sempreio
15-07-2006, 09:03
Segnali/ Allarme hikikomori, tappati in casa, isolati dal mondo fra chat e videogame
Sabato 18.02.2006 20:00
Negli anni ’80 i giapponesi avevano coniato il termine otaku per definire i giovani “appassionati maniacali”. Nonostante fosse subito evidente che molti eccedevano nelle loro passioni, il termine finì per indicare quelli che, comunque, riescono a conciliare una vita più o meno normale con hobby che richiedono tanto, tanto, tanto tempo da dedicarci.
Gli hikikomori rappresentano un’ulteriore evoluzione. Sono quelli che si sono arresi alle loro passioni hi-tech e hanno deciso, più o meno consapevolmente, di rifiutare la vita esterna. A proprio agio con le “macchine”, hanno sviluppato una vera e propria paura verso gli essere umani e la loro imprevedibilità. Il mondo di questi ragazzi si limita a un orizzonte tecnologico e virtuale, lontano da odori e sapori ma anche dalle emozioni. Molti genitori sminuiscono il problema o fingono di avere a che fare solo con figli particolarmente introversi e difficili: vuoi mettere che soddisfazione per molte mamme averli sempre in casa e non doversi preoccupare di motorini, pasticche e ragazze incinte?
Il problema è che molti dei tecno-passatempi sono così belli e coinvolgenti da causare forme di dipendenza che ricordano molto quelle prodotte dalle droghe. Basta pensare ai role-player fantasy, i videogiochi online, dove si impersonano guerrieri, elfi e maghi in mondi virtuali costruiti fin nel dettaglio sul modello del Signore degli Anelli. Per poter essere apprezzati richiedono ore e ore di gioco e, man mano che passa il tempo, l’eroe impersonato diventa sempre più caratterizzato e quasi vero. E’ così strano scoprire che la sua vita sia più bella ed emozionante di quella reale?
Meglio sedurre e conquistare bellissime dame od elfe piuttosto che faticare dietro banali ragazze della propria città; meglio far crescere in livelli di gioco il personaggio del role-player piuttosto che crescere nella vita reale; meglio credere di essere quasi invincibile piuttosto che accontentarsi della propria mediocrità. Se le uniche prospettive di un ragazzo sono la fatica, la banalità e la noia di una vita grigia e normale, come non comprendere chi si rifugia in un mondo virtuale dove, anche se si muore, si può sempre ricominciare da capo con un nuovo eroe e una nuova vita?
Sabato 18.02.2006 20:00
Negli anni ’80 i giapponesi avevano coniato il termine otaku per definire i giovani “appassionati maniacali”. Nonostante fosse subito evidente che molti eccedevano nelle loro passioni, il termine finì per indicare quelli che, comunque, riescono a conciliare una vita più o meno normale con hobby che richiedono tanto, tanto, tanto tempo da dedicarci.
Gli hikikomori rappresentano un’ulteriore evoluzione. Sono quelli che si sono arresi alle loro passioni hi-tech e hanno deciso, più o meno consapevolmente, di rifiutare la vita esterna. A proprio agio con le “macchine”, hanno sviluppato una vera e propria paura verso gli essere umani e la loro imprevedibilità. Il mondo di questi ragazzi si limita a un orizzonte tecnologico e virtuale, lontano da odori e sapori ma anche dalle emozioni. Molti genitori sminuiscono il problema o fingono di avere a che fare solo con figli particolarmente introversi e difficili: vuoi mettere che soddisfazione per molte mamme averli sempre in casa e non doversi preoccupare di motorini, pasticche e ragazze incinte?
Il problema è che molti dei tecno-passatempi sono così belli e coinvolgenti da causare forme di dipendenza che ricordano molto quelle prodotte dalle droghe. Basta pensare ai role-player fantasy, i videogiochi online, dove si impersonano guerrieri, elfi e maghi in mondi virtuali costruiti fin nel dettaglio sul modello del Signore degli Anelli. Per poter essere apprezzati richiedono ore e ore di gioco e, man mano che passa il tempo, l’eroe impersonato diventa sempre più caratterizzato e quasi vero. E’ così strano scoprire che la sua vita sia più bella ed emozionante di quella reale?
Meglio sedurre e conquistare bellissime dame od elfe piuttosto che faticare dietro banali ragazze della propria città; meglio far crescere in livelli di gioco il personaggio del role-player piuttosto che crescere nella vita reale; meglio credere di essere quasi invincibile piuttosto che accontentarsi della propria mediocrità. Se le uniche prospettive di un ragazzo sono la fatica, la banalità e la noia di una vita grigia e normale, come non comprendere chi si rifugia in un mondo virtuale dove, anche se si muore, si può sempre ricominciare da capo con un nuovo eroe e una nuova vita?