvisoriamente, senza che se ne siano tirate le somme. Il punto era questo, che rispetto al regime, così come specificamente lo si evocava - come si chiama regime il ventennio fascista - il centrodestra era contemporaneamente meno e più. Più, quanto alla morbida capacità di modellare ed emulare uno spirito pubblico incattivito, inebetito e furbo. Più, quanto alla più volgare selezione alla rovescia di una classe pubblica e di governo. Meno, infinitamente meno, quanto all'esercizio di un potere persecutorio. Non occorreva coraggio per opporsi al centrodestra, non pendevano la galera o l'esilio o le bastonate sui dissidenti. Si poteva, ed era una vergogna, esser cacciati dal proprio posto alla Rai, e replicare canticchiando Bella ciao: ma non per salire in montagna, o per sbarcare a Ustica o Ventotene - piuttosto, per andare al Parlamento europeo, o da Celentano. Un signore, che aveva gridato Buffone a Berlusconi - poi ha scricchiolato un po', spiegando di aver gridato: Puffone - ne ha fatto il titolo per guidare manifestazioni moralizzatrici. Giornalisti, di matrice varia, dall'estrema destra all'estrema sinistra, hanno pubblicato volumi di denuncia strenua delle malefatte e delle pagliacciate di Berlusconi, senza pagare alcun prezzo che non fosse un gran successo editoriale e di pubblico, soldi e fama. Può darsi che costoro, in una circostanza che mettesse davvero a confronto i loro ideali col sacrificio dell'esilio o della galera o della stessa vita, fossero pronti a un vero eroismo. Finora non ne hanno avuto l'occasione, e il cielo li guardi dall'averla. Quando il pubblico ministero Di Pietro era l'eroe popolare del Paese (è successo anche questo), se si fosse immaginato che avrebbe lasciato la toga, così spettacolarmente del resto, e si sarebbe buttato in politica qua e là, e avrebbe fondato un partito e gli avrebbe dato il nome, che cosa si sarebbe pensato?
Intanto mi fermo qui. Argomenti seccanti, no? Magari qualcuno avrà voglia di affrontarli, se si trovi una mezza giornata libera.
Fonte: www.unita.it
Marco Travaglio, bravo giornalista che collabora con l'Unità, risponde al un articolo di Adriano Sofri (che scrive sul Foglio di Giuliano Ferrara/Veronica Lario) anch'esso pubblicato sull'Unità, tema l'indulto.
SOFRI: PENSIERI E RISPOSTE
di Marco Travaglio
Caro direttore, dopo aver difeso Renato Farina prezzolato dal Sisde e avermi qualificato «squadrista» sul Foglio di Giuliano Ferrara (già celebre per aver definito «omicida» l'Unità), Adriano Sofri ha riempito ieri alcune colonne dell'Unità medesima per insolentire, senza più far nomi, non solo il sottoscritto, ma tutti coloro che, anche sull'Unità, hanno contestato l'estensione dell'indulto ai reati finanziari, fiscali, societari, contro la Pubblica amministrazione, contro la vita e la salute dei lavoratori.
Ci chiama «contestatori metodici dell'indulto» e ci accusa di aver «evocato argomenti falsi» pur di tenere «decine di migliaia di miei simili boccheggianti nelle celle della Repubblica». Ma l'unico argomento falso, qui, è il suo, visto che nessuno ha contestato l'indulto: io stesso, un mese fa, scrissi sull'Unità che per sfollare le carceri, anziché l'amnistia, era preferibile un indulto di uno-due anni per i reati che incidono maggiormente sulla popolazione carceraria, esclusi dunque quelli che non vi incidono per nulla (quelli dei colletti bianchi). Ivi compreso l'omicidio, per il quale lo stesso Sofri è detenuto. Sofri scrive che avremmo dimenticato di dire che «Previti non è in carcere e non ci andrà mai più».
In realtà l'abbiamo scritto mille volte: ma abbiamo aggiunto che è ai domiciliari in virtù di una legge ad personam (la ex Cirielli) e che, con l'indulto ad personam, tornerà a piede libero. Non è forse questa la ragione per cui Forza Italia ricatta l'Unione imponendo l'inclusione della corruzione giudiziaria nei reati da condonare? Ma Sofri, a questo proposito, difende Forza Italia («l'indignazione sul ricatto di Forza Italia in pro di Previti è fuori tempo, e largamente pretestuosa e demagogica») con un triplo salto logico carpiato: secondo lui, la responsabilità delle polemiche sull'indulto non è di chi ha preteso di includervi la corruzione giudiziaria, ma di chi ha chiesto - del tutto ragionevolmente - di escluderla visto che per quel reato in carcere non c'è nessuno.
L'altro giorno ho intervistato l'avvocato Bonetto, che rappresenta 800 vittime dell'Eternit e ha appena visto sfumare la trattativa con i responsabili della multinazionale per i risarcimenti ai morti e ai malati da amianto perché la multinazionale medesima ha avuto la garanzia da Roma che entro l'anno passerà l'amnistia; l'avvocato ha poi osservato che, includendo nell'indulto anche l'omicidio colposo per i morti sul lavoro, si garantirà ai colpevoli una sostanziale impunità, visto che per quel reato è pressochè impossibile arrivare a condanne superiori ai 3 anni. In seguito a quell'intervista, uscita su Repubblica e ripresa dall'Unità, la Cgil ha chiesto di escludere dall'indulto gli omicidi colposi e gli altri reati contro la salute e l'incolumità dei lavoratori (anche per questi, non c'è nessun detenuto). Sofri qualifica queste notizie, assolutamente autentiche, verificate e mai smentite da alcuno, come «falsità assolute e ciniche». Lo invito a informarsi meglio: scoprirà che è tutto vero.
Se si informasse prima di distribuire insulti di qua e di là, scoprirebbe pure che quello che lui chiama spregiativamente «popolo dei fax» è composto da tante persone oneste e incensurate, che non hanno mai ammazzato, né frodato, né truffato, né corrotto nessuno e sognano un Paese dove gli onesti vengono premiati e i disonesti puniti. E non sono affatto disposte ad accettare l'impunità per quelli che Sofri sminuisce al rango di «marionette della tragicommedia dell'arte italiana: i Previti, i Moggi, i furbi del quartierino» e che invece la gente normale considera autori di gravissimi illeciti da sanzionare severamente e senza sconti. Questa gente onesta ha vissuto come una violenza inaudita il quinquennio del regime berlusconiano, con le sue indecenze, le sue leggi ad personam e le sue epurazioni bulgare, contro le quali non si ricordano interventi di Sofri. Questa gente onesta ha usato a ragion veduta la parola «regime», insieme all'Unità, a Montanelli, a Eco, a Sartori, a Cordero, a Flores e a tanti altri: non perché fosse caduta nell'«equivoco dell'eroismo antiberlusconista» e si fosse associata al «ritornello del berlusconismo come regime», ma perché la pensava esattamente agli antipodi di Sofri, convinto che «non occorreva coraggio per opporsi al centrodestra, non pendevano la galera o l'esilio o le bastonate sui dissidenti». Ne occorreva eccome, di coraggio, visto che chi non si allineava veniva licenziato dal premier direttamente dalla Bulgaria e poi massacrato per anni a reti unificate. Sofri, bontà sua, riconosce che essere cacciati dalla Rai «è una vergogna». Ma poi non trova di meglio che sbeffeggiare Michele Santoro perché «replicava canticchiando Bella ciao: ma non per salire in montagna, o per sbarcare a Ustica o Ventotene - piuttosto, per andare al Parlamento europeo, o da Celentano». Come se Santoro fosse andato al Parlamento europeo o da Celentano per sfizio, o per mettersi in mostra, e non - molto semplicemente - perché per cinque anni è stato impedito a lui e ai suoi collaboratori di lavorare in tutte le tv del Paese dal padrone d'Italia (che è anche l'editore di Sofri sul Foglio e su Panorama, dove Sofri si è spesso prodotto in coraggiosissime difese di Berlusconi, Mangano e Dell'Utri). E come se, nella lista nera, non fossero compresi molti altri giornalisti e artisti, da Enzo Biagi a Daniele Luttazzi, da Massimo Fini a Oliviero Beha, che non sono neppure andati a Strasburgo o a Rockpolitik e che continuano a non lavorare in virtù di quel veto.
Veramente coraggioso anche l'attacco di Sofri a Piero Ricca, trascinato in tribunale per un'innocua contestazione allo stesso padrone d'Italia e più volte malmenato e trascinato in questura solo per la sua presenza nei luoghi dov'era atteso il padrone d'Italia. Davvero molto elegante, infine, la sua denuncia contro quei «giornalisti di matrice varia, dall'estrema destra all'estrema sinistra» che hanno osato «pubblicare volumi di denuncia strenua delle malefatte e delle pagliacciate di Berlusconi, senza pagare alcun prezzo che non fosse un gran successo editoriale e di pubblico, soldi e fama». Non lo sfiora neppure l'idea che qualcuno pubblichi libri semplicemente per informare i lettori e che i lettori li acquistino semplicemente per essere informati (il fatto che poi quest'opera di informazione comporti, per chi la fa, una gragnuola di querele penali e cause civili da centinaia di miliardi ad opera dello stesso padrone d'Italia ed editore di Sofri, è un effetto collaterale del tutto secondario).
Comprendo che, chiudendo la sua articolessa, Sofri non si dia pace del fatto che nei primi anni ‘90 «Di Pietro era l'eroe popolare del Paese (è successo anche questo)». Sì, è vero, è successo anche questo. È successo che molti italiani, nel 1992-'93, si felicitassero perché finalmente la scritta «La legge è uguale per tutti» che campeggiava nei tribunali si traducesse finalmente in pratica grazie a Di Pietro, Borrelli, D'Ambrosio, Davigo, Colombo, Greco, Boccassini, Ielo e a tanti altri magistrati italiani: che, insomma, i ladri di Stato venissero finalmente trattati come gli altri. È noto che Sofri - per comprensibili motivi personali e per le sue vecchie amicizie craxiane - abbia con la magistratura milanese un rapporto, diciamo così, problematico. Ma dovrà farsene una ragione: il padrone d'Italia nonchè suo editore a Panorama e al Foglio, nonostante gli sforzi, non è ancora riuscito a spegnere in molti italiani l'idea che chi sbaglia deve pagare e che la legge è uguale per tutti.
Fonte: www.unita.it
http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=2319
Qui sotto posto anche l'articolo di Sofri al quale Travaglio risponde, che ho letto. Devo dire che mi ha colpito il tono sprezzante usato da Sofri verso le moltissime persone che considerano grave l'esclusione dei reati dei colletti bianchi...e le difese a spada tratta del suo datore di lavoro.
CATTIVI PENSIERI
di Adriano Sofri
Forse a Furio Colombo dispiacerà di aver suscitato in me, con il suo articolo di ieri («Lettera a Israele»), un pensiero scandaloso sulla sinistra italiana di oggi. Colombo tratta lealmente della propria vicinanza a Israele (da me essenzialmente condivisa) e dell'«altro giornale», rappresentato soprattutto dalle lettere dei lettori, univocamente e accanitamente ostili a Israele. Il problema è rivelatore e delicato: è ben amaro che si sia arrivati, in Italia, al capovolgimento per cui nella sinistra alligna, non solo la legittima e spesso motivata critica alla politica del governo israeliano, ma uno spirito aggressivamente e pregiudizialmente antisraeliano.
Mentre la destra discendente dal peggior antisemitismo tiene a mostrarsi come la più fervida amica e solidale di Israele.
Il paradosso ha radici antiche, che ora non occorre ripercorrere. Voglio piuttosto indicare - è l'associazione di idee che forse vi parrà scandalosa - un parallelo con ciò che succede attorno a questioni come la pace, la guerra e la polizia internazionale, e come l'indulto e la giustizia. Mi è meno difficile argomentarlo grazie alla (malaugurata) coincidenza di questi problemi in un unico e arrischiato passaggio parlamentare. Le lettere antisraeliane citate da Colombo trovano un corrispondente esatto nelle lettere sull'indulto, e in quelle sulla missione in Afghanistan. Sulla Repubblica, giornale cui mi lega una forte simpatia, la consultazione fra decine di migliaia di lettori sul tema dell'indulto ha visto una maggioranza plebiscitaria (superiore addirittura al 96 per cento) contro l'indulto. Nel qual caso la sinistra in cui io credo è in una minoranza del 3 per cento. Ora, non credo affatto che la mia posizione sull'indulto sia legata, se non in minima parte, alla mia più o meno disgraziata esperienza personale: esattamente come la mia solidarietà per Israele, esattamente come la mia avversione radicale alla guerra e il mio favore appassionato per la polizia internazionale. La mia sinistra trova una connessione stretta fra questi temi - e su altri. Del resto, che il nesso non sia casuale, lo mostra il disagio in cui viene ogni volta di nuovo a trovarsi la classe dirigente (uso il concetto così all'ingrosso) della sinistra: ostaggio apparente di una contestazione “popolare” delle proprie scelte - e di singoli e gruppi capaci e felici di esercitare un irresponsabile diritto di veto.
Sarei poco incline a interpretare la questione secondo il divario fra responsabilità dirigente e umori popolari: tanto meno secondo la categoria compiaciuta di società civile. Piuttosto chiederei quanto la classe dirigente della sinistra - non solo la professione politica, parlamentare o partitica, ma anche quella che esercita un'autorità d'opinione, anche Furio Colombo, perfino io - sia nutrice di quegli umori di cui si ritrova incresciosamente ostaggio. Di umori forcaioli, di umori “pacifisti”, di umori “antisionisti”: tutti senza se e senza ma. Resto brevemente all'indulto, avvertendo che scrivo mentre ascolto alla radio la discussione alla Camera, senza sapere come si concluderà, e paventando il peggio: essendo per me il peggio la frustrazione della speranza di decine di migliaia di miei simili boccheggianti nelle celle della Repubblica. I contestatori metodici dell'indulto, capaci di mobilitare il “popolo dei fax” e delle mail e delle lettere (assai meno, come si è visto, e meno male, le persone in piazza), hanno evocato argomenti falsi, e, peggio ancora, ne hanno taciuti altri. Hanno proclamato che mai i reati finanziari e quelli contro la pubblica amministrazione erano stati inclusi nelle misure di clemenza: era falso. È comprensibile che possano esserne ignari profani come me, o come Eugenio Scalfari: non lo è per magistrati in servizio o in carriera politica, nè per trascrittori e portavoce abituali di documenti giudiziari. In particolare, quei reati non furono esclusi nel 1989-90, quando l'ultimo ampio provvedimento di clemenza, per farsi perdonare, scelse di bruciarsi i vascelli alle spalle, deliberando che d'allora in poi occorresse, per ogni misura di clemenza, la maggioranza introvabile dei due terzi. Osservo che quei vascelli alle spalle degli autoassolti erano delle galere, e ai remi erano incatenati i famosi poveri cristi che da allora, per più di quindici anni, sperarono invano in un alleviamento delle loro condizioni sempre più disumane, fino alla condizione attuale, coi detenuti più che raddoppiati. Un'altra piccola notizia i contestatori sdegnati si erano dimenticati di fornire: che Cesare Previti non è in carcere, che Cesare Previti non ci andrà mai più, che è agli arresti domiciliari in una casa (senz'altro confortevole: un attico di 250 metri quadrati, ho letto, per l'esattezza) in una delle più belle piazze romane, che può uscire due volte al giorno per quattro ore, e che dunque, quand'anche - come non è detto - l'applicazione dell'indulto gli offrisse l'affidamento in prova ai servizi sociali, la sua situazione non cambierebbe molto, e che infine nessun indulto lo libererebbe dall'interdizione perpetua dai pubblici uffici. Che dunque l'indignazione sul ricatto di Forza Italia in pro di Previti è fuori tempo, e largamente pretestuosa e demagogica. Dicono invece, i contestatori per rendita, che l'indulto impedirà di svolgere i processi, e addirittura che impedirà i risarcimenti alle vittime del lavoro: falsità assolute, e ciniche. (Così la notizia, ripresa dall'Unità ieri, sulla «Eternit», che se fosse vera varrebbe per ogni processo del lavoro, dunque meriterebbe che si scendesse davvero in piazza: solo che non è vera). Infine, la cosa più di fondo che non dicono è che a loro importa poco di Previti, di Moggi, dei furbi del quartierino e di altre marionette della tragicommedia dell'arte italiana: importa loro che le decine di migliaia di disgraziati restino dove sono, come hanno tante volte sostenuto in passato, e importa loro di tenere in scacco il governo e la maggioranza parlamentare, e di prendersi una gran dose di primi piani. Ieri alla Camera l'Italia dei valori (ah, il nome!), che megafonava scandalizzata nella piazza, ha tranquillamente votato insieme ad Alleanza Nazionale e alla Lega. Nel breve tempo trascorso dalla vittoria elettorale ha minacciato di uscire dalla maggioranza se non avesse avuto un ministro per gli italiani all'estero, poi ha spalleggiato un suo esponente eletto coi soli voti del centrodestra Presidente della Commissione Difesa del Senato. Questo integerrimo partito fa ballare la maggioranza di centrosinistra, illude molti cittadini della propria intransigenza, trascina nella stagione politica nuova (e breve, brevissima, di questo passo) l'equivoco dell'eroismo antiberlusconista. Il ritornello del berlusconismo come regime o no, è andato in soffitta, almeno provvisoriamente, senza che se ne siano tirate le somme. Il punto era questo, che rispetto al regime, così come specificamente lo si evocava - come si chiama regime il ventennio fascista - il centrodestra era contemporaneamente meno e più. Più, quanto alla morbida capacità di modellare ed emulare uno spirito pubblico incattivito, inebetito e furbo. Più, quanto alla più volgare selezione alla rovescia di una classe pubblica e di governo. Meno, infinitamente meno, quanto all'esercizio di un potere persecutorio. Non occorreva coraggio per opporsi al centrodestra, non pendevano la galera o l'esilio o le bastonate sui dissidenti. Si poteva, ed era una vergogna, esser cacciati dal proprio posto alla Rai, e replicare canticchiando Bella ciao: ma non per salire in montagna, o per sbarcare a Ustica o Ventotene - piuttosto, per andare al Parlamento europeo, o da Celentano. Un signore, che aveva gridato Buffone a Berlusconi - poi ha scricchiolato un po', spiegando di aver gridato: Puffone - ne ha fatto il titolo per guidare manifestazioni moralizzatrici. Giornalisti, di matrice varia, dall'estrema destra all'estrema sinistra, hanno pubblicato volumi di denuncia strenua delle malefatte e delle pagliacciate di Berlusconi, senza pagare alcun prezzo che non fosse un gran successo editoriale e di pubblico, soldi e fama. Può darsi che costoro, in una circostanza che mettesse davvero a confronto i loro ideali col sacrificio dell'esilio o della galera o della stessa vita, fossero pronti a un vero eroismo. Finora non ne hanno avuto l'occasione, e il cielo li guardi dall'averla. Quando il pubblico ministero Di Pietro era l'eroe popolare del Paese (è successo anche questo), se si fosse immaginato che avrebbe lasciato la toga, così spettacolarmente del resto, e si sarebbe buttato in politica qua e là, e avrebbe fondato un partito e gli avrebbe dato il nome, che cosa si sarebbe pensato?
Intanto mi fermo qui. Argomenti seccanti, no? Magari qualcuno avrà voglia di affrontarli, se si trovi una mezza giornata libera.
Fonte: www.unita.it