zerothehero
27-06-2006, 22:29
L’uccisione di Al Zarqawi, leader di Al Qaeda in Iraq, compiuta lo scorso 7 giugno dalle forze statunitensi, apre numerosi interrogativi e non arresta le violenze. In Iraq la situazione è lontana dall’essere stabilizzata, anche se il neonato Governo di Nouri Maliki ha annunciato trionfalmente la riuscita di questa azione antiterroristica.
Fabiana Idini
Equilibri.net (27 giugno 2006)
Secondo fonti non sfacciatamente pro-USA la morte del numero uno di Al Qaeda in Iraq non fa che confermare un suo ruolo di secondo piano nel movimento capeggiato da Bin Laden. Poco dopo la sua morte sui siti internet inneggianti alla jihad è stato presentato il suo successore che, a quanto pare, dovrebbe adottare una linea “più morbida” . In effetti la nomea di “macellaio” di Al Zarqawi non gli aveva giovato e la sua crudeltà, specie in azioni contro civili iracheni, aveva avuto l’effetto di allontanare il sostegno delle masse, nonché dei talebani stessi, che premevano per una guida irachena: il leader era infatti di origini giordane. La crescita del movimento talebano si è resa lampante in Afghanistan, dove gli americani, sempre più malvisti, stanno iniziando a ridurre il contingente dell’operazione Enduring Freedom e saranno rimpiazzati in estate da migliaia di soldati NATO. Il sud del paese è infatti preda di continue azioni terroristiche, tanto che nel corso degli ultimi mesi le perdite sono state altissime e la guerra guerriglia sembra aver ripreso nuovo vigore.
Chiuso il capitolo Al Zarqawi
Il 39enne Ahmad Fahdil Nazzal al-Khalayleh, era nato in Giordania, a Zarqa (da cui il suo nomignolo), il più antico campo profughi palestinese a 60 km da Amman. Solo nel 2004 annuncia sul web il suo legame con Bin Laden, “padre di tutti i combattenti”, ma da anni compiva azioni terroristiche e insegnava nei campi di addestramento “l’arte degli esplosivi”. La sua prima apparizione in video, il 25 aprile scorso, svela l’aurea di mistero che lo circondava e mostra un uomo goffo in scarpe da ginnastica intento all’addestramento militare, dove non sembra particolarmente esperto. Quest’uomo, che era stato da poco ferito ad un polmone e secondo alcuni necessitava di un respiratore, è stato rintracciato anche grazie al video (oltre alla collaborazione dei servizi di intelligence giordani). Nel covo dove si teneva la riunione a cui partecipava il giordano, a nord di Baquba, alle ore 18.15 del 7 giugno sono state sganciate due bombe di precisione che hanno portato alla morte di 6 persone, indicati tutti come suoi complici (tra cui una donna e un bambino). I primi dubbi sono sorti dalla foto diffusa del cadavere: sebbene si tratti del solo busto, questo risulta intatto ed è difficile crederlo considerando il tipo di azione, che avrebbe dovuto sbriciolare i corpi. Inoltre gli americani hanno asserito di averlo recuperato già deceduto, ma la polizia irachena ha affermato che sarebbe morto successivamente, in barella. Di certo c’è che si tratta proprio di Al Zarqawi: lo leggiamo nel sito fondamentalista islamico Al-Hisbah. La sua morte segue però il ridimensionamento politico del leader, che era stato trasferito a posizioni più marcatamente militari e già alcune figure avevano preso il suo posto, tra cui spicca quella di Al-baghdadi. Un iracheno sarebbe meno capace di uccidere indiscriminatamente civili e suoi connazionali, dove non aveva avuto scrupoli Al Zarqawi, responsabile di alcuni tra i più cruenti attentati degli ultimi anni in Medio Oriente. In più, in un momento in cui, dopo 6 mesi, era stato possibile creare un Governo di riconciliazione nazionale in Iraq (gli ultimi 2 ministri sono stati nominati proprio il 7 giugno), il terrorista di Zarqa aveva scatenato la guerra civile tra sunniti e sciiti, come aveva annunciato in un messaggio audio il 2 giugno. Lo sterminio degli sciiti, “traditori” perché al potere secondo il leader giordano, aveva complicato la situazione in Iraq, già abbastanza tesa, non facilitando il compito dei talebani di trovare l’appoggio della popolazione. La perdita della figura sbiadita di Al Zarqawi è stato dunque non un duro colpo ad Al Qaeda, come sostengono gli americani, ma ne ha creato un martire proprio nel momento in cui più basso era il suo profilo e più complessa la lotta in un paese martoriato dalla guerra e insofferente per la presenza di truppe straniere sul suo territorio.
Al Qaeda in Afghanistan
L’estensione della rete dei talebani, facilitata dai mezzi di informazione, è impressionante. Al Zarqawi aveva condotto un periodo di addestramento in Afghanistan nel 2000 ad Herat dove avrebbe anche eseguito dei test per la produzione di armi chimiche. All’inizio della sua “carriera”, negli anni ’80, aveva reso un servizio al popolo afgano lottando contro l’invasore sovietico. I campi di addestramento dei talebani, che compiono azioni in Aghanistan, si trovano poi poco dopo il confine col Pakistan, nelle aree tribali del Waziristan, a maggioranza pashtun. Alcuni sostengono che l’ISI (il servizio di intelligence pachistano), o parte di esso, avrebbe favorito la presa del potere dei talebani e ora coprirebbe l’esistenza dei campi di Al Qaeda nel proprio territorio, anche perché il loro finanziamento dipende in gran parte dai proventi dell’immenso mercato dell’oppio (2 miliardi di $ l’anno), i cui capi sarebbero legati intimamente alle azioni terroristiche. James Jones, Generale americano della NATO, ha affermato che la turbolenza delle regioni meridionali dell'Afghanistan, sarebbe da attribuirsi ai narcotrafficanti. La lotta sarà ancora più cruenta se si tiene conto che il raccolto di quest’anno, come afferma l’ONU, sarà superiore agli anni precedenti.
L’esplosione delle azioni di guerriglia negli ultimi mesi in Afghanistan ha portato alla ribalta la questione della pacificazione. Dall’inizio del 2006 sono morte circa 1.500 persone. L’autorità del Governo di Karzai si limita solo alla zona di Kabul, sempre col sostegno delle truppe internazionali dell’ISAF (International Security Assistance Force). In verità il controllo del presidente sembra ormai vacillare anche nella capitale, dopo la rivolta del mese scorso nel quartiere periferico di Khir Khana, scaturita dall’uccisione di alcuni civili che si trovavano nella traiettoria di un convoglio militare americano a tutta velocità (per paura di attacchi, si sono giustificati i conducenti). Questo episodio è dilagato in una protesta che ha portato ad un’irruzione in Parlamento, all’incendio di una sede televisiva e all’evacuazione dell’Ambasciata degli Stati Uniti.
Dal mese di luglio i 9.000 soldati della NATO diverranno 15.000, ma si concentreranno principalmente nelle zone del sud (definite dallo stesso Segretario Generale NATO, Jaap de Hoff Scheffer, “relatively ungoverned”), dove quasi quotidianamente le forze dell’Enduring Freedom rispondono con bombardamenti e rastrellamenti nei villaggi che passano nelle mani dei talebani. L’operazione prevede l’espansione sul territorio: 6 province verranno aggiunte al controllo internazionale, tra cui le turbolente Helmand e Uruzgan; una base di supporto a Kandahar e 4 nuovi PRT (Provincial Reconstruction Team) sono inclusi nel piano. Contribuiranno all’operazione 26 paesi NATO e 10 paesi esterni all’Alleanza atlantica. Un intervento così massiccio di forze non americane è il segnale di una necessità da parte di Washington di concentrarsi sul fronte iracheno e ritirarsi con passo felpato dall’Afghanistan, dando l’idea di almeno una successful action nella lotta al terrorismo internazionale, iniziata in questo paese alla ricerca di Bin Laden dopo il tragico attentato dell’11 settembre 2001. Il mandato previsto per i soldati dell’Alleanza Atlantica, tuttavia, differisce in maniera inequivocabile da quello di Enduring Freedom: mentre gli USA hanno condotto e conducono atti di guerra che sono inquadrabili come antiterrorismo, l’ISAF si qualifica come un intervento di peacekeeping. Questo comporta una differenza nei mezzi militari e negli obiettivi. Di certo il primo passo da fare è comprendere che l’autorità dell’attuale Governo Karzai, percepito dalla popolazione come fantoccio degli USA, abbisogna di un fondamento che non si riduca ai check points armati. In secondo luogo non va ridimensionata l’importanza della credibilità di una classe politica tra le cui fila siedono alcuni signori della guerra, responsabili di uccisioni in massa e torture in passato, nonché di connivenze col mondo della droga.
Se gli afgani intervistati da inviati stranieri hanno affermato che cominciano a credere alla vittoria talebana nel loro paese, è perché gli scandali dell’occupazione straniera, sopratutto quelli legati all'uccisione accidentale di civili, sono visibili in modo sempre più chiaro. Gli stessi così osannati aiuti internazionali non hanno contribuito alla ricostruzione del paese, ma sono stati un business politico ed economico. Il portavoce dell’associazione USAID, che si occupa dei fondi resi dal primo fornitore al mondo di aiuti in Afghanistan, ovviamente gli USA, ha ammesso che “la priorità non è il progresso dell’Afghanistan, ma l’apparenza di questo progresso”. Tutti questi fattori favoriscono, non peggiorano, l’espansione dei talebani in Afghanistan. C’è da aggiungere, inoltre, che il comando della missione NATO dopo 9 mesi passa dalle mani italiane a quelle inglesi. Mentre i primi hanno reso un servizio di marca prevalentemente umanitaria, benvisto dalla popolazione, non sarà così per gli inglesi, la cui presenza è interpretata come la quarta guerra anglo-afgana. Inoltre l'annuncio del 4 maggio di una saldatura di Al Qaeda con il capopopolo Gulbuddin Hekmatyar, con forti radici nel paese, non preannuncia niente di buono per la missione NATO, che non possono certo contare più di tanto sul supporto dell’esercito afgano: di una prima missione inviata nella regione di Helmand un soldato afgano su quattro ha disertato.
Conclusioni
L’incapacità statunitense di comprendere il fenomeno terrorista di Al Qaeda ha facilitato la sua diffusione in Medio Oriente. L’ uccisione di uno dei leader di Al Qaida, Al Zarqawi, già criticato dai suoi stessi adepti, non costituisce una battuta d’arresto. Semmai ne crea un martire. Ciò è ben evidente nella perdita di controllo da parte del Governo Karzai in Afghanistan, dove la diffusione talebana ha spinto la NATO ad incrementare il numero dei suoi soldati. Si assiste non ad una pacificazione quindi, ma ad una “enduring war”.
Fabiana Idini
Equilibri.net (27 giugno 2006)
Secondo fonti non sfacciatamente pro-USA la morte del numero uno di Al Qaeda in Iraq non fa che confermare un suo ruolo di secondo piano nel movimento capeggiato da Bin Laden. Poco dopo la sua morte sui siti internet inneggianti alla jihad è stato presentato il suo successore che, a quanto pare, dovrebbe adottare una linea “più morbida” . In effetti la nomea di “macellaio” di Al Zarqawi non gli aveva giovato e la sua crudeltà, specie in azioni contro civili iracheni, aveva avuto l’effetto di allontanare il sostegno delle masse, nonché dei talebani stessi, che premevano per una guida irachena: il leader era infatti di origini giordane. La crescita del movimento talebano si è resa lampante in Afghanistan, dove gli americani, sempre più malvisti, stanno iniziando a ridurre il contingente dell’operazione Enduring Freedom e saranno rimpiazzati in estate da migliaia di soldati NATO. Il sud del paese è infatti preda di continue azioni terroristiche, tanto che nel corso degli ultimi mesi le perdite sono state altissime e la guerra guerriglia sembra aver ripreso nuovo vigore.
Chiuso il capitolo Al Zarqawi
Il 39enne Ahmad Fahdil Nazzal al-Khalayleh, era nato in Giordania, a Zarqa (da cui il suo nomignolo), il più antico campo profughi palestinese a 60 km da Amman. Solo nel 2004 annuncia sul web il suo legame con Bin Laden, “padre di tutti i combattenti”, ma da anni compiva azioni terroristiche e insegnava nei campi di addestramento “l’arte degli esplosivi”. La sua prima apparizione in video, il 25 aprile scorso, svela l’aurea di mistero che lo circondava e mostra un uomo goffo in scarpe da ginnastica intento all’addestramento militare, dove non sembra particolarmente esperto. Quest’uomo, che era stato da poco ferito ad un polmone e secondo alcuni necessitava di un respiratore, è stato rintracciato anche grazie al video (oltre alla collaborazione dei servizi di intelligence giordani). Nel covo dove si teneva la riunione a cui partecipava il giordano, a nord di Baquba, alle ore 18.15 del 7 giugno sono state sganciate due bombe di precisione che hanno portato alla morte di 6 persone, indicati tutti come suoi complici (tra cui una donna e un bambino). I primi dubbi sono sorti dalla foto diffusa del cadavere: sebbene si tratti del solo busto, questo risulta intatto ed è difficile crederlo considerando il tipo di azione, che avrebbe dovuto sbriciolare i corpi. Inoltre gli americani hanno asserito di averlo recuperato già deceduto, ma la polizia irachena ha affermato che sarebbe morto successivamente, in barella. Di certo c’è che si tratta proprio di Al Zarqawi: lo leggiamo nel sito fondamentalista islamico Al-Hisbah. La sua morte segue però il ridimensionamento politico del leader, che era stato trasferito a posizioni più marcatamente militari e già alcune figure avevano preso il suo posto, tra cui spicca quella di Al-baghdadi. Un iracheno sarebbe meno capace di uccidere indiscriminatamente civili e suoi connazionali, dove non aveva avuto scrupoli Al Zarqawi, responsabile di alcuni tra i più cruenti attentati degli ultimi anni in Medio Oriente. In più, in un momento in cui, dopo 6 mesi, era stato possibile creare un Governo di riconciliazione nazionale in Iraq (gli ultimi 2 ministri sono stati nominati proprio il 7 giugno), il terrorista di Zarqa aveva scatenato la guerra civile tra sunniti e sciiti, come aveva annunciato in un messaggio audio il 2 giugno. Lo sterminio degli sciiti, “traditori” perché al potere secondo il leader giordano, aveva complicato la situazione in Iraq, già abbastanza tesa, non facilitando il compito dei talebani di trovare l’appoggio della popolazione. La perdita della figura sbiadita di Al Zarqawi è stato dunque non un duro colpo ad Al Qaeda, come sostengono gli americani, ma ne ha creato un martire proprio nel momento in cui più basso era il suo profilo e più complessa la lotta in un paese martoriato dalla guerra e insofferente per la presenza di truppe straniere sul suo territorio.
Al Qaeda in Afghanistan
L’estensione della rete dei talebani, facilitata dai mezzi di informazione, è impressionante. Al Zarqawi aveva condotto un periodo di addestramento in Afghanistan nel 2000 ad Herat dove avrebbe anche eseguito dei test per la produzione di armi chimiche. All’inizio della sua “carriera”, negli anni ’80, aveva reso un servizio al popolo afgano lottando contro l’invasore sovietico. I campi di addestramento dei talebani, che compiono azioni in Aghanistan, si trovano poi poco dopo il confine col Pakistan, nelle aree tribali del Waziristan, a maggioranza pashtun. Alcuni sostengono che l’ISI (il servizio di intelligence pachistano), o parte di esso, avrebbe favorito la presa del potere dei talebani e ora coprirebbe l’esistenza dei campi di Al Qaeda nel proprio territorio, anche perché il loro finanziamento dipende in gran parte dai proventi dell’immenso mercato dell’oppio (2 miliardi di $ l’anno), i cui capi sarebbero legati intimamente alle azioni terroristiche. James Jones, Generale americano della NATO, ha affermato che la turbolenza delle regioni meridionali dell'Afghanistan, sarebbe da attribuirsi ai narcotrafficanti. La lotta sarà ancora più cruenta se si tiene conto che il raccolto di quest’anno, come afferma l’ONU, sarà superiore agli anni precedenti.
L’esplosione delle azioni di guerriglia negli ultimi mesi in Afghanistan ha portato alla ribalta la questione della pacificazione. Dall’inizio del 2006 sono morte circa 1.500 persone. L’autorità del Governo di Karzai si limita solo alla zona di Kabul, sempre col sostegno delle truppe internazionali dell’ISAF (International Security Assistance Force). In verità il controllo del presidente sembra ormai vacillare anche nella capitale, dopo la rivolta del mese scorso nel quartiere periferico di Khir Khana, scaturita dall’uccisione di alcuni civili che si trovavano nella traiettoria di un convoglio militare americano a tutta velocità (per paura di attacchi, si sono giustificati i conducenti). Questo episodio è dilagato in una protesta che ha portato ad un’irruzione in Parlamento, all’incendio di una sede televisiva e all’evacuazione dell’Ambasciata degli Stati Uniti.
Dal mese di luglio i 9.000 soldati della NATO diverranno 15.000, ma si concentreranno principalmente nelle zone del sud (definite dallo stesso Segretario Generale NATO, Jaap de Hoff Scheffer, “relatively ungoverned”), dove quasi quotidianamente le forze dell’Enduring Freedom rispondono con bombardamenti e rastrellamenti nei villaggi che passano nelle mani dei talebani. L’operazione prevede l’espansione sul territorio: 6 province verranno aggiunte al controllo internazionale, tra cui le turbolente Helmand e Uruzgan; una base di supporto a Kandahar e 4 nuovi PRT (Provincial Reconstruction Team) sono inclusi nel piano. Contribuiranno all’operazione 26 paesi NATO e 10 paesi esterni all’Alleanza atlantica. Un intervento così massiccio di forze non americane è il segnale di una necessità da parte di Washington di concentrarsi sul fronte iracheno e ritirarsi con passo felpato dall’Afghanistan, dando l’idea di almeno una successful action nella lotta al terrorismo internazionale, iniziata in questo paese alla ricerca di Bin Laden dopo il tragico attentato dell’11 settembre 2001. Il mandato previsto per i soldati dell’Alleanza Atlantica, tuttavia, differisce in maniera inequivocabile da quello di Enduring Freedom: mentre gli USA hanno condotto e conducono atti di guerra che sono inquadrabili come antiterrorismo, l’ISAF si qualifica come un intervento di peacekeeping. Questo comporta una differenza nei mezzi militari e negli obiettivi. Di certo il primo passo da fare è comprendere che l’autorità dell’attuale Governo Karzai, percepito dalla popolazione come fantoccio degli USA, abbisogna di un fondamento che non si riduca ai check points armati. In secondo luogo non va ridimensionata l’importanza della credibilità di una classe politica tra le cui fila siedono alcuni signori della guerra, responsabili di uccisioni in massa e torture in passato, nonché di connivenze col mondo della droga.
Se gli afgani intervistati da inviati stranieri hanno affermato che cominciano a credere alla vittoria talebana nel loro paese, è perché gli scandali dell’occupazione straniera, sopratutto quelli legati all'uccisione accidentale di civili, sono visibili in modo sempre più chiaro. Gli stessi così osannati aiuti internazionali non hanno contribuito alla ricostruzione del paese, ma sono stati un business politico ed economico. Il portavoce dell’associazione USAID, che si occupa dei fondi resi dal primo fornitore al mondo di aiuti in Afghanistan, ovviamente gli USA, ha ammesso che “la priorità non è il progresso dell’Afghanistan, ma l’apparenza di questo progresso”. Tutti questi fattori favoriscono, non peggiorano, l’espansione dei talebani in Afghanistan. C’è da aggiungere, inoltre, che il comando della missione NATO dopo 9 mesi passa dalle mani italiane a quelle inglesi. Mentre i primi hanno reso un servizio di marca prevalentemente umanitaria, benvisto dalla popolazione, non sarà così per gli inglesi, la cui presenza è interpretata come la quarta guerra anglo-afgana. Inoltre l'annuncio del 4 maggio di una saldatura di Al Qaeda con il capopopolo Gulbuddin Hekmatyar, con forti radici nel paese, non preannuncia niente di buono per la missione NATO, che non possono certo contare più di tanto sul supporto dell’esercito afgano: di una prima missione inviata nella regione di Helmand un soldato afgano su quattro ha disertato.
Conclusioni
L’incapacità statunitense di comprendere il fenomeno terrorista di Al Qaeda ha facilitato la sua diffusione in Medio Oriente. L’ uccisione di uno dei leader di Al Qaida, Al Zarqawi, già criticato dai suoi stessi adepti, non costituisce una battuta d’arresto. Semmai ne crea un martire. Ciò è ben evidente nella perdita di controllo da parte del Governo Karzai in Afghanistan, dove la diffusione talebana ha spinto la NATO ad incrementare il numero dei suoi soldati. Si assiste non ad una pacificazione quindi, ma ad una “enduring war”.